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venerdì 17 gennaio 2014

§ 035 171014 Lettere ara Marina, 11. Della parlata di Cirò Marina, 3.

Come promesso (o minacciato) nell’ultima corrispondenza, vorrei parlare della presenza del dialetto nella ‘Descrizione… di Cirò’ di G. F. Pugliese; ricorrendo la necessità, indicherò, nel seguito, l’autore come GFP e i riferimenti all’opera come DIN I oppure DIN II, a seconda del volume.
Il valore storico e storiografico dell’opera di GFP non può essere disgiunto da quello ‘sociologico’, di fotografia del tempo e del luogo in cui essa è calata. La lingua adoperata è ovviamente quella italiana, con talune concessioni al dialetto, seppure rapportando o modificando i termini usati secondo i canoni della lingua nazionale. Questa affermazione può sembrare scontata, ma così non è, se si pensa che nella prima metà dell’ottocento la ‘questione della lingua’, ad es. con Manzoni, era ancora profondamente dibattuta  e che autori posteriori, come Verga e altri, si porranno il problema di quale fosse la lingua da utilizzare e del come dar voce, proprio nel senso di farli parlare, i personaggi dei Malavoglia o  di Mastro Don Gesualdo: si capirà meglio, molto più tardi, col parlato de ‘La terra trema’ di Visconti. Riassumendo: GFP scriveva in italiano, cioè in quella che poteva essere considerata, nella vita quotidiana, una lingua straniera: basti pensare che fino agli anni settanta del secolo scorso tale lingua era usata, nei paesi e nella campagne, ma anche in molti quartieri delle città del Meridione d’Italia, solo da alcune categorie sociali o professionali (quindi per censo o condizione intellettuale) e non di rado questo ‘talîjàscû’ era avvertito dalle classi meno colte e generalmente meno abbienti come una sorta di parlare ‘giargianèsû’, quasi un vanto o un ‘dišpreggiû, comunque la affermazione di una diversità o di una superiorità da parte di colui che ‘toscaneggiava’. E’ in un simile contesto che il Nostro ebbe ad operare, cioè tra tanta povera gente illetterata, e rivolgendosi a pochi illuminati, la distanza dai quali era spesso insuperabile e non permetteva una proficua aggregazione intellettuale (al tempo si sarebbe detto, con un neologismo, formazione di ‘club’). Basterà pensare, come si nota dagli atti legali presenti in DIN II, che spesso i decurioni di Cirò firmavano apponendo una croce… che significa: i consiglieri comunali (cioè i decurioni della comune, come si sarebbe detto in quegli anni del ‘periodo francese’, 1806-1815) erano spesso analfabeti… figurarsi i vaticali (mulattieri), i gualani (bovari), i casalini, i ‘matavai’, gli zappatori! La ‘Descrizione’ ripercorre la storia di Cirò dalla notte dei tempi fino alla metà del XIX secolo, da Krimisa a Paternum, Ypsicron, Cirò, Zirò,  (come la chiama G.M. Galanti: ‘il Cirò’, ‘lo Zirò’), cioè come si passò da una piccola colonia magnogreca, la cui importanza era soprattutto religiosa, al vivere ‘vicatim’, cioè in villaggi sparsi intorno alla scomparsa ‘Alichia’ e poi, per motivi soprattutto di difesa (dai turchi, dalla malaria, dalle orde a vario titolo dedite alle ruberie…) alla Cirò ‘altisedens’, cioè luogo freddo e posto in alto. Dal dire di GFP traspare la fierezza di appartenere ‘interamente’ ad una compagine statale ben consolidata, cioè il Regno delle Due Sicilie, con le sue istituzioni millenarie, – checché se ne dica -, e con le sue leggi che nemmeno la decennale occupazione francese dei ‘napoleonidi’ era riuscita a sovvertire: purtroppo, aggiungo, poiché la mancata applicazione in toto della legge del 2 agosto 1806, ‘eversiva della feudalità’, fortemente voluta dai ‘napoleonidi’ e velatamente auspicata anche dai Borboni, rappresenta, a mio modestissimo parere, una delle più grandi occasioni sprecate dall’attuale Meridione d’Italia. Ma ora lasciamolo ‘parlare’, sto’ benedetto Pugliese, e vediamo cosa possiamo ricavarne per quanto riguarda il dialetto.
