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giovedì 26 giugno 2014

§ 096 260614 Breve, estemporanea metafora...

Premessa senza pretese per una chiave di lettura: i vìpiri, bisce o vipere, sono quelle personcine a modo alle quali dobbiamo lo sfascio del Sud: sono, essi, la 'gramigna' della chiusa... spero che il tutto, ora, mostri quel senso che poteva sembrare recondito ma non troppo.


A chist’ura i vìpiri addùv ‘e mmìja dòrminu
U lantru d’a gammìtta
S’ammùscia subb a cimentàta
E d’acqua un c’è rimàsta mancu l’urma
Su’ sbotizzàti i cervèddi da staggiòna
e sbotàti i penzèri com i garròli
a mmenzagùstu
i strati pàrin un finìri
e mòviri nu passu para nu càviciu ntu costàtu
Tu, nta s’aria ca parra de Martà
Addùv sì gghjù tu, mu dici adduvi vai
Nta vešperata ‘e menzujurnu
Mu dici addùv sì
Nta chissa cicalìa
Ca bonu bonu è megghju èssiri morti
A menu c’un z’arrifrisca
e ašpetti ca quann i vìpiri si rišpìgghjn
càncinu pedda e malatìa
ci šperi o penzi
Ca è mègghju patìri a mmorta
Ca campàre 'è stort mmenza ara gramìgna?

Ora le serpi al mio paese dormono
L’oleandro del canale
Si abbandona sul cemento
E d’acqua neanche l’ombra
I ragionamenti non hanno più poesia
E i pensieri sono vuoti come rivoli
Di pieno agosto
Le strade sembrano non finire
E muovere un passo
È come un calcio nel costato
Tu, in quest’aria che sa di morte
Dove te ne sei andato, me lo dici dove te ne vai
Nella calura del mezzogiorno
Me lo vuoi dire dove sei
In questa cicalìa
Che a ben guardare sarebbe meglio essere morti
Fin quando non rinfresca
e aspetti che quando le serpi si risvegliano
cambino pelle e malattia
ci speri, o pensi
Che sia meglio patire a morte
Che vivere chino in mezzo alle gramigne?

Per spiegare cosa sia la cicalìa ci vorrebbe, ad esserne capaci, un trattatello, ma diciamo che è un po' una uggia estiva in cui, con o senza cicale, tutto sembra dover finire da un momento all'altro, nell'impotenza generale. Martà è sinonimo – e toponimo – del camposanto.

martedì 24 giugno 2014

§ 095 240614 G. Rajani, 2. Gli odori delle strade di Cirò.

Le parole del Rajani, unitamente alle foto da me fatte, sono state riprese senza troppi scrupoli e pubblicate su una pagina facebook su Cirò Marina, alquanto 'visitata', mi sembra. Che si citi oppure no il sottoscritto quale autore delle foto e dei post mi interessa poco, che si ometta la paternità dell'autore del brano tratto da 'Gli ultimi della Magna Grecia' mi sembra una occasione mancata per ricordare o far conoscere questo libro e il suo autore. Il fatto che una foto, uno scritto, una canzone, un video, vengano resi pubblici in rete non vuol dire che chiunque possa appropriarsene e farne ciò che vuole, né, tantomeno, l'uso del web autorizza la mancanza di rispetto verso gli altri e le 'cose' che essi producono. Rimane, di fondo, la differenza tra l'originale e la copia, tra chi produce e chi si appropria; in pratica: è questione di serietà... Nessuna novità, lo sapevo da tanto tempo.
                                                                           ***********

Gli odori delle strade di Cirò, nelle parole di Giorgio Rajani, da ‘Gli ultimi della Magna Grecia’ (Vallecchi 1971). Sono gli odori delle strade della Cirò del 1931, anno in cui è ambientato il romanzo, o racconto lungo, di Rajani. Da qualche giorno vado ripetendo, con cautela e senza voler risultare insistente, che quello di Rajani è un libro che merita, in senso assoluto. Non si tratta di nulla di eccezionale, ma certamente di qualcosa di profondamente sentito dall’autore, una memoria che il Nostro cerca umanissimamente di condividere, scoprendo e offrendo particolari che spesso sfuggono alla comune sensibilità, o, per meglio dire, dando dignità a particolari e situazioni che comunemente – parlo di un tempo che fu ma non troppo – non erano, e non sono tuttora, ritenute degne di considerazione, se non, addirittura, passibili di condanna ad una cancellazione ‘scientemente’ ricercata, accettata e consigliata, quasi si trattasse di peccati o panni sporchi da lavare in famiglia, o al più all’interno di un gruppo sociale o di una specifica comunità… parlo di quel ‘non facciamoci conoscere’ nel quale troppo spesso a sproposito ci si rifugia, negandoli e condannando ad un sommario oblio tanti tratti caratteristici, ‘paesani’, che non meriterebbero un simile trattamento, poiché ben altri sarebbero i modi e gli usi dai quali emendarsi.

