Ovvero della
particolare intelligenza dei dialetti.
I dialetti scendono nel profondo del
sentire e ne trattengono memoria. Diciamo, ad esempio, 'a lingua da sarda',
'far a lingua da sarda' (che non ha nulla a che vedere con la 'limba', cioè la
lingua parlata dai sardi). Probabilmente è una mia convinzione balzana,
'stròlica', come si direbbe a Cirò e dintorni... Ma io, in verità, in verità vi
dico... che in quella frase sopravvive una memoria interna del dialetto,
insopprimibile, qualcosa come una impronta (e un imprinting... no?)
La
domanda a questo punto è ovvia: cosa c’è di tanto particolare in quella
frasetta? ‘Far a lingua da sarda’ significa desiderare ardentemente qualcosa,
come si può desiderare, ad esempio, di bere in tempi di arsura o come si può
desiderare, ed invocare, la pioggia in tempo di siccità e di scarso raccolto.
Il
parlante, cirotano ma non solo, probabilmente un po’ distratto o un tantino
disinteressato a ‘strolichijàggini’ del genere, penserà alla sete che deriva
dal consumo di sarde salate… sì, è una spiegazione che potrebbe andar bene…
forse. Magari il suddetto parlante potrebbe anche esserne convinto, di questa
dimostrazione… ma pensare ad una traduzione del tipo ‘fare (sentirsi) la lingua
come quella di una sarda’, per quanto salata, non significa nulla: le sarde non
hanno sete, non credo proprio… E allora? E allora ricordiamo di provenire da un
grande stato sovrano, da quella comunità molto più compatta della attuale, che
era il Regno delle Due Sicilie, e facciamo un salto verso il nord di questo
antico regno, fino a Castelvenere, in provincia di Benevento, cittadina che
diede i natali al potente vescovo di Benevento Barbato (603-683)… in quel
paesello si usava, presso i vieneresi - come si chiamano gli abitanti di
Castelvenere - invocare il santo perché portasse la pioggia… orbene, il
simulacro di Barbato venne portato in processione lungo un vallone o un
torrente e, protraendosi l’attesa della pioggia, i fedeli pensarono bene di
porre una sarda salata in bocca al santo per accelerare l’arrivo della medesima,
sia per dissetare il santo, sia per scacciare la siccità dai campi… nulla
avvenendo, i fedeli, scornati e infuriati, scaraventarono la statua giù da
quella che oggi ricordano come la ‘ripa di San Barbato’…
Fine
dell’aneddoto, col quale volevo sottolineare la diffusione di talune pratiche e
convinzioni, comuni a buona parte del meridione d’Italia.
E
veniamo alla spiegazione della frase, secondo il mio modo di intendere: non è
la lingua che diventa come quella della sarda… ma sono le qualità della sarda
che si impossessano della lingua… ‘da sarda’ non è complemento di
specificazione, ma di materia, per così dire, cioè la lingua diventa come una
sarda salata messa in bocca… è come quando si dice ‘pijàr du mestinu’, più o
meno… ma qui San Barbato non mi aiuta. E mancu Santu Catàvuru meju… Del resto
il busillis è tutto in quel ‘da’ che andrebbe scritto in maniera differente, ma
il dialetto è spesso considerato come un intruso, se non come qualcosa di cui
vergognarsi o da usare per battutine ‘spessatamente’ sconce…. Pazienza.
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