Cominciamo con un po’ di geografia e di toponomastica, ed ecco spiegata la parola ‘vurghi’: “ed il sito conserva tuttora il nome di Misula di S. Pietro e Paolo perché come diceva, è un’isoletta in mezzo al bosco detto ora di Ardetto, cinta d’inverno dal lago detto Vurghe, o Vulghe, quasi gorghi, o bolge, perché in alcuni siti l’acqua è profonda tanto che si dicono puzzilli”. Le ‘boccaglie’: “dal lato di oriente, e mezzodì le gole o bocche del lago han dato nome alle terre circostanti che perciò diconsi Boccaglie”. Il nome ‘Cirò’: “Messa a sacco ed a fuoco l’infelice città (parla di Paternum ndr), gli abitanti sottraendosi al ferro musulmano si dispersero pe’ sovrastanti colli, e sulle prime poveri di tutto o edificarono meschine casupole in più villaggi, o in villaggi esistenti si ripartirono. Il principale degli esistenti denominavasi Ypsicron, significante Alti-sedens supremus, al che si aggiunge omnibus ventis expositus;” Oppure: “…E che tra queste chiesette, la più antica, la più famosa per la divozione era quella di S. Elia lo dimostra il nome conservato al fondo che giace al di là del colle, di Tafaneo, che significa ultra Fanum” (oltre il santuario, n.d.r.). Si riscontrano modi di dire dell’epoca, come il seguente: “La servitù feudale alla quale andaron presto avvinti nel secolo XIII rendendo più che penosa precaria la vita, stabilì l’adagio: aPaese di Barone un pagliaio ed un saccone”Oppure quest’altro: “… ed è noto che nei tempi d’ignoranza i disperati andavano in Castelluccio di mezzo alla precisa mezza notte ad invocare lo spirito di abisso, e questo s’immaginavano per l’eco delle valli rispondere ed annuire alle loro voci. Se tali sventurati rivenivano alla calma della ragione s’istituiva nel foro ecclesiastico la lite, e l’intimatore recava a Castelluccio le citazioni al demonio, come la sentenza per la revindica dell’anima. Di tutto ciò non è altro rimasto che l’increpazione (il biasimo, n.d.r.) a chi si vede trasportato dalla rabbia e dal dispetto: va a dar l’anima al diavolo al Castelluccio”Ed ecco questa notazione che trovo particolarmente interessante per il nostro dialetto: “… nel tempo estivo ambedue tali torrenti si seccano, e lasciano appena in pochi siti delle acque, che comunemente si dicon Vurghe, o Vulghe anzi ronzi per abbeverare gli armenti anche stentatamente; quindi se nell’inverno straripano ed apportano danni, nell’està non possono dare nessun compenso colla deviazione ed irrigazione. Vicino alle foci de’ due suddetti torrenti restano in tempo di està delle conserve d’acqua che chiamansi Stomii, quasi due laghetti, perché cessata la corrente, la marea innalza l’arena al lido. In tali stomii, come nelle Vulgheanzi Vulli dal volgo, ronzi verdareche restano ne’ siti superiori si riunisce il bestiame per dissetarsi, e vi resta in tutte le ore merigge del giorno. Però siccome vi prolificano le anguille, e i cefali sogliono col titimalo e col tasso contaminarsi le acque per farsi la pesca, che in alcuni anni riesce abbondantissima. Spesso avvengono delle liti e querele correzionali per parte de’ padroni del bestiame, ma comunque si creda che le acque intassate nocciano, pure la lunga esperienza mostra che o siano innocue, o al più drastiche. Servono anche tali acque per la macerazione de’ lini: mezzo che non ha potuto finora cambiarsi con altro migliore ed innocuo. Tutti questi, ripeto, son laghi, e laghetti d’inverno e non perenni talché pei calori estivi il terreno si fende in più siti, ed apre de’ botri, detti comunemente grave, e serchie che rendon pericoloso il caminarvi a cavallo. 
