Riporto dal sito dell'Archivio Storico di Crotone questo articolo, del professor Andrea Pesavento, in cui si parla di un aspetto che ritengo poco noto della storia cirotana, ovvero l'esistenza dell'abitato di Alichia. E' una storia che mi sembra molto attraente, anche avvolta come è in un suo particolare alone di mistero, dentro il quale Andrea Pesavento sembra muoversi con sicurezza, nell'intento di allontanare dubbi e incertezze.
Nota: non sono riuscito a contattare l'autore del testo, ma credo che cercare di diffondere conoscenze, riconoscendone i meriti a chi di quelle si fa portatore, sia attitudine non spregevole. Soprattutto questo è il senso di queste mie 'presentazioni' senza pretese.
Per quanto riguarda il testo, l'intervento del sottoscritto si limita alla modifica delle note e della formattazione.
L’abitato
di Alichia, la foresta regia ed il palazzo Alitio.
di Andrea PESAVENTO
(pubblicato su La Provincia KR nr. 19-20/1998)
(pubblicato su La Provincia KR nr. 19-20/1998)
Origine
di Alichia.
La
difesa o foresta regia di Alichia sorgeva presso l’odierna Punta Alice, dove
anticamente c’era il tempio di Apollo Aleo e, similmente al tempio di Hera
Lacina, il suo bosco sacro. Come in tutte le foreste regie era vietato
introdurre animali, esercitare la caccia ed il taglio indiscriminato di alberi.
La popolazione di solito vi esercitava gli usi civici; cioè poteva far legna
per uso di masseria e per costruire le case, gli attrezzi di lavoro ecc.,
pascolava il proprio bestiame, raccoglieva i frutti caduti dagli alberi ed a
volte poteva anche seminare nelle radure, sempre però col consenso e sotto la
vigilanza del magistro forestario il quale custodiva il patrimonio boschivo,
facendo rispettare i divieti, come quello di cacciare i piccoli dei daini e dei
cervi da aprile a giugno, perseguiva e applicava le pene previste ai
trasgressori e concedeva, previo pagamento, il pascolo[1].
Vicino ad essa sorse nel Duecento l’abitato di Alichia che, secondo la
testimonianza della sua stessa università, fu edificato e formato al tempo
dell’imperatore Federico II[2].
Noi lo troviamo per la prima volta nelle “Carte” della abbazia di S. Angelo de
Frigillo.
In
un atto di vendita rogato in Alichia il 10 marzo 1258, regnando Corradino,
davanti al giudice Casadore ed al pubblico notaio Costantino, entrambi della
stessa terra, ed a testimoni, Giovanni, abate di S. Angelo de Frigillo, per
fare fronte alle necessità del monastero ed in particolare al pagamento della
colletta, col consenso della comunità, vendeva per dodici once d’oro a Nicola
Cortieri di Bari ed a Nicola Corbolo di Matera, duecento pecore lattifere con
altrettanti agnelli, i quali, pur rimanendo in custodia allo stesso monastero,
dovevano essere consegnate, su richiesta degli acquirenti, il mese successivo[3].
Il documento oltre a mettere in evidenza l’esistenza di una numerosa comunità
con i suoi organi amministrativi e politici, ci informa dell’esistenza di un
luogo di imbarco. Quest’ultimo è anche confermato da un documento dei primi
anni angioini, che contiene una concessione di re Carlo I d’Angiò al milite
Giovanni Rocca. Da esso si apprende che il re concedeva al milite di estrarre
le vettovaglie delle sue masserie di Crotone e Stilo da Alichia per Rocca
Niciforo, per uso suo e della sua famiglia[4].
La
distruzione del regio palazzo.
