In questa ‘riflessione’ vorrei segnalare una notazione di G.F.
Pugliese che avrebbe fatto probabilmente la gioia di G. Rohlfs. Questi,
come ho già avuto modo di dire, suddivideva la Calabria, non solo dal
punto di vista dialettale, in due parti, tracciando una linea
trasversale Crotone-Tiriolo- Nicastro: a nord di questa linea si
estendeva quella che egli chiamava ‘Calabria di Cosenza’, osca, quindi
bruzia, poi latina, anticamente detta anche ‘Valle di Crati’
(all’incirca l’attuale provincia di Cosenza) e parte di quella ‘Terra
Giordana’ (oggi ricadente in provincia di Crotone), costituenti la
provincia di Calabria Citeriore, della quale Cirò fece parte fino al
1815, mentre a sud individuava una Calabria Greca (sarebbe la Calabria
Ulteriore, amministrativamente suddivisa, fino all’età borbonica, in
Ultra Prima – la provincia di Reggio – e Ultra Seconda, quella di
Catanzaro), dove molto più forte è stata l’influenza greca, della quale
si hanno tuttora sopravvivenze nella cosiddetta ‘Bovesìa’. A scanso di
equivoci, la divisione amministrativa tra Calabria Citeriore e Ulteriore
era segnata dal fiume Neto. Nel discorso tenuto in occasione del
conferimento della cittadinanza onoraria di Bova, il grande linguista
tedesco faceva riferimento ad alcune differenze fondamentali tra i
calabresi ‘del nord’ e quelli ‘del sud’: i calabresi ‘greci’ non usano
mai il passato prossimo, cioè analitico, ma sempre quello remoto, come
nella frase ‘ora mangiai’, o l’altra, arcinota, ‘ora ora arrivò il ferry boat’; usano come copricapo una lunga ‘berretta’, ‘a berritta longa’, e per introdurre talune proposizioni subordinate usano le congiunzioni ‘ma’, ‘mu’, ‘mi’, seguite dall’indicativo presente (‘volèrra/volerìa ma/mu/mi sacciu’:
vorrei sapere), mentre i calabresi ‘latini’ non usano mai il passato
remoto, ma sempre quello analitico, formato da tempo semplice
dell’indicativo in unione col participio passato (he manciàtu, avìa dittu), e nel vestire fanno uso del ‘cappello a ccervùne’, o ‘pizzùtu’, e usano, ad esempio nelle proposizioni finali, il verbo all’infinito, oltre a fare ricorso all’indicativo: cioè forme come ‘vida u(n)t movi’ e ‘vida ‘e ti mòvire’
coesistono, almeno a Cirò, anche se personalmente ritengo che la
seconda forma sia quella più naturale per un parlante cirotano. Diciamo,
inoltre, frasi del tipo ‘volìssa sapìre’. Ovviamente
gli ‘usi’ sopra accennati dipendono dal sostrato linguistico greco (e
poi bizantino), e dalle forti influenze arabe, cui soggiacque la
‘Calabria Ultra’. Per dovere di cronaca segnalo che Rohlfs stesso
riconosceva allo storico Giovanni Fiore da Cropani (1622-1683) il merito
di avere individuato l’esistenza di quelle due diverse Calabrie.
Anche
al Pugliese questa ‘diversità’ non deve essere sfuggita, per cui ci
parla, nella nota cui facevo riferimento in apertura, di un afflusso
significante di molti che noi diciamo matavaj e berettinari, che per lo
più ci vengono da’ più miserabili villaggi del distretto di Monteleone (l’odierna Vibo Valentia). Del matavaj non saprei cosa dire, se non che potrebbe trattarsi di un intercalare ripetuto come dire… a sprèffia, magari riprendendo quell’uso del ‘ma’ ad introdurre frasi subordinate. Per quanto riguarda il ‘cappello a ccervùne’,
non solo GFP ne parla, ma lo fa disegnare dal suo amico Pignatari in
testa al personaggio che nel II volume della ‘Descrizione…’ raffigura il
costume tipico dei cirotani dell’epoca. Tornando a Rohlfs e ai suoi straordinari scavi linguistici, non posso fare a meno di
dichiararmi in disaccordo, pur di fronte a tanta autorità, su qualche
punto, sperando di essere graziato per la buona fede che metto in tanto
‘ardire’. Ritengo che la parte meno interessante linguisticamente, per
Rohlfs, sia proprio l’attuale provincia di Crotone: trovo pochi accenni
nella sua imponente ‘Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi
dialetti’, e qualcuno di questi accenni mi sembra anche non troppo
approfondito. Certo, a lui interessava molto di più la ‘Calabria Greca’ e
quella quasi ‘Osca’ intorno a Cosenza e al Pollino. Il guaio è che
dietro a cotanta ‘chioccia’ troppi ‘pulcini’ non si sono degnati di
muovere obiezioni. Vado a memoria: da qualche parte il Rohlfs dice che
nella zona di Crotone gli articoli determinativi ‘a’, ‘u’, ‘i’ diventano ‘ra’, ‘ru’, ‘ri’:
si vede che è stato male informato. A mio modesto parere questa
‘trasformazione’ non riguarda mai gli articoli, ma le preposizioni
articolate, e derivano da una esigenza di eufonia, dal momento che mai
ci sogneremmo di dire ‘ra casa’ per dire ‘la casa’, ma quella ‘erre’ intervocalica appare in ‘ara casa’, cioè ‘a casa’ (‘alla casa’), o in ‘ari casi’, per dire ‘alle case’.
Devo dire, ad onor del vero, che in tutte gli scritti di coloro che si
sono cimentati nello scrivere in cirotano ho trovato forme che darebbero
ragione a Rohlfs, e non a me… naturalmente! Inoltre segnalo che non ho
trovato traccia del particolare modo di usare l’infinito nella parlata
cirotana: se dovessi rimarcare delle peculiarità della parlata cirotana
indicherei proprio questo uso ‘mobile’ dell’infinito. Esso riguarda i
verbi non riconducibili alla corrispondente prima coniugazione
dell’italiano: si dice sempre e solo, ad esempio, ‘manciàre’, e mai ‘mànciare’, ma, a discrezione del parlante e del suo modo di interpretare le situazioni, avremo ‘vìdire’ e ‘vidìre’, ‘dìcire’ e ‘dicìre’… Da cosa dipende questa differenza? Personalmente non ho dubbi: dal peso della vocale palatale ‘a’ della desinenza ‘are’,
tanto forte da non prestarsi a modifiche. Un po’ come il ‘manducare’
tardo latino che ha avuto la prevalenza su un verbo più classico ma
‘fragilino’ come ‘edere’, mangiare, che è sopravvissuto solo nella
lingua colta, a formare termini ricercati come ‘edule’.
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