  Ed ecco cosa dice Rajani di vinedde e cavaredde.
… la sera in cui arrivai, ap­pena passata la porta di Mavilo, la prima cosa che avvertii fu l'odore delle strade; non c'è aggettivo atto a renderne l'idea; era dato: dal mare, il cui jodio una brezza lieve portava fin lassù; dai boschi intorno; dagli aranceti e dalle vigne; dal mosto chiu­so nelle cantine; dal letame degli animali, che, di giorno, passeggiavano indisturbati nelle vie e, la sera, venivan chiusi nelle case o nelle stalle; dal latte delle capre e delle pecore appena munto; dal pelo dei somari e dei muli bagnato di sudore; dal fumo della legna che bruciava nei focolari; dal pane infor­nato; dalle abitazioni ove gli esseri umani vivevano stretti stretti e spesso insieme agli animali; dalla terra riarsa dal sole o inzuppata dalla pioggia; e da tante altre cose, mescolate fino a disperdere i loro sin­goli odori per fonderli tutti in uno, nel quale sem­brava di riconoscere quello stesso della natura,
Generalmente le strade dei paesi sono strette e io, a Roma, avevo sentito dire più volte che quelle del mio lo erano in modo particolare, ma anguste fino a quel punto non l'avrei mai supposto; bastava un uomo di media statura, posto al centro a brac­cia larghe e nemmeno troppo stese, a toccare coi polpastrelli le case dell'uno e dell'altro lato.
Eppure, arrivando, vidi, per fortunata combina­zione, le due vie principali: il Corso e quella della Timpa, chiamata così perché, dopo una salita che toglieva il respiro tanto era ripida, si arrivava, su­perata una curva stretta da passarci attaccando i go­miti ai fianchi, in cima alla collina su cui sorgeva il paese, ed essendo questa tronca sul dietro, la strada terminava con un burrone, ove, a finir dentro, non si sarebbero ritrovate neppure le ossa, tanto cadeva a precipizio sulla strada sottostante.


sabato 21 giugno 2014

§ 094 210614 G. Rajani, 1, una piacevole scoperta.

Giorgio Rajani, magistrato cirotano, è autore di 'Gli ultimi della Magna Grecia', racconto lungo, più che romanzo, edito da Vallecchi, Firenze, 1971. Di Giorgio Rajani non sono riuscito a sapere molto altro, neppure tramite il web, dove spesso si trova di tutto, a volte un 'di tutto' veramente trascurabile, mentre notizie di altre persone, e fatti, degni di ben altra visibilità, come nel caso del Rajani, rimangono inarrivabili o quasi, purtroppo. E allora non mi rimane che immaginare, facendo ricorso magari al solito clichè del 'nessuno è profeta in patria', che prevede, spesso, una fortunata carriera lontano dal paesello natìo, o cercare, per saperne di più, conoscenti o parenti di questo amabile giudice-scrittore, autore di una pubblicazione che, dall'idea che mi sono fatto, deve essere stata una specie di  libro di testo per gli addetti - o adepti, mi verrebbe da dire - della materia di cui tratta: 'La disciplina normativa della Comunità economica europea in materia sociale', Giuffrè 1963; altre pubblicazioni dello stesso autore: 'Problemi giuridici dell'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile auto e natanti', editrice dell'Automobile, 1977, e poi 'Giada', V. Bianco ed. 1976. 
Prima parlavo di 'nessuno profeta in patria', non a caso, e di immaginazione. In fondo credo di non sbagliare e di non dover troppo immaginare se suppongo che il Giorgio Rajani appartenga ad una di quelle famiglie borghesi, positivamente borghesi, che hanno comunque dato lustro ai loro luoghi d'origine, pur raggiungendo posizioni di prestigio in ambiti distanti da quelli di partenza. Da un trafiletto della 'Tibuna di Treviso' (22 febbraio 2007) leggo dell'addio ad Antonio Rajani, ammiraglio della Marina Militare e doppia medaglia d’argento al valor militare. Figura conosciuta in paese, Antonio Rajani, spirato lunedì all’età di 96 anni, era un uomo colto e di disciplina liberale. Originario di Cirò, antico borgo calabrese, aveva vissuto per molti anni a Roma. Poco più di vent’anni fa si era trasferito con la figlia Maria Chantal e la nipote Denyse a Casale, in una villa secolare posta sulle rive del Sile. Sarà stato un fratello del nostro 'giudice-scrittore'? Giudice-scrittore... così il Rajani viene definito alla voce 'L'onda di Temi' (dove per 'Temi' si intende la dea della giustizia), nel volume di G. Francione 'Il tocco e la penna (ovvero dei giudici-scrittori)', Sapere 2000, Roma. 
Bene, qui mi fermo, sperando di non aver troppo indagato, a rischio di risultare molesto. 
 Il libro di cui parlo, 'Gli ultimi della Magna Grecia', non deve aver goduto di tanta risonanza, e, se così sarà stato, mi spiacerebbe, perché è scritto bene, con misura, in uno stile piano, anche se accuso qualche particolarità nell'uso di taluni segni di interpunzione - ma parlo di virgole, in tutti i sensi- e qualche imprecisione storica, anche queste, però, da accertare: mi riferisco agli accenni a Luigi Lilio. Per il resto, possiamo porre, in una ipotetica 'letteraria' cirotana del 900', questo Gli ultimi della Magna Grecia in una posizione mediana tra il Giovanni Fràncica di Luigi Siciliani e La collina del vento di Carmine Abate, e quella posizione 'mediana' alla quale mi riferisco non è solo temporale, ma anche di 'presenza'... nessun calco, ci mancherebbe, ma i richiami comuni dell'opera successiva a quella che l'ha preceduta mi sembrano evidenti. E questa, tra l'altro, è buona cosa, al fine di non perdere un patrimonio precedente, ma di consolidarlo e ampliarlo. Non so se mi spiego, sed... intelligenti pauca.
In definitiva mi sono fatto l'idea che il Rajani scrivesse non per mestiere e che, se di questo si tratta, avrebbe potuto dare molti punti ad altri che l'arte dello scrivere hanno abbracciato per motivi professionali, con una fiducia nelle proprie qualità che spesso risulta difficilmente condivisibile.
Nei prossimi scritti cercherò, in collaborazione con l'amico Francesco Ierise, di presentare più approfonditamente questo libro che, contravvenendo ai tempi biblici delle mie letture, ho letto tutto d'un fiato.
Intanto vediamo cosa ne dice Antonio Piromalli, alle pagine 221-222 de La letteratura Calabrese, Guida editori, Napoli 1977:


