Prima di riprendere queste mie riflessioni sulla ‘parlata’ cirotana,
voglio rinnovare i miei ringraziamenti alla redazione de ‘ilCirotano’ e
ai lettori che con le loro ‘visite’ mi hanno significato benevolenza e
curiosità, oltre alle critiche che immagino numerose ancorché
‘trattenute’. Mi fa piacere che la prima di queste lettere abbia quasi
raggiunto il numero di mille visite, e ritengo ciò un fatto importante,
non per mia soddisfazione personale, ma nei riguardi dell’argomento che
ho cercato in qualche modo di proporre all’attenzione dei lettori.
Quindi ‘grazie’ a tutti voi.
Ora, se vi va, dopo i tifuni, le natìcchjule, e i carni ‘mmuzzulàti
relativi all’ultima lettera, vediamo qualche altra parola dialettale
attestata nell’opera di G.F. Pugliese, anche se mi riesce difficile
isolare l’elemento lessicale dalla coralità del contesto da lui
descritto. Ad ogni modo, proviamo ad abbandonare il mondo
dell’agricoltura, per indagare quello della zootecnia e del mondo
animale in genere: premesso che fino a qualche decennio fa l’allevamento
dei maiali ‘neri’ era molto diffuso, e non solo in Calabria, troviamo che ‘la industria de’ neri era più diffusa, perché quelle che diconsi partitelle di piccol numero di troie erano bastantemente numerose’, e che ‘è
solo possibile o al proprietario di vaste estensioni proprie, o al
fittuario speculatore di vaste estensioni altrui di allevarne buon
numero, che si dicono morre e marcanzie; sicchè, essendo il guadagno a rischio, si spiegava così il detto ‘calcio di porco, per significare che questa industria o poteva arricchire, o impezzentire chi l’esercitava’, dove per ‘industria’ deve intendersi ‘attività’ e per ‘industriale’ chi la svolge. Nel prosieguo, GFP ci dice che i ‘porcari’ propriamente detti erano gli allevatori di ‘neri’, e ‘mannarini’ erano i porci domestici, mentre ‘voari’, ‘volani’, ‘gualani’,
erano detti i bovari. Non male, abbiamo già ‘ripescato’ termini come
‘partitedda’, ‘murra’, ‘mannarinu’, oltre a un detto che ritengo
scomparso e a qualche precisazione.
Oltre
alla ‘Descrizione…’ ora vorrei lasciar parlare, a proposito di fauna,
un paio di mie personali ‘fonti orali’. Un’antica cantilena che ho
potuto ascoltare, negli anni sessanta, dalla viva voce di una anziana
parente, recitava ‘cìngul cìngul jìva ppè bbìa, l’occhjirùssu lu vidìa, e s’unn era ppè šcrenchtòrt, cìngul cìngul era mortu’… era una specie di innocente indovinello, dove ‘cìngul cìngul’ credevo fosse un personaggio un po’ distratto che se ne andava ciondolante per la sua strada, mentre il lupo (l’occhjirùssu) lo osservava (pregustandoselo) e se non fosse stato per l’intervento provvidenziale del cane (šcrenchtòrt),
‘cìngul cìngul’ sarebbe morto. All’epoca ero un bambino e non mi
spiegavo quel ‘cingul cingul’, lo interpretavo come un nome
incomprensibile, mentre oggi credo di poter dire che non di nome si
trattava ma di un avverbio di modo riferito al soggetto sottinteso della
frase: quel ‘cingul cingul’ è il corrispondente del siculo ‘trìnguli
trìnguli’ (‘barcollante’) o ‘tringuli mìnguli’, e qualcuno vuole leggere
in quel ‘cinguli cinguli’, a soluzione dell’indovinello, la pecora,
mentre a me, che l’ho ascoltato dal vivo, così non sembra, continuo a
vederci, come soggetto un ‘iddu’ sottinteso.
Su questo ‘indovinello’ mi propongo di ritornare, poiché lo ritengo
importante per vari motivi linguistici; intanto lo uso per introdurre
l’importanza degli animali e l’incombere pauroso del lupo nella vita
quotidiana dei tempi della ‘Descrizione’. Infatti GFP ci dice che ‘tale
è il desiderio di scansare questo animale nocivo che si usano ancora e
le preci religiose ed i sortilegii, e le superstizioni. Alcuni religiosi
han composto delle apposite orazioni, ed alcuni riti per maledirli, ed
implorarne da Dio la distruzione; ma altri pretendono che ciò sia
peccato, perché si tiene per sacra questa nocevole fiera, talché credesi
di non poter soggiacere a’ colpi de’ cacciatori se S. Silvestro non
l’abbia maledetta: sul corpo morto del lupo si fan passare e ripassare
tre volte i ragazzi per farli esenti dal dolore di ventre: si crede che
donna cibata di carni di animali morti (cioè uccisi) da’ lupi
generasse figli con fame lupina, e per farcela passare si fìnge di
spingerli e ritrarre per tre volte dal forno mentre vi si cuoce il pane,
dicendosi per tre volte: abbùttati Lupu, val dire saziati Lupo.
