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venerdì 17 gennaio 2014

§ 033 170114 Lettere ara Marina, 8. Della parlata di Cirò Marina, 1.

Quelle che seguono sono solo delle riflessioni personali che affido senza pretesa alcuna alla intelligenza dei lettori. Nell’ultima corrispondenza mi ero riproposto di indicare le ‘fonti’ del dialetto cirotano, ma mi accorgo che tale compito richiederebbe un impegno veramente considerevole e che quella che segue è solo una ‘puntata’ di una storia molto complessa e meritevole di approfondimento, e magari di un lavoro di gruppo. Segnalo con piacere che questa iniziativa riguardante il dialetto ha avuto degli apprezzamenti, dei quali ringrazio, cosa che faccio anche nei riguardi de “IlCirotano.it” per l’ospitalità offerta, sempre sperando che il pezzo che segue non si trasformi in una ‘tòtula’ (così entriamo subito in tema).

La “parlata”
Discorrendo di parlata, o di ‘dialetto’ cirotano, occorrerà premettere che, in realtà, un dialetto, lingua, idioma, ‘calabrese’ non esiste, dovendosi parlare, più precisamente, di ‘continuum dialettale calabrese’: ciò significa che in generale gli abitanti della Calabria, da Reggio fino a Rocca Imperiale, si ‘intendono’ sì tra di loro, ma con crescente fatica in rapporto all’aumento della distanza, tant’è che a Reggio Calabria è fortissima l’influenza sicula, come all’estremo nord della regione è chiarissimo l’apparentamento con il ‘dialetto’ lucano, e questi due dialetti, il siciliano e il lucano non sono proprio ‘similari’ tra di loro. In questo contesto segnalo che, come si evince dalla ‘Carta dei dialetti d’Italia’, lo spartiacque, il confine tra le due grandi aree linguistiche o sistemi dialettali che ho citato corre proprio tra Cirò Marina e Torre Melissa: Cirò Marina, e quindi la sua ‘parlata’, appartiene a quell’area che si indica come del ‘meridionale intermedio, lucano-calabrese settentrionale’, mentre da Torre Melissa comincia l’area dialettale del ‘meridionale estremo, calabrese centrale’. Da qui nascono, ad esempio, le differenze tra il cirotano e, senza andare lontano, il melissese, che pure si parla a pochi chilometri di distanza, differenze che si colgono, oltre e più che nella ‘cadenza’ o ‘inflessione’ o singolo lemma, nelle differenze strutturali tra i dialetti, e che sono di fondo, in primis fonologiche e sintattiche. Il lavoro dello studioso di linguistica, ma anche dell’appassionato, prevede un lavoro di ‘scavo’ da operare partendo anche da una singola parola, fenomeno o ‘esito’. Faccio un esempio che è sotto gli occhi (anzi… le orecchie) di ogni parlante cirotano: la parola ‘gallina’, in cirotano ha dato l’esito ‘gaddina’, a differenza di quanto avviene in tutti i dialetti circonvicini, dove l’esito dello stesso termine è ‘gaddrina’, annotando che uso per comodità quest’ultima trascrizione, ‘gaddrina’, ben sapendo che non è il modo corretto di indicare il suono cacuminale della ‘d’ doppia. Ovviamente, questo esito riguarda tutte le parole dove la doppia ‘l’ ha dato come esito la doppia ‘d’, e non solo la parola ‘gallina’, fatte salve quelle eccezioni che trovano comunque una spiegazione di carattere storico, ovvero ‘diacronico’ oppure ‘sincronico’, in un certo senso ‘geografico’, o per essere più precisi: linguistica diacronica è quella che spazia sull’asse verticale del tempo (si pensi allo studio dell’etimologia delle parole), linguistica sincronica è quella che indaga la ‘parola’ sull’asse orizzontale del tempo: ad esempio il bambino che apprende il termine ‘gatto’, o qualsiasi altro, lo fa indipendentemente dalla storia, cioè dall’etimo del lemma ‘gatto’, che in teoria potrebbe significare ogni volta e per ogni parlante qualsiasi cosa, se questi due aspetti, il sincronico e il diacronico, potessero essere effettivamente disgiunti.