La vecchia Calabria che ha cominciato a scomparire è de­scritta da Giorgio Rajani in Gli ultimi della Magna Grecia (1971 ). Lo spaccato offerto dallo scrittore è storico-culturale e umano. A cominciare dagli interminabili viaggi per giungere in Calabria, in treni affollatissimi, neri di carbone e lenti, dagli asini e dai muli usati come mezzi di locomozione, all'ingresso nella regione, nella «desolazione» (era la Sibaritide arsa e malarica, «una pianura senza respiro», anche i fichidindia parevano dire «sitio!, sitio!»), è in Rajani un eccezionale equilibrio di scrittore. Il paese descritto è odoroso di mare, dì arance, di letame, di latte di pecore e capre, di fumo di legna che brucia nei focolari, di pane infornato, di terra inzuppata di pioggia, odori della natura o di una società arcaica che produce e consuma elementarmente. Nella grande casa un tempo abitavano decine di persone e una folla di persone vestite di nero attende l'adolescente-protago­nista che scende nella terra dei suoi. La Calabria dei poveri e degli agiati di paese vive nel respiro di un mondo antico e vero, una regione di contadini, artigiani, con una economia pa­triarcale e una cultura chiusa e superstiziosa. In quelle strutture emergono anche i cambiamenti che si erano verificati con le ri­vendicazioni protette dall'alto. Siamo nell'epoca del fascismo e un proprietario protesta contro i contratti nazionali in favore delle raccoglitrici di olive («Noi proprietari siamo stati messi alla colonna peggio di Cristo: da sopra il governo ci flagella con le tasse e i tamarri, da sotto, avanzano sempre nuove pre­tese».) Lo scrittore si sofferma sulla vita familiare, sulle usanze, sul costume: anche il cordoglio, le imprecazioni, collegate con l'istituzione di una società patriarcale, hanno il vigore tragico e chiuso che avevano al tempo dei Greci. Quel mondo che il Rajani osservava nello sviluppo di superstizioni, ignoranze, de­solazione, disperazione, tende a scomparire o forse è già scom­parso. Il Rajani è riuscito a fermare senza nostalgia il profilo remoto di una regione che conservava ancora gli ultimi tratti di un passato amaro e pesante causato da oppressione e autori­tarismo disumani.
Il Piromalli dice bene, e il Rajani dice anche molto altro: di questo vorremmo occuparci e quindi... a presto!

lunedì 16 giugno 2014

§ 093 160614 De' pesi e misure in uso nella Sicilia Citeriore, e anche al Cirò.

Questo scritto, stante la vastità della materia, avrà una struttura 'in costruzione', segnalata dalle successive numerazioni delle aggiunte e modifiche che ad esso si renderanno necessarie (da 101.0 in poi).
Non nascondo che mi piacerebbe, o che ritengo interessante, che questo patrimonio di culture - