sommario dei post

venerdì 17 gennaio 2014

§ 036 170114 Lettere ara marina, 12. Della parlata di Cirò marina, 4.

L’ultima lettera si chiudeva con l’invito a indagare il significato dell’espressione ‘né cuccu e né bent’ (o ‘vent’, a seconda del carattere enfatico impresso al termine). Si tratta di una espressione normalissima per i cirotani di una certa età, che senz’altro ne conoscono il senso, forse meno la genesi, poiché questa è molto più ‘antica’ degli stessi utilizzatori. La prima fonte che ho rinvenuto risale al XVII secolo, l’ultima sopravvive – o almeno così mi pare di capire – fino ai nostri giorni, perlomeno fino a quando io ero bambino. ‘Né cuccu e né bent’ significa, nell’accezione più stretta, ‘senza dire nulla’ e, più in generale, si utilizza per indicare una completa assenza di risposte o manifestazioni attese: ‘unn ha ditt né cuccu e né bent…’, ‘unn ha volut sapìr né cuccu e né bent…’, oppure, semplicemente ‘né cuccu e né vent!’, olofrasticamente. Il cucco, come molti sapranno, è, sia in italiano, sia in calabrese, identificabile con il gufo o il cuculo: al di là di quale sia il volatile scelto, è proprio questa identificazione della parola ‘cucco’ a trarre in inganno. Infatti, nel ‘Vocabolario Napoletano-Italiano….’ di P.P. Volpe (Napoli 1869) alla voce ‘cucco’ si legge: ‘’cuculo: gnocco, maccherone; cucco o viento: vi sono o no le nocciuole ne’ pugni? (giuoco da ragazzi)’’, e da qui si capisce che il ‘cucco’ che ci interessa non è il volatile, ma l’indicazione della mano (‘cucche!’ starebbe per ‘è qui!’) che si presume contenga la nocciola, il maccherone o lo gnocco nascosto nella mano (cucco=gnocco, o qualcosa di piccolo utilizzato alla bisogna)… Come si faceva, alle elementari, con il ‘gioco del silenzio’, nascondendo un gessetto in una mano, o con l’attuale ‘dolcetto o scherzetto’. La fonte ancora più autorevole è ‘Lo cunto de li cunti’ di G.B. Basile (1575-1632), che vi accenna nella quarta giornata del suo Pentamerone (altro nome de ‘Lo cunto de li cunti’), opera illuminante per quanto riguarda la cultura e l’identità degli abitanti di quello che fu il Regno delle Due Sicilie. Allo stesso modo, credo che ‘viento’ debba leggersi come una ambiguità tra vento sostantivo (la mano vuota, nulla) e vento verbo (viente, vieni via, non hai indovinato). Di sicuro non basterà insistere sulla diffusione di questo gioco in gran parte dell’Italia Meridionale per richiamare l’attenzione sulla appartenenza di Cirò ad un Regno plurisecolare, organizzato secondo leggi nazionali non troppo diverse da quelle che vigevano negli altri stati europei: ad ogni modo rimane quello duosiciliano il contesto in cui visse ed operò G.F. Pugliese. Questo gioco, la sua diffusione, la permanenza dell’espressione che ne è derivata, sono una conferma della identità nazionale meridionale. Chiarisco che non recrimino, ma rimarco la cancellazione della storia scientificamente perpetrata dai ‘vincitori’, che sono poi quelli di sempre…
Tornando alla ‘Descrizione…’, il Nostro dice, a proposito di terreni,  che ‘’La sanguina o argilla aerosa rossa si trova in piccola estenzione alle falde di Donnavita, e più visibile alla parte orientale del colle superiore a Cirò, che dicesi sanguigno: ivi trovasi mista la silice, ed alle falde opposte di tal colle a scendere verso Coppo, e fino al vallone di Curiale trovansi de’ massi di pietra calcarea di una qualità eminente. Tutte le pietre conchigliose che diconsi marucare, dan buona calce, che diciamo di lapillo, ma meno grassa della prima, quantunque riesca più forte nella fabbrica che presto si pietrifica, e forma un masso durissimo.’’ Lapillo? Mi ricorda una battuta delle elementari: ‘professò, non andate di là che c’è la pilla e ci appiddate…’, chissà che non vi sia una qualche attinenza! ‘’…Richiedono continuate colture perché vi si moltiplicano i roveti, e sopra tutte le pucchie (arbusto sempreverde della famiglia delle cistacee, ndr), mucchi comunemente detti perché vi rinascono fitti e vi prosperano, sfruttando il suolo.’’ ‘’…Il nostro territorio ripeto non ha terre appese, né lamose, e quelle che per posizione tali sembrano non lo sono, e non possono in fatto esserlo. Ed è esperienza costante che un terreno argilloso in pendio che si gonfia, si fende, e fa delle screpolature, se non si ara ed appiana colla semina, viene solcato dalle acque, si scarafona, come dice il nostro volgo, e la proprietà è perduta. Infatti sappiamo tutti cosa sono ancora oggi i ‘carafùn’, e anche le persone ‘lamùse’.’’ Poco oltre scopriamo che le viti utilizzate per la costruzione dei trappeti si chiamano ‘scrufole’ o ‘scrufine’, che una giornata lavorativa, con l’utilizzo di buoi, si chiama ‘paricchiata’, che ‘’ se non si ha buon pascolo vicino al terreno in cui si lavora, il bifolco che dicesi in obbligo di saziare, abbuttare, i buoi, va rubando erba ovunque può rinvenirla, fìnanco ne’ giardini ed ortalizii.’’ Continuando con attrezzi e lavori agricoli, troviamo che ‘’… l’occare o adoccare si esegue perlopiù a mano di uomo colla zappa che rompe ed appiana le zolle.’’, che l’erpice viene chiamato ‘rogo’, i coltellini adunchi e le piccole falci si chiamano ‘roncigli’ e ‘fauciglie’ (u roncìgghjiu, a focìgghjia), e che si usano per ‘scorrere’  il grano (scùrrir; avim scurrùt: abbiamo finito di raccogliere, sun scurrùt: sono finiti). E poi spiega che ‘’ il mietitore sega colla diritta, e raccoglie i manipoli colla sinistra, e ne forma i così detti jermiti, o germiti che depone dietro di lui. Il legante unisce più jermiti e ne forma gregne, riunendoli in piccolo covone che dicesi cavaglione (Lemma regionale registrato nei Dizionari, ndr). Terminato il mietere, il bifolco col carro, o colla stragola  (slitta trainata) raccoglie le gregne, e ne fa coll’aiuto di altro uomo il gran covone, detto qui cacarozzo, ed in altri luoghi timognaEd ecco cos’è la jìna, oltre all’avena: ‘’… noi l’usiamo (parla del mangano, ndr) incavato a doppio con ischiena media tagliente la quale smozzica, e spezza i filamenti della manna, mentre che dovrebbe essere più ampio e scanalato in rotondo per ammaccare dolcemente e quasi spolverare la parte legnosa senza offendere la tiglia, o parte filamentosa, volgarmente detta jina: anche la ginestra in poca quantità si sottopone a macerazione, e se ne fa stoppa per usi grossolani.’’
Poi segue la spiegazione di termini come ammajare, approcciare, putare, svitignare, pezza (mille viti), la naca, che non è solo la culla, ma una componente del frantoio, come pure il pisolo (o pressojo), che ricorda tanto l’espressione ‘pijàr pìsulu pìsulu’, e poi ‘spigare’ (spicàr), rimondare (rimunnàr), rampare (arrampare), mesarulo (una sorta di caposquadra), passoloni (a proposito di fichi), vrelli, brelli, ‘‘specie di giunchi, di quelli stessi che usiamo per fiscoli, bruscole’’ : “se ne fanno (con i fichi) a filari semplici e per lo più di fichi minuti; a jette o trecce, ordinariamente s’infilano le ottate (una varietà di fichi), ed ogni jetta si fa di 11 libbre”. E a proposito di ‘jette’ o trecce, credo proprio che il termine cirotano ‘scettulata’, scapigliata, derivi proprio dalla mancanza di… ‘jette’. Da non confondersi, ovviamente, con ‘u jettu’ (‘accavallar u jett’ è operazione che ogni vignaiolo conosce perfettamente, come pure ‘a fimminedda’). E a proposito di jett, la parola è alquanto diffusa e usata in senso assoluto, oltre che per infiorescenze e infruttescenze e per manifestazioni patologiche (infezioni che ‘jèttin’), ricordo ai meno deboli di stomaco un uso specifico della parola ‘jettare’ che mio padre mi illustrò a suo tempo: nella Cirò dei primi decenni del ‘900, non esistendo fognature, sul far della sera ci si riuniva intonando tutti insieme ‘a jettàr, a gghjiettàr si va…’. Ovviamente si andava a svuotare gli orinali, e quel canto suonava più o meno come un avviso per eventuali malcapitati… Molto meglio che in tante altre città dove si poteva essere ‘investiti’ senza preavviso alcuno. Torniamo a Pugliese, che forse è meglio… Questi ci dice che le cannicce (cannìzz), oltre ad essere delle assi, o delle superfici fatte con canne, per conservare il pane, sono anche dei cilindri capaci di contenere fino a 60 tomoli di grano e  che si usava bere dalla ‘cannata’ ovvero dal boccale; qui aggiungo che la cannata era una precisa unità di misura, come la salma, o il tomolo, che non sono parole del dialetto cirotano, ma termini legali del Regno delle Due Sicilie, sopravvissuti all’avvento del sistema metrico decimale, che a suo tempo rappresentò una rivoluzione anche nella vita e negli usi quotidiani. Bene, volevo scrivere una lettera e ne sta venendo fuori ‘nu strummentu’… Credo non sia il caso di annoiarvi oltre, per cui mi fermo qui, non senza aver minacciato i visitatori e la redazione de ‘ilCirotano’ che probabilmente la parte che più interessa in tema di dialetto, ricavabile dalla DIN, devo ancora raccontarla (animali, piante, toponomastica, usi, costumi, giochi….). Ovviamente se lo vorrete.

Nessun commento:

Posta un commento