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lunedì 20 gennaio 2014

§ 043 200114 Sensazionale scoperta di lingue di sarda a Cirò Marina.



Ovvero della particolare intelligenza dei dialetti.
   I dialetti scendono nel profondo del sentire e ne trattengono memoria. Diciamo, ad esempio, 'a lingua da sarda', 'far a lingua da sarda' (che non ha nulla a che vedere con la 'limba', cioè la lingua parlata dai sardi).     Probabilmente è una mia convinzione balzana, 'stròlica', come si direbbe a Cirò e dintorni... Ma io, in verità, in verità vi dico... che in quella frase sopravvive una memoria interna del dialetto, insopprimibile, qualcosa come una impronta (e un imprinting... no?)
La domanda a questo punto è ovvia: cosa c’è di tanto particolare in quella frasetta? ‘Far a lingua da sarda’ significa desiderare ardentemente qualcosa, come si può desiderare, ad esempio, di bere in tempi di arsura o come si può desiderare, ed invocare, la pioggia in tempo di siccità e di scarso raccolto.
Il parlante, cirotano ma non solo, probabilmente un po’ distratto o un tantino disinteressato a ‘strolichijàggini’ del genere, penserà alla sete che deriva dal consumo di sarde salate… sì, è una spiegazione che potrebbe andar bene… forse. Magari il suddetto parlante potrebbe anche esserne convinto, di questa dimostrazione… ma pensare ad una traduzione del tipo ‘fare (sentirsi) la lingua come quella di una sarda’, per quanto salata, non significa nulla: le sarde non hanno sete, non credo proprio… E allora? E allora ricordiamo di provenire da un grande stato sovrano, da quella comunità molto più compatta della attuale, che era il Regno delle Due Sicilie, e facciamo un salto verso il nord di questo antico regno, fino a Castelvenere, in provincia di Benevento, cittadina che diede i natali al potente vescovo di Benevento Barbato (603-683)… in quel paesello si usava, presso i vieneresi - come si chiamano gli abitanti di Castelvenere - invocare il santo perché portasse la pioggia… orbene, il simulacro di Barbato venne portato in processione lungo un vallone o un torrente e, protraendosi l’attesa della pioggia, i fedeli pensarono bene di porre una sarda salata in bocca al santo per accelerare l’arrivo della medesima, sia per dissetare il santo, sia per scacciare la siccità dai campi… nulla avvenendo, i fedeli, scornati e infuriati, scaraventarono la statua giù da quella che oggi ricordano come la ‘ripa di San Barbato’…
Fine dell’aneddoto, col quale volevo sottolineare la diffusione di talune pratiche e convinzioni, comuni a buona parte del meridione d’Italia.
E veniamo alla spiegazione della frase, secondo il mio modo di intendere: non è la lingua che diventa come quella della sarda… ma sono le qualità della sarda che si impossessano della lingua… ‘da sarda’ non è complemento di specificazione, ma di materia, per così dire, cioè la lingua diventa come una sarda salata messa in bocca… è come quando si dice ‘pijàr du mestinu’, più o meno… ma qui San Barbato non mi aiuta. E mancu Santu Catàvuru meju… Del resto il busillis è tutto in quel ‘da’ che andrebbe scritto in maniera differente, ma il dialetto è spesso considerato come un intruso, se non come qualcosa di cui vergognarsi o da usare per battutine ‘spessatamente’ sconce…. Pazienza.

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