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venerdì 17 gennaio 2014

§ 034 170114 Lettere ara Marina, 9. Della parlata di Cirò Marina, 2.

La pronuncia
Nelle precedenti corrispondenze accennavo alla necessità di individuare e fissare delle regole grammaticali valide per il nostro ‘cirotano’, nonché delle norme per una corretta grafia (ortografia) e pronuncia (ortoepia) del dialetto. Sembrerà strano, ma per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, ovvero la corretta pronuncia, non credo sussistano dubbi o problemi insormontabili, almeno per i ‘nativi’, per coloro cioè che hanno appreso ‘naturalmente’ il dialetto. Infatti, a differenza di quanto avviene nei confronti della lingua italiana, dove il dubbio è o può essere sempre presente, nella lingua ‘dei denti da latte’, come la chiamo io, la fonia e l’accentazione sono assolutamente naturali: gli stessi organi della fonazione sono in un certo senso ‘addestrati’ al loro compito, nei confronti di quell’uso particolare e imprescindibile che è il corretto ‘posarsi’ dell’accento. In un diverso contesto, un linguista lituano disse che il dialetto è una lingua senza esercito né marina… aggiungerei che qualche freccia al proprio arco la possiede anche il dialetto e chi ne fa uso. Una ‘freccia’ è quella che ho appena accennato, un’altra è la sua espressività immediata, addirittura molto prossima al linguaggio dei segni, al gesto che senza parole dice tutto, come può essere una semplice ‘capizzijàta’, un segnale la cui immediatezza viaggia di pari passo con la stessa frase che lo esprime: possiamo immaginare una domanda del genere ‘e lui cosa ti ha detto?’, e relativa risposta ‘ha fatt a capizzijàta…’, o peggio ‘na capizzijata! In italiano non sarebbe la stessa cosa, almeno così non credo. Oserei accostare la capacità espressiva di un gesto del genere a quella contenuta in una frase olofrastica, cioè quelle frasi espresse attraverso una singola parola, ad esempio un ‘sì’, oppure un ‘bene!’, un ‘forse’: gesti, parole, e differenze di parole che dicono tutto. Per tornare al problema della corretta pronuncia della lingua italiana e delle difficoltà che si possono incontrare, potrei richiamare la differenza tra ‘pésca’ e ‘pèsca’, tra ‘vòlto’ e ‘vólto’ e via dicendo. Fortunatamente nel parlare quotidiano il contesto delle frasi ci viene in soccorso ai fini della reciproca comprensione, altrimenti sarebbe alquanto difficile trovare qualcosa di miracoloso in una ‘pèsca’… o da sbucciare in una ‘pésca’, e pretendere di essere capiti. Problemi del genere, con il dialetto, non credo ve ne siano. E comunque, a ricordarselo e saperlo pronunciare, pèsca è il frutto e pésca il pescato. Di problema, o fenomeno specifico, si può parlare, io credo, con riferimento alla situazione italiana, per una volta non solo ‘meridionale’, di quella diffusa ‘diglossia’ tipica della nostra penisola, e che è la compresenza di almeno due lingue, l’italiano e il dialetto, o addirittura di tre, come può verificarsi nel caso delle tante cosiddette ‘minoranze linguistiche’, che, per quanto ne so, ricorrono anche all’uso del dialetto del luogo in cui risiedono, e basta pensare agli albanofoni di Calabria (arbereshe, italiano, calabrese). Per fortuna la mente umana, e la parola che ne è, secondo me, la massima espressione distintiva, sanno fare ricorso, quasi con ‘invenzione naturale’, se mi si passa l’accostamento, a quello che è il ‘code switching’, che altro non è se non un ‘cambio di codice’, un ‘interruttore di codici’. ‘Codice’ è forse uno dei termini più importanti della linguistica: una lingua è un codice; l’aspetto che può sembrare difficile da recepire è che non è il codice ad appartenere agli utilizzatori, ma al contrario sono questi ultimi che, in un certo senso, ‘appartengono’ a quel codice comune, ovvero ne fanno parte. ‘Code switching’ altro non è che il passaggio dell’utente da un codice all’altro, e questo è in grado di farlo anche un bambino non ancora capace di leggere e scrivere, come ad esempio il piccolo che parla cirotano col nonno, francese o tedesco all’asilo e italiano coi genitori, situazione ricorrente, ad esempio, negli scenari legati all’emigrazione.
La grafia cirotana