Dunque, in queste poche righe ritroviamo ben otto termini tuttora di uso quasi corrente:Vurghe, Vulghe, ronzi, verdare, Stomii, intassate, grave, serchie. Per quanto riguarda le ‘serchie’, magari i più giovani non lo sapranno, ma in cirotano i serchij sono quelle spaccature nella pelle, alquanto dolorose, dovute al freddo, ai lavori faticosi della campagna o dei muratori, e via dicendo (a dire il vero le ‘serchie’ si formano anche per il sudore, ma è meglio soprassedere). Per quanto riguarda il titimalo, il tasso e la pesca proibita che con essi si faceva, ricorderò ai più giovani una  espressione del genere: ‘làssilu star, pecchì è ‘ntassàt’ … avete già capito perché si dice così? ‘Ntassat non è un richiamo alla parola ‘incazzato’, ma significa che quel tizio di cui si parla è di umore nero, ha il sangue avvelenato, proprio come le acque trattate con il tasso (taxus baccata L.), che è una delle piante più tossiche presenti nella penisola italiana, stante l’alto contenuto di tassina, tanto più elevato nelle foglie vecchie. Pur avendolo dimenticato, quindi, utilizziamo un modo più ‘ricercato’ per indicare il ‘sangue amaro’. Il titimalo altro non è che l’euforbia, nelle due varietà (Euphorbia dendroides ed Euphorbia characias)  utilizzate come paralizzanti per la cattura dei pesci. Altro nome del titimalo è ‘totomaglio’, termine che nel dialetto cirotano  è utilizzato per indicare cosa inutile, di poco conto: ‘accattatìll ‘e tatumàgghij’… Bene, quanto ho finora detto è solo un accenno all’opera del Pugliese, in quanto essa, tra l’altro non priva di buona affabulazione, è intrisa di riferimenti alla vita e all’essere cirotani. Ora voglio concludere questa corrispondenza con un’ultima notazione, dovuta anche al fatto che solo in cirotano ho sentito l’espressione ‘ti voj n’abìss ‘e ben’, oppure, ‘ti voj ben n’abìss’ (che come modo di dire mi sembra molto… profondo); vediamo: “…e perché di Fonti degne della Poesia io parlo, non conviene trascurare quello dell’avisso di Puzzello. E’ questo avissoveramente un abisso perché profondo, tetro, ristretto da alte rupi, non dà accesso a’ raggi solari neppure quando son vibrati a perpendicolo e perciò dicesi abisso del Pozzillo, corrottamente avisso di PuzzelloAl fondo di questo burrone esiste una sorgiva che s’innalza a chiodoe quando lo gitto è abbondante l’acqua trabocca e scorre a rivolo. E qui conviene dichiararmi contro l’opinione di molti etimologici, i quali pretendono trovare nella parola avisso un allungamento della voce latina avis, e dicono così nominarsi, dagli uccelli. Sembrami ciò un errore, perché gli uccelli aquatici non agli avissi,ma a’ pantani, ed a’ laghetti si affollano, e tutte le altre specie di volatili corrono ov’è cibo, e si radunano le sere ov’è bosco. L’etimologia bisogna ricercarla piuttosto all’aspetto che offre il suolo, e si sa che non dicesi mai avisso, se non vi è avvallamento, sprofondamento, quasi cupo abisso. A buon conto secondo me è parola enfatica; è nome che esprime la posizione naturale e non altro; e perciò si riscontra anche avissello, piccolo avisso; luogo basso, e poco sprofondato”. Aggiungo che tale spiegazione mi sembra calzante con il modo di dire cirotano ‘Ti voj ben n’abiss’, ‘Ti voj n’abiss ‘e ben’, che mi sembra troppo naturale e istintivo per essere un semplice derivato o calco della corrispondente frase italiana. Del resto si dice ‘pozzo di scienza’, ‘pozzo di bene’, mentre collegare l’affetto agli abissi marini mi sembra meno logico, legandosi spesso l’immagine di tali abissi al terrore delle profondità. Almeno, io la vedo così… Bene, se non siete ancora stufi, vi pongo un quesito per la prossima lettera o puntata, nella quale, se vi farà piacere, vi dirò un po’ di altre storielle cirotane. Il quesito è il seguente: perché si dice ‘né cuccû e né vent’? Vedrete, c’è più storia di quanto si pensi, in questo semplicissimo modo di dire… Ovviamente la mia è solo curiosità di sapere quanti conoscono, se non la spiegazione, almeno il significato della frase.

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