Si fan preghiere a S. Silvestro cui si attribuisce la protezione di
questo animale, per tenerlo lontano, come a S. Vito per preservare i
cani dalla rabbia, ed a S. Paolo per iscansare uomini ed animali utili
dal morso delle vipere.’ A quanto sopra aggiungo che, almeno
successivamente, il compito di proteggere i lupi era assegnato a Santa
Domenica, la quale, nei racconti che ho potuto ascoltare ntunnu ntunn a vrascèra, circolava per le nostre contrade, seguita da uno stuolo di lupacchiotti sempre sensibile all’arrùcculu e
a salvare, quando invocata, i malcapitati esecutori del richiamo ai
lupi, appunto l’aarrùcculu, cioè l’ululato. Credo che l’odierno ‘far nu rùcculu’
derivi proprio da quanto ho appena detto. Tra l’altro, anche i cani
erano molto temuti, al punto che molti credevano, – questo lo dice GFP –
, ‘di possedere il segreto di legare i cani, cioè di renderli muti e stupiditi, recitando parole mistiche.’
Sempre parlando di fauna, troviamo che le faine si dicono anche ‘fujne’ e che oltre a lupi, volpi, malogne (i tassi), istrici e spinosi o rizzi, ‘vi è un altro animale più nocivo che comunemente chiamiamo pituso,
le cui carni, e pelle son puzzolenti: introducendosi un di questi
animali in un pollaio fa stragi, ne succhia solamente il sangue, e non
ne mangia le carni.’ Il famigerato ‘pitùsu’ altri
non è che la puzzola (mustela putorius), che usa praticare un foro nella
testa delle galline per succhiarne il cervello. Cambiando specie, GFP
annota la presenza della talpa o sorcio-orbo, che in cirotano si chiama ‘suriviciòlu’, cioè esattamente ‘suriciu-òrvu’, ulteriormente corrotto, o modificato, in … suriviciòlu! Poi troviamo, tra i rettili, la vipera ‘cervinàra’, la vipera curcia, cioè senza coda, e l’aspide, che in cirotano è diventato àšpir, da
non confondersi con ‘u medicinàlu dì vigni’, anticrittogamico di una
nota marca, il cui nome risuona quasi allo stesso modo (‘Aspor’… àšpir,
àšpr, insomma: u virdiràmu o a virdiràma). Viene poi citato un animale,
descritto come simile alla volpe, ‘l’unico quadrupede anfibio che conosciamo’ e che si chiama idria: parla della lontra. Passando ai volatili, troviamo, interessanti per il dialetto, le Ciàule (ciàvula, ciàgula, corvo, cornacchia, corvide in generale), i fringuelli o sbinzi (i spìnziri), i malvizzi (i tordi, marvizzi: ‘ogni botta nu marvizzu!’), i pettirossi (ruvazzi), le fravette (fucetole d’inverno, sempre di beccafichi si tratta), i colombi, distinti in torchiati e marinelli, i mellardi o capiverdi
(un antico dizionario recita: ‘specie di anitra selvatica, detta anche
bibbio o fischione dai toscani e mellarda o millarda dai napoletani’),
le cucugliate (cuchigghjàti), cioè le allodole, e poi cucciarde (si tratta ancora di allodole), gaioli, gauli, iovaluri (si tratta di nomi vari riferiti al rigogolo), codivattole (curivàttula,
cioè cutrettola). Un altro volatile segnalato da GFP è la beccaccia,
detta anche ‘arcere’ (GFP lo scrive tra parentesi), parola alla quale
alcuni etimologi fanno risalire la parola ‘arcigghjùnu’, ipotesi che
sarebbe suffragata dallo sviluppo del becco di questo volatile, che è
noto anche, in Toscana, come ‘acceggia’, e questo forse rende più
plausibile una tale interpretazione etimologica (arcere in unione con acceggia/ accegghja potrebbe
essersi sviluppato in *arcegghjia, e quindi *arcigghjùna; l’asterisco
si usa per indicare parole non attestate, frutto di supposizioni).
Qui mi fermo, sperando di non avervi annoiato troppo, ché da dire c’è ancora tanto, e quindi, se lo vorrete… alla prossima!
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