Quelle appena accennate sono quisquilie in confronto alla vastità e complessità dello studio delle lingue, che tra l’altro, come tutte le discipline scientifiche, è sempre in continua evoluzione. Giusto per fare un esempio di questa complessità, segnalo l’esistenza di lingue cosiddette ‘tonali’, come il cinese mandarino: a seconda del ‘tono’, in questa lingua, la parola [ma] significa: ‘mamma’, se pronunciata con tono alto e costante; ‘lino, canapa’ con tono alto ascendente; con tono basso discendente-ascendente significa ‘cavallo’ e con tono alto discendente ‘ingiuriare, bestemmiare’; poi, tanto per non farsi mancare nulla, esiste anche un ma, con intonazione neutra, che funge da particella interrogativa in finale di frase. Come si può notare, la parola ‘ma’ è racchiusa tra parentesi quadre: sono quelle previste dall’IPA (Alfabeto fonetico internazionale o API in francese) per la trascrizione fonetica delle parole. Ciò premesso, non dovrebbe essere così difficile stabilire delle regole chiare e pratiche per rendere graficamente la parlata di qualsiasi località d’Italia. Del resto, se pensiamo ad una lingua a noi vicina, e cioè il portoghese, nella introduzione alla grammatica da lui realizzata, l’autore G. Tavani indica chiaramente come molti suoni sono rappresentati in maniera identica, ma recepiti secondo la funzione di destinazione da parte del parlante lusitano, che in pratica ed esemplificando, nel contesto di cui stiamo parlando, significa: se scrivo ‘spagnàr’ (prendere o avere paura), un lettore cirotano sa bene come si pronuncia quella ‘s’ iniziale (fricativa palatale), che è diversa, nella pronuncia, dalla ‘s’ di ‘sbagliàr’ (sbagliare), che è fricativa palatale sonora; parimenti, se scrivo ‘tren’ (treno), il cirotano sa come si pronuncia quella ‘t’, che si indica, con relativo segno grafico, come ‘t’ retroflessa, e sa altrettanto bene che il segno ‘t’ ricorre solo in quei casi. Il problema dell’interpretazione, chiaramente, riguarda nel primo caso il fruitore non portoghese, nel secondo il non cirotano. Il problema non è insormontabile, come si avrà modo di vedere. Del resto il ‘cirotano’ è un dialetto forse meno ‘arcaico’ o ‘radicale’ di altri: dico questo pensando alla dittongazione di quelle vocali latine che a Cirò non ha avuto, o perlomeno non ha nel cirotano attuale, alcun riscontro: basta pensare a parole come ‘medico’, che in molti dialetti diventa ‘mièdicu’, ‘mìedicu’, anche con la corruzione della ‘d’ in ‘r’: ‘mièricu’… a Cirò ‘mèricu’ è forma arcaica per medico, che resiste probabilmente grazie alla facile ed ironica attinenza con ‘mericùn’ (grande medico – lumaca, chiocciola, senza disquisire sulla presenza o meno del guscio).
L’uso dell’ausiliare. Altra particolarità del cirotano è rappresentato dall’uso, molto simile a quello previsto dall’italiano, per quel che riguarda la formazione dei tempi composti e il conseguente ricorso ai verbi ausiliari. In pratica: mentre a Cirò Marina è previsto l’uso degli ausiliari ‘essere’ ed ‘avere’, nella forma attiva, a Crotone, è contemplato, salvo smentite, l’uso del solo ausiliare ‘avere’, fino alla situazione estrema (!) di dire, in crotonese, frasi come ‘ha mort’, ‘ha morto’. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che a Crotone la dominazione spagnola ha avuto un peso molto maggiore, avendo avuto quella città rapporti consistenti con la nazione che per tanto tempo ha dominato queste nostre contrade, e questo dico in quanto anche lo spagnolo prevede l’uso del solo ausiliare ‘avere’ nelle forme attive dei verbi. Ancor più il retaggio della dominazione spagnola si può cogliere, io credo, nell’esito che in catanzarese ha avuto la ‘effe’ intervocalica, anche quando sia geminata, cioè doppia, come nella parola ‘caffè’: quella effe aspirata è la stessa del castigliano in posizione iniziale. Riassumendo, nell’accostarsi alle fonti del dialetto, è ineludibile una premessa ‘metodologica’: molti, tra i tanti che si dilettano di scrittura, fanno ricorso all’uso di tale parlata. Non essendo questa, – con le dovute eccezioni rappresentate dai dialetti generalmente più importanti e diffusi -, normata da regole precise e riconducibili ad una grammatica consolidata, cercano di creare un sistema di segni personalizzato al fine di esprimersi ‘in dialetto’, ricorrendo anche ad artifici o accomodamenti vari. Il problema, come è evidente, nasce dalla difficoltà di rappresentare graficamente quei suoni dialettali che la lingua italiana e il suo alfabeto non prevedono. Ovviamente il problema sarebbe superabile ricorrendo all’alfabeto fonetico internazionale (IPA), il cui scopo precipuo è quello di cercare di rappresentare tutti i suoni che le migliaia di lingue esistenti al mondo utilizzano. Ciò, però, è estremamente difficile, e questa via sarebbe praticabile solo da veri esperti di linguistica, dal momento che l’IPA prevede circa 500 segni fonetici, e considerando che spesso si hanno dei dubbi anche nell’uso di una ventina di lettere dell’alfabeto e dei pochi segni diacritici utilizzati.
Le fonti orali.
E veniamo ora alle fonti del dialetto vere e proprie, premettendo che quello che dico è solo ciò che penso e che nessuna ‘scuola’ ufficiale mi ha insegnato. Dividerei innanzitutto le fonti tra ‘orali’ e ‘scritte’. Va da sé che le fonti orali più autorevoli sono rappresentate dagli ‘anziani’ del gruppo etnico, i ‘patriarchi’ e le ‘matriarche’, ovvero u tat, u tatarànn, a mamma, a mammarànna, quei personaggi che, con grande abbondanza di riso sulla bocca degli stolti di turno, troppo spesso vengono abbandonati ad un destino di solitudine e di silenzi. Sarebbe ottima cosa, al contrario, registrare, anche fisicamente, il parlato di questi ‘anziani’, aiutandoli e sollecitandoli a ricordare modi di dire, proverbi, favole, fiabe, poesie, filastrocche, ‘strofette’, ‘serenate’, imprecazioni (anche quelle), cantilene, per quanto e nonostante il tempo ne abbia potuto alterare le memorie. Qualcosa di simile è sempre stato fatto da eminenti studiosi di tradizioni popolari (pensiamo per la Calabria a Lombardi Satriani, per la Sicilia a Pitrè), o di antropologia, etnologia, musicologia (De Martino, Carpitella, e, nell’ambito anche cirotano Antonello Ricci), oltre, ovviamente all’impressionante, imprescindibile, mole di lavoro di G. Rohlfs, che si pone al vertice degli studi linguistici sulla Calabria. Concludo queste note relative alla ricerca delle fonti orali, portando ad esempio il lavoro, questa volta scientifico, dell’etnomusicologo cirotano Antonello Ricci che nel 1976 ha recuperato dalla voce della signora Manciulina Pirito di Cirò il testo di quella stupenda poesia-canzone popolare conosciuta come ‘Riturnella’, poi ripresa da Eugenio Bennato e da questi portata ad una certa fama con il disco ‘Musicanova’ (1978).
Le fonti scritte
Su un altro piano, poetico e di intento letterario si pone, invece, l’opera del maestro Giuseppe Ferrari, di cui parlerò nella parte dedicata alle fonti ‘testuali dirette’. Registrare, rappresentare e tramandare, queste, a mio modesto parere sono le parole chiave per quel che riguarda le fonti orali. Passiamo alle fonti ‘scritte’, che dividerei in ‘testuali dirette’, cioè libri, scritti vari, lettere, e ‘testuali di rete’, ovvero ciò che si può reperire nel web, del quale ormai, volenti o nolenti, non si può ignorare l’enorme portata. Annoto con piacere che tra i tanti lati negativi di internet, ogni tanto si rinviene, almeno in nuce, qualche iniziativa interessante e che meriterebbe ulteriore sviluppo, pur nascendo in un ambito non specialistico; molti sono, infatti, i siti web dedicati ai luoghi d’origine e che si occupano di registrarne i modi di dire, con il concorso dei visitatori: una piazza virtuale, in qualche modo. Qualcosa del genere ho trovato in rete che riguarda i dialetti di Belcastro, Crucoli, Mesoraca, e altri comuni sparsi un po’ in tutta la Calabria. Non dimenticando, inoltre, il validissimo lavoro dell’Università Humboldt di Berlino, nelle cui registrazioni dal vivo sono rappresentate le parlate di gran parte d’Italia, tra le quali quella di Cariati, per quanto riguarda la vicinanza a Cirò. Discorso diverso e delicato meritano quelle che ho chiamato ‘fonti testuali dirette’, dal momento che ci si deve confrontare con i diversi intenti degli autori delle opere che si vanno ad esaminare e dalle quali estrapolare la parte che interessa, – in questo caso quella dialettale -, annotando però che questo ‘scavo linguistico’ non può essere disgiunto dalla valenza culturale del suo oggetto. Tra queste fonti testuali dirette ritengo debbano annoverarsi a pieno titolo e in primo luogo i libri che registrano le voci e con esse l’identità cirotana. I testi che mi propongo di esaminare sono i due volumi della ‘Descrizione ed istorica narrazione dell’origine e vicende di Cirò’ (che per brevità indicherò come DIN, I, oppure II, a seconda del volume interessato), di Giovan Francesco Pugliese (Cirò 1789-1855), Napoli, Stamperia del Fibreno, 1849, e ‘L’identità della memoria’, il cui sottotitolo è ‘’Cirò Marina ‘a ri tempi ‘e na vota’’, Calabria Letteraria Editrice, 2002, nonché ‘Ditti pajsani e duj ricordi’, Fiorino Editrice, 1983, del compianto maestro Giuseppe Ferrari (Cirò Marina 1931-2001). Ovviamente vi saranno altre ‘fonti’ del genere in circolazione, ma non ho la possibilità di consultarle: mi riferisco a libri di altri autori, oppure ad opere teatrali in dialetto che di sicuro altri potrebbero indicare e utilizzare allo scopo di recuperare e conservare il nostro dialetto.
…Ma di questi testi parlerò in una seconda parte che mi propongo di scrivere.

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