Sempre
in questi anni divampò una ribellione popolare alla quale parteciparono gli
abitanti di Alichia e dei paesi vicini. Essa ebbe origine dalle mutate
condizioni in cui si trovarono a vivere gli abitanti per l’arrivo dei nuovi
dominatori, quasi tutti militi francesi che avevano aiuto il re Carlo I d’Angiò
nella conquista ed ora volevano la loro ricompensa. Cause della sollevazione
furono probabilmente in primo luogo l’esazione della tassa sul passo da coloro
che transitavano con animali e merci sull’incrocio tra la via, che portava ai
paesi dell’interno, e l’antica strada regia che passava proprio accanto al
palazzo[5] e anche l’imposizione di diritti
privativi sulla foresta, come quello del divieto di caccia. Entrambe le
vessazioni erano perpetrate dal cavaliere che aveva avuto in concessione la
custodia e lo sfruttamento delle proprietà regie che erano appunto costituite
dal palazzo “cum passagiis” e dalla foresta o difesa di Alichia. Il regio
palazzo di “Alitio”, simbolo della oppressione regia e feudale, venne devastato
e distrutto, tanto che nel 1275 il re Carlo I d’Angiò ordinava al giustiziere
di Val di Crati e Terra Giordana di perseguitare gli abitanti delle terre
vicine e di costringerli a riedificare a loro spese il regio palazzo[6].
Le usurpazioni continuarono soprattutto da parte del feudatario di Ypsigrò, il
cavaliere Giovanni detto Turbecto di Harby, tanto che il re dovette incaricare
nuovamente il giustiziere di intervenire, questa volta in favore della
popolazione di Alichia che era stata privata di terre e di diritti[7].
Al tempo della rivolta, come risulta dai registri delle collette dell’anno
1276, la terra di Alichia era tassata per once 46 tari 18 e grana 12, mentre la
vicina Ipsigrò per once 72 tari 9 e grana 12[8].
Secondo il Pardi Alichia allora aveva 2331 abitanti[9].
Due anni dopo la difesa di Alichia e quella di Crotone sono citate tra le nove
foreste regie esistenti in Calabria[10].
Devastazione
di Alichia e custodi della foresta.
Scoppiata
la guerra del Vespro, nel 1283 Alichia fu devastata dagli Aragonesi che vi
uccisero le persone più importanti, ferirono molti e altri dovettero fuggire[11].
Ritroviamo la terra di Alichia, la foresta ed il palazzo regio in alcuni
documenti del 1292. In quell’anno re Carlo II d’Angiò rimosse il milite Ioanne
de Genua e concesse la custodia della difesa e del palazzo di Alichia e Turris
Insule al milite Andrea de Pratis[12],
mentre il milite Donnabruna da Cosenza godeva sulle entrate fiscali della terra
di Alichia un dono di 24 once, a lui concesse da Roberto d’Artois, vicario di
re Carlo II d’Angiò[13].
L’esistenza di un attracco è ancora segnalato all’inizio del Trecento, infatti
nel 1307 la bagliva di Alichia fu affittata per once 3 e tarì 15 e la bagliva
marittima per once 5 e tarì 15[14].
Anche
l’esistenza della sua chiesa, probabilmente luogo di culto cristiano presso
l’antico tempio pagano[15],
è segnalata in questi anni. Nel versamento delle collette del 1325 compaiono
d.nus Bartholomeus de Alichia che versò 10 grana e d.nus Nicolaus de Alichia
versò un tarì[16].
Feudatari
e spopolamento.
Sempre
in questi anni Alichia cambiava feudatario. Al milite Pietro Athelas o Exelat
che aveva ottenuto in feudo le terre di Alichia e di Ypsigrò ed il castrum di
Melissa, succedeva il figlio Pernotto che morì senza eredi. Dapprima le rendite
dei tre feudi valutate in 80 once furono divise in 8 parti, una venne concessa
ad Americo de Possiaco e le rimanenti a Druetto de Regibaio[17],
poi Alichia, Ypsigrò e altre terre passarono in dominio del maestro di conti di
re Roberto, Leone de Regio[18].
Con il matrimonio tra Sibilla de Regio e Pietro Ruffo, primogenito del conte di
Catanzaro Giovanni, Alichia e Ypsigrò passarono ai Ruffo. Un contratto di
locazione “in perpetuum” dell’agosto 1334 attesta che in quell’anno il conte
Pietro Ruffo e la moglie ne erano pienamente signori[19].
E’ questo l’ultimo atto che attesta l’esistenza dell’abitato poi Alichia, come
anche altri abitati vicini, spopolò e non rimase più traccia. La foresta, il
palazzo, i diritti e le altre proprietà feudali rimasero legati alle vicende
della casata dei Ruffo[20]
e andarono a far parte del feudo di Ypsigrò. Nel 1426 il papa Martino V
confermava le concessioni fatte a Nicolò Ruffo dai re di Sicilia e tra queste
troviamo “Ypsigrò cum pertinentiis Alitii[21].
Alla morte di Nicolò esse passarono alla figlia Giovanella e quindi a
Errichetta che andò sposa ad Antonio Centelles. Con la sconfitta del marchese
di Crotone da parte di re Alfonso d’Aragona, le terre furono confiscate e
gestite dalla regia corte. Nei capitoli approvati dal re l’otto novembre 1444
all’atto della resa di Ypcigro ricompare la località Aligia. Il re infatti
approvò che la città potesse conservare il mercato franco sotto il titolo di
Santa Croce che iniziava il 3 maggio e durava otto giorni in Aligia[22].
Un documento della metà del Quattrocento che tratta le concessioni fatte dal re
sulle entrate del ducato di Calabria riporta che “Perii Antoni de Taberna a de
gratia lo tenimento de Borda, lo curso de Puzello, la ballya de la marina de lo
Ypcigrò, valeno l’anno D. CLXXX; Notare Nufrio Smirando (?) a de gratia li
comuni lo curso de li Alici e lo curso de San Blasi che so a lo Yciro valeno D.
LXXXX”[23].
La
foresta e il palazzo di Alichia.
Un
successivo documento della fine del Quattrocento, descrivendo le entrate che
provenivano alla corte dal feudo di Ypcirò ci porta a conoscenza che parte
della grande foresta era stata messa a coltura. Vicino allo “palaczo delli
Alici“ era stato fatto un giardino con alberi da frutto. Vi erano quattro
tomolate di terra adatte alla semina dalle quali si potevano ricavare 20 tomola
di grano ed un esteso oliveto. La corte poi affittava un porcile ed il pascolo
sul corso “delli Alici”[24].
La
terra di Ypsigrò, che dopo la scomparsa del Centelles era stata posta in regio
demanio, nel 1496 fu venduta assieme ad altre terre ad Andrea Carrafa[25]
e alla sua morte passò al nipote Galeotto Carrafa[26].
Quindi pervenne nel 1543 ad Pietro Antonio Abenante il quale nel 1548 ottenne
dall’indebitata università la cessione di alcuni diritti civici e cioè la metà
del diritto di pascolo, che gli abitanti godevano per otto mesi dell’anno, dal
primo gennaio a fine ottobre, nelle difese Piana, Ardetti e Cappelliere, e otto
mesi per l’anno intero del pascolo di cui essi avevano diritto tanto sui
territori aggiunti alle difese sopracitate, quanto su Arderia, ossia S. Vennere
soprana, e sottana. Ypsigrò passò poi nel 1569 in potere degli Spinelli e vi
rimase fino all’eversione della feudalità[27].
Il
Borgo San Pietro ed il lago Le Vurghe a Punta Alice.
Testimonianze
sul palazzo di Alichia e sul paesaggio circostante le ritroviamo nel Seicento.
In un atto di vendita del suffeudo detto il Corso di Puzzello e della sua
antichissima torre, nel descriverne i confini troviamo che “cominciando dallo
stomio, nel quale finisce la fiumara detta lipuda per essa fiumara in su sino
alla via publica per la quale si fa viaggio venendo da Cotrone et per d.a via
publica rivoltando verso il palaczo dell’Alice siegue p. d.a via via perfino
allo luogo d.o la crocevia del Palazzo et da la salendo va a ferire alla serra
della Cropia...”[28].
Era
tradizione presso gli abitanti di Cirò che anticamente la città fosse situata
presso il mare “in promontorio Alecio” e qui essi si convertirono alla fede
cristiana dall’apostolo Pietro quando dovette rifugiarsi a causa di una
tempesta nel suo viaggio dalla Grecia a Napoli. Perciò dove era la città di
Crimissa volgarmente si diceva il “Burgo di S. Pietro” e poiché il luogo era
pieno di cespugli e di spini, abbondava di serpenti velenosi[29]. Il
“Borgo di S. Pietro” più volte citato nelle relazioni dei vescovi di
Umbriatico, deve probabilmente il suo nome all’abitato e alla chiesa scomparsa
di Alichia. Esso nel Seicento era una piccola isola che d’estate la siccità
trasformava in penisola[30] all’interno
di un lago, alimentato dai ruscelli che scendevano dalle colline. Per secoli
esso celerà i resti dell’antico tempio greco di Apollo Aleo. Dall’apprezzo
compilato dal tavolario Giovan Battista Manni sul finire del Seicento si
apprende che tra i beni feudali di Cirò vi erano “la possessione detta l’Alice
con suo giardino, passo, falangaggio e Palazzo, quale sta situato nel più
eminente luogo di detto giardino, seu possessione, nel quale territorio vi sono
sette piante di amendole, dodici di cedrangolo, certe poche viti, piante di
pruna, di pera, di mela, e di olive. Il palazzo è di figura quadra, con quattro
baluardi a modo di fortezza.... la difesa piana.. quale al presente serve per
pascolo, e può servire anche per semina, e vi sono certi piedi di cerque e
lentischi... l’oliveto grande.. nel quale vi sono certe partite boscose con
lentischi ed olivastri.. vi è una torre vecchia sfondata vicino la quale vi è
una cappella sotto il titolo di S. Maria della Catena[31] e
vicino l’olivetello vi è un trappeto di fabrica per macinare ulive quale
consiste in due bassi.. Le Vurghe, terre di padula per causa che l’inverno è
sito che inonda, perché il suo piano è quasi a livello del mare, e l’acqua
piovana che viene dalli territori convicini tutta si raduna in esso, dalla
parte di sopra detto territorio non per tutta la sua lunghezza vi è il bosco di
Martà, al quale per essere spesso e folto malamente vi possono entrare
l’animali, e nell’istessa dirittura della parte di sotto vi è il bosco di
Lardetto, quale arriva sino alla marina.. li cittadini e fidatori delli corsi
hanno jus di poter pascolare in detto territorio nel tempo di necessità per causa
della neve nelle montagne”[32]. La descrizione del Manni oltre a
richiamarci luoghi già noti come il palazzo, il giardino, l’oliveto ci ricorda
l’antica foresta sul capo Alice, che ora risulta costituita principalmente
dalle tre difese Piana, Ardetto e Cappelliere che col tempo si sono allargate,
in quanto il feudatario vi ha unito altre terre, e dal territorio Colla de Pali
il quale è un territorio piano e boscoso dove vi era ogni specie di “legname
selvaggio ed in certi luoghi è di modo tale imboscato che nemmeno gli animali
vi possono passare”[33]. Inoltre ci informa che il
disboscamento era proseguito. Parte dell’antica foresta era stata messa a
coltura e risultava senza alberi (Difesa Piana), altre parti pur rimanendo
boscose e riservate alla caccia avevano subito incendi che le avevano
profondamente modificate (L’Ardetto[34]),
mentre l’antica boscaglia rimaneva impenetrabile ed intatta specie nel bosco
demaniale di Martà, con i suoi “elci, lentischi sarmentosi, rubinia ispida,
roveti, pruni selvatici, perastri, oleastri, mirti e querce”. La foresta di
Alichia, così come descritta dal Manni, mostra di aver subito nel tempo
trasformazioni, dovute a fenomeni naturali e all’azione umana, tali che ne
hanno mutato profondamente la fisionomia. Essa si presenta smembrata e
modificata nella sua unità boschiva e paesaggistica, con luoghi che hanno
assunto funzioni ed aspetti diversi sia rispetto ai tempi dell’insediamento
greco-romano che al successivo medievale.
Ipotesi
sulla scomparsa di Alichia.
Durante
il periodo angioino altre terre vicine ad Alichia spopolarono. Ricordiamo
Lutrivio e Santa Vennera che si trovavano nelle “pertinenze di Melissa et
Ipsigrò”[35]
e, sempre in diocesi di Umbriatico, Santa Marina, San Nicola e Maratia,
distrutte durante la guerra del Vespro[36].
Spesso alla scomparsa di una terra concorrevano diverse cause: l’esosità del
fisco regio, gli abusi feudali, il saccheggio da parte di pirati o di banditi,
una pestilenza, l’aria malsana ecc.
Alcuni
documenti e la lettura dell’apprezzo del Manni ci possono aiutare a far luce su
una delle possibili cause della scomparsa della terra di Alichia: La formazione
e la crescita del lago sul capo con il suo paludismo per la variazione
climatica medievale a cavallo del XIV secolo. Questa ipotesi è confortata dalla
situazione analoga che si verificherà tra la fine del Cinquecento e la metà
dell’Ottocento per effetto della piccola età glaciale e che avrà come effetto
la formazione di pantani e l’ampliamento del lago. In una testimonianza di fine
Seicento presso la corte marchesale di Cirò Gioseppe di Franza dichiarava che
egli possedeva in territorio di Cirò delle terre in vicinanza della marina
“dove li cittadini di questa terra vi hanno fatto la strada di mezo per esser
la strada antica sfatta e ruinata dalli mali tempi e pioggi a tal segno che più
da cinquanta anni in circa la d.a strada non l’hanno più pratticato per la mala
condittione che se ritrova”[37]. Il Pugliese verso la metà
dell’Ottocento così descriverà il luogo: La “Misula di S. Pietro e Paolo.. è
una isoletta in mezzo al bosco detto ora di Ardetto, cinta d’inverno dal lago
detto Vurghe, o Vulghe, quasi gorghi, o bolgie, perché in alcuni siti l’acqua è
profonda tanto che si dicono puzzilli. Si distende questo lago per 200 moggia
antiche circa e tagliando il capo Lice si accosta colle due estremità alle due
opposte sponde del mare, cioè a sinistra verso borea, ed a destra verso
oriente, talché in tempi di alta marea le onde salse si confondono colle dolci,
e si distruggono le sanguisughe di cui il lago abbonda e le quali non si
riproducono che dopo molti anni.... Sito fatto dalla natura per un sicuro e
comodo porto, ed al quale concorrono tutte le comodità per costruirvelo, come
si disegnava ai tempi del glorioso Carlo III, le cui sollecitudini vennero
attraversate da’ segreti maneggi del feudatario, il quale non voleva perdere la
delizia delle cacce tanto sul lago, ove in tempo d’inverno si radunano anitre,
mellardi, oche, follache, ed altri uccelli acquatici, quanto nei boschi che
accolgono e nutrono volpi, caprii, lepri e cinghiali”[38].
Il
Pugliese aggiunge che la dimensione del lago dipendeva dalla piovosità
invernale, infatti negli inverni piovosi il lago Vurghe si congiungeva con il
vicino lago detto la
Vurga Rotonda così diveniva un piccolo mare di 300 moggia[39]
e coloro che in estate ed in autunno dimoravano nel capo, contraevano “malattie
mortali, o rimanevano ostrutti e malsani”[40].