Se non siete ancora stufi, torniamo all’esigenza di normare la grafia cirotana, segnalando intanto che per quanto riguarda i suoni, o i ‘foni’ che ne rappresentano le minime unità percettibili, il cirotano possiede la stessa dignità di tutti gli altri dialetti, e questo è un aspetto che non va sminuito: nessuna lingua ha maggiore ‘dignità’ rispetto ad un’altra, al più sono le opere prodotte con quella data lingua a possedere maggiore o minore importanza e risonanza. I mutamenti morfologici, fonetici, lessicali di quasi tutti i dialetti italiani, ma anche spagnoli, francesi, greci, sono stati ampiamente studiati con certosina pazienza e sconfinata sapienza da quell’autentico genio della linguistica che è stato Gerhard Rohlfs (1892-1986), che – a dorso di mulo! – percorse le contrade, anche le più impervie, di Calabria, Sicilia e Salento, annotando, indagando, registrando qualsiasi parola o suono. Una fortuna impagabile per la storia delle lingue! A questi fenomeni linguistici anche il cirotano va soggetto, contenuto nel suo alveo che è rappresentato dall’area dialettale del ‘meridionale intermedio, lucano-calabrese settentrionale’, come individuata da Heinrich Lausberg (1912-1992), che pure di Rohlfs fu collaboratore, ma non troppo accondiscendente, ritnego, dal momento che, per quel che riguarda la Calabria linguistica, ne ha spostato il confine tra lucano-calabrese settentrionale e calabrese centro-meridionale su una linea che va grosso modo da Cirò Marina a Longobucco e Cetraro, mentre Rohlfs divideva le due Calabrie all’altezza di Tiriolo, un po’ a Nord di Catanzaro.
Conclusioni
Senza fare ricorso alla sapienza dei due glottologi che ho appena citato, anche l’orecchio del dilettante può arrivare a delle conclusioni, possibilmente suffragate, in tutto o in parte, dalle affermazioni qualche autorevole studioso… Nel mio piccolo, ci provo. Ad esempio: nel cirotano la vocale -i- quando è atona diventa quasi impercettibile, benché pronunciata nel ‘cervello’ di chi parla. Vuol dire che non sappiamo articolare la vocale ‘i’? No, perché quando è accentata la pronunciamo senza difficoltà. Mi spiego: un bel guaio è che proprio la città di Milano contiene una ‘i’ atona, e che insomma, dire ‘Milàno’ non è generalmente il massimo delle nostre performance fonetiche… se solo si fosse chiamata ‘Mìlano’, con l’accento sulla ‘i’, non avremmo avuto problemi!… Pazienza, facciamoci prendere in giro, ccù su Mlan-Malàno! Dunque abbiamo accertato che la nostra ‘i’ atona è diversa da come dovremmo articolarla in italiano, anche se facciamo fatica ad ammetterlo. Ora, poiché tra gli scarti della grafia italiana esiste un accento circonflesso che stava (e ci stava pure bene) ad indicare la soppressione di un segno grafico, potremmo usarlo per indicare la nostra bella ‘i’ atona, e scrivere ‘Mîlàn’… geniale o scoperta dell’acqua calda, fate voi! Questa della ‘i’ atona potrebbe essere una prima regola. Vediamo se riesco ad imbroccarne un’altra. Visto che in cirotano la desinenza in ‘u’ di moltissime parole è molto meno marcata che altrove, fino a riuscire quasi impercettibile, si potrebbe usare anche il carattere ‘û’, in finale di parola: un uomo, ‘n’òmû, con l’avvertenza che non di accento tonico si tratta, ma di accento grafico, o segno diacritico. Quella desinenza in ‘u’ altro non è che l’esito degli ‘us’ e ‘um’ del latino. Per intendere la differenza tra la ‘u’ finale cirotana e del resto della Calabria, specie a sud di Cirò, provate ad ascoltare un parlante di Cutro o di Botricello… e probabilmente sarete d’accordo nel riconoscere che in cirotano la ‘u’ è ben marcata solo in condizioni collegate al grado di enfasi assegnato a quella precisa parola. E se la ‘u’ è accentata, come ci regoliamo con l’accento circonflesso che accento tonico non è? Usiamo l’accento come previsto anche dall’italiano, Turù… Tornando all’esempio della desinenza in ‘u’, in botricellese è normale dire, e quindi scrivere, u gattu, mentre in cirotano proporrei di scrivere u gàttû in condizioni normali, e magari u gattu ca m’ha rascat, quando si vuole enfatizzare l’espressione. Queste prime due sono delle regolette casuali, dal momento che non le avevo studiate a tavolino. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa il lettore che fosse eventualmente riuscito a sorbirsi tutta questa ‘totula’…

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