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venerdì 17 gennaio 2014

§ 040 170114 Lettere ara Marina, 16. Della parlata di Cirò Marina, 8.

In questa ‘riflessione’ vorrei segnalare una notazione di G.F. Pugliese che avrebbe fatto probabilmente la gioia di G. Rohlfs. Questi, come ho già avuto modo di dire, suddivideva la Calabria, non solo dal punto di vista dialettale, in due parti, tracciando una linea trasversale Crotone-Tiriolo- Nicastro: a nord di questa linea si estendeva quella che egli chiamava ‘Calabria di Cosenza’, osca, quindi bruzia, poi latina, anticamente detta anche ‘Valle di Crati’ (all’incirca l’attuale provincia di Cosenza) e parte di quella ‘Terra Giordana’ (oggi ricadente in provincia di Crotone), costituenti la provincia di Calabria Citeriore, della quale Cirò fece parte fino al 1815, mentre a sud individuava una Calabria Greca (sarebbe la Calabria Ulteriore, amministrativamente suddivisa, fino all’età borbonica, in Ultra Prima – la provincia di Reggio – e Ultra Seconda, quella di Catanzaro), dove molto più forte è stata l’influenza greca, della quale si hanno tuttora sopravvivenze nella cosiddetta ‘Bovesìa’. A scanso di equivoci, la divisione amministrativa tra Calabria Citeriore e Ulteriore era segnata dal fiume Neto. Nel discorso tenuto in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria di Bova, il grande linguista tedesco faceva riferimento ad alcune differenze fondamentali tra i calabresi ‘del nord’ e quelli ‘del sud’: i calabresi ‘greci’ non usano mai il passato prossimo, cioè analitico, ma sempre quello remoto, come nella frase ‘ora mangiai’, o l’altra, arcinota, ‘ora ora arrivò il ferry boat’; usano come copricapo una lunga ‘berretta’, ‘a berritta longa’, e per introdurre talune proposizioni subordinate usano le congiunzioni ‘ma’, ‘mu’, ‘mi’, seguite dall’indicativo presente (‘volèrra/volerìa ma/mu/mi sacciu’: vorrei sapere), mentre i calabresi ‘latini’ non usano mai il passato remoto, ma sempre quello analitico, formato da tempo semplice dell’indicativo in unione col participio passato (he manciàtu, avìa dittu), e nel vestire fanno uso del ‘cappello a ccervùne’, o ‘pizzùtu’, e usano, ad esempio nelle proposizioni finali, il verbo all’infinito, oltre a fare ricorso all’indicativo: cioè forme come ‘vida u(n)t movi’ e ‘vida ‘e ti mòvire’ coesistono, almeno a Cirò, anche se personalmente ritengo che la seconda forma sia quella più naturale per un parlante cirotano. Diciamo, inoltre, frasi del tipo ‘volìssa sapìre’. Ovviamente gli ‘usi’ sopra accennati dipendono dal sostrato linguistico greco (e poi bizantino), e dalle forti influenze arabe, cui soggiacque la ‘Calabria Ultra’. Per dovere di cronaca segnalo che Rohlfs stesso riconosceva allo storico Giovanni Fiore da Cropani (1622-1683) il merito di avere individuato l’esistenza di quelle due diverse Calabrie.
Anche al Pugliese questa ‘diversità’ non deve essere sfuggita, per cui ci parla, nella nota cui facevo riferimento in apertura, di un afflusso significante di molti che noi diciamo matavaj e berettinari, che per lo più ci vengono da’ più misera­bili villaggi del distretto di Monteleone (l’odierna Vibo Valentia). Del matavaj non saprei cosa dire, se non che potrebbe trattarsi di un intercalare ripetuto come dire… a sprèffia, magari riprendendo quell’uso del ‘ma’ ad introdurre frasi subordinate. Per quanto riguarda il ‘cappello a ccervùne’, non solo GFP ne parla, ma lo fa disegnare dal suo amico Pignatari in testa al personaggio che nel II volume della ‘Descrizione…’ raffigura il costume tipico dei cirotani dell’epoca. Tornando a Rohlfs e ai suoi straordinari scavi linguistici, non posso fare a meno di dichiararmi in disaccordo, pur di fronte a tanta autorità, su qualche punto, sperando di essere graziato per la buona fede che metto in tanto ‘ardire’. Ritengo che la parte meno interessante linguisticamente, per Rohlfs, sia proprio l’attuale provincia di Crotone: trovo pochi accenni nella sua imponente ‘Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti’, e qualcuno di questi accenni mi sembra anche non troppo approfondito. Certo, a lui interessava molto di più la ‘Calabria Greca’ e quella quasi ‘Osca’ intorno a Cosenza e al Pollino. Il guaio è che dietro a cotanta ‘chioccia’ troppi ‘pulcini’ non si sono degnati di muovere obiezioni. Vado a memoria: da qualche parte il Rohlfs dice che nella zona di Crotone gli articoli determinativi ‘a’, ‘u’, ‘i’ diventano ‘ra’, ‘ru’, ‘ri’: si vede che è stato male informato. A mio modesto parere questa ‘trasformazione’ non riguarda mai gli articoli, ma le preposizioni articolate, e derivano da una esigenza di eufonia, dal momento che mai ci sogneremmo di dire ‘ra casa’ per dire ‘la casa’, ma quella ‘erre’ intervocalica appare in ‘ara casa’, cioè ‘a casa’ (‘alla casa’), o in ‘ari casi’, per dire ‘alle case’. Devo dire, ad onor del vero, che in tutte gli scritti di coloro che si sono cimentati nello scrivere in cirotano ho trovato forme che darebbero ragione a Rohlfs, e non a me… naturalmente! Inoltre segnalo che non ho trovato traccia del particolare modo di usare l’infinito nella parlata cirotana: se dovessi rimarcare delle peculiarità della parlata cirotana indicherei proprio questo uso ‘mobile’ dell’infinito. Esso riguarda i verbi non riconducibili alla corrispondente prima coniugazione dell’italiano: si dice sempre e solo, ad esempio, ‘manciàre’, e mai ‘mànciare’, ma, a discrezione del parlante e del suo modo di interpretare le situazioni, avremo ‘vìdire’ e ‘vidìre’, ‘dìcire’ e ‘dicìre’… Da cosa dipende questa differenza? Personalmente non ho dubbi: dal peso della vocale palatale ‘a’ della desinenza ‘are’, tanto forte da non prestarsi a modifiche. Un po’ come il ‘manducare’ tardo latino che ha avuto la prevalenza su un verbo più classico ma ‘fragilino’ come ‘edere’, mangiare, che è sopravvissuto solo nella lingua colta, a formare termini ricercati come ‘edule’.

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