Verso
la metà del Settecento aveva ripreso con forza il disboscamento e si cominciò
“ad impiantare, e novellamente abitare” la marina. Il vescovo di Umbriatico
Domenico Peronacci (1732-1775) ridusse in coltura due fondi della sua mensa
vescovile in territorio di Cirò, uno detto Salvogara e l’altro Mandorleto,
"ch'erano ricovero d'animali selvaggi", in oliveto e agrumeto
"con sue case pe' coloni". Egli inoltre fece costruire presso il mare
a Mandorleto un “palazzo di pianta” per residenza di campagna a "ristoro
de' vescovi", spendendo così oltre 4000 ducati[41].
Il feudatario, la marchesa di Cirò e principessa di Tarsia, Maria Antonia Spinelli,
non fu da meno: fece un agrumeto, restaurò nel 1761 il suo palazzo di Alici[42]
e vi creò un allevamento di buffali[43],
animali particolarmente adatti a vivere in un ambiente caratterizzato da
terreni paludosi e selvaggi come i vicini laghi delle Volghe e gli adiacenti
boschi. Questo processo si incrementò nell’Ottocento dopo l’abolizione della
feudalità. Allora mentre i boschi ardevano, i ruderi del tempio venivano
utilizzati per costruire i nuovi casini e le casette alla marina[44].
Nonostante questi interventi di messa a coltura, la località col passare del
tempo si era così trasformata che ancora all’inizio del Novecento il noto
archeologo Paolo Orsi non voleva assolutamente credere che il tempio di Apollo
Aleo potesse nascondersi in una palude così inaccessibile e pericolosa.
[1] Reg.
Ang. XI, 140-141.
[2] Reg.
Ang. XXIV, pp.103-104.
[4] Reg.
Ang. IV, p.102.
[5] Ancora in età moderna il feudatario di Cirò aveva nel
luogo detto “l’Alice”, o “ Alici”, il diritto di esigere il passo dai
forestieri che passavano accanto al palazzo per la via pubblica proveniente da
Crotone. Al “trivio” vi erano a riscuotere e fu eretto “un alto e quadrilungo
pilastro di fabbrica con la tariffa scolpita in pietra, e questa iscrizione fu
detta Epitaffio “, Pugliese G. F., Descrizione ed istorica narrazione
dell’origine e vicende politico-economiche di Cirò, Napoli 1849,t. I, pp. 165,
301. Come è evidenziato dal toponimo “Palazzo”, un altro palazzo regio con le
stesse funzioni fiscali dovette esistere in territorio di Crotone presso
l’incrocio tra la strada regia, che da Crotone andava verso Cirò, e la via che
si inoltrava verso Papanice. Alla fine del Cinquecento Fabritio Lucifero possedeva
“la gabella lo Palaczo in loco lo Palaczo iux.a terras qm. Scipionis
Berlingieri loco dicto Maccodite et via publica” , ANC. 49, 1594, 297 ; La
gabella confinava anche con la volta de Armeri, l’attuale contrada Armeria,
ANC. 119, 1637, 77.
[7] Reg. Ang. XXIV, pp.103 -104 ; Maone P.,
Contributo alla storia di Cirò, in Historica, n.2/3, 1965, p.104.
[8] Minieri Riccio C., Notizie storiche tratte da 62
registri angioini dell’Archivio di Stato di Napoli, Napoli 1877, p.215.
[9]
Pardi C., I registri angioini e la popolazione calabrese del 1276, in ASPN, a.
VII, 1921.
[10]
Dito O., cit., p.117.
[11]
Maone P., cit., p. 106.
[12]
Reg. Ang.XXXIX, p. 55.
[13]
Maone P., cit., p. 106.
[14]
Dito O., cit., p.133.
[15] Il Pugliese, rifacendosi ad
una antica cronaca, scrive che nel giardino del barone “circa l’anno 1440”,
facendo uno scavo, furono trovati i ruderi di un antico tempio e 4 candelabri
di ferro, Pugliese G.F., I, 19.
[16] Russo
F., Regesto I, 341, 343.
[17] Maone
P., cit., pp. 106 - 107.
[19]
Pratesi A., cit., p.453.
[20]
Nel 1389 Carlo Ruffo, essendo il suo feudo in
spopolamento, concede agli abitanti di Lucrò l’esenzione dal pagamento del
casalinatico se fossero andati ad abitare a Verzino. La concessione fu poi
riconfermata nel 1427 dalla figlia Covella, Giuranna G., Storia di Umbriatico: Dal
Medioevo alla conquista spagnuola, in Studi Meridionali, Fasc. I, 1971, pp.22-
26.
[21]
Reg. Vat. 355, f. 287, ASV.
[22] Reg.
Arag. I, 42.
[23]
Pontieri E., La Calabria a metà del
secolo XV e le rivolte di Antonio Centelles, Napoli 1963, p.281.
[24]
Processo Grosso, f. 473, AVC.
[25]
Nel 1496 re Federico
D’Aragona, asserendo di tenere e possedere la città di Santa Severina, le terre
di Policastro, Rocca Bernarda, Castellorum Maris, Ypsigrò, Cutro, S. Giovanni
Minagò, i feudi inabitati di Fota e Crepacore e 300 ducati annui sopra i
pagamenti fiscali di detta città e terre, li vende ad Andrea Carrafa per ducati
9000, Processo grosso, ff.19, 561, AVC.
[26]
Andrea Carrafa morì
nell’ottobre 1526 ed il nipote Galeotto Carrafa ottiene l’investitura nel
dicembre 1527 dal vicerè Ugo de Moncada, Ref. Quint. 207, ff.78 -122, ASN.
[27]
Pugliese G.F., cit., I, 178 ; II, 323.
[28] Il 13
novembre 1687 presso la torre di Fasana Jo. Petro Presterà, figlio di Cesare e
di Gesimunda Susanna di Cirò, vende il suffeudo detto il corso di Puzzello, a
lui pervenuto per eredità materna per duc. 1500 a Diego Zito di Tarsia, ANC.
333, 1687, 24 - 30.
[31] All’inizio del Seicento
poiché il “capo della Lice” era frequentato da pescatori, pastori e coloni che
vi venivano per i loro affari e non potevano ascoltare la messa alla festa
perché il paese di Cirò era distante 4 miglia, il vescovo di Umbriatico Antonio
Ricciulli ne discusse con il feudatario Ferdinando Spinello, marchese di Cirò,
il quale spontaneamente si adoperò a costruire una cappella sul luogo, nella
forma proposta dal vescovo, arredandola e dotandola di una rendita di ducati 50
per un prete secolare, designato dal vescovo, per celebrare la messa ed
ascoltare le confessioni nei giorni di festa. La chiesa fu intitolata a Santa
Maria della Mercede, volgarmente detta della Catena, Rel. Lim. Umbriaticen.
1638, 1735.
[32]
Pugliese G. F., cit.,
II, 273 sgg.
[33]
Pugliese G. F., II,
274.
[34]
Carlo III di Borbone
sostando a Cirò il primo febbraio 1735 andò a cacciare ed uccise un cinghiale a
l’Ardetto, Pugliese G.F., II, 70.
[35]
Il feudo de Trivio e
Santa Vennera fu concesso da re Ladislao a Gioannotto Morano, Zangari D., Le
colonie Italo albanesi di Calabria, Napoli 1940, pp. 135 - 136.
[37]
ANC. 333,1681/1682, 30-31.
[38] Pugliese
G. F., cit., I, pp.19 - 21.
[42] Galasso G.- Sicilia R., Feudo, incursioni turchesche e
vita civile nei secoli XVI - XVIII, in Cirò Cirò Marina cit., p.141.
[43] Pugliese
G. F., cit., I, 98.
[44]
Pugliese G. F., cit., I, 17, 163.
Nessun commento:
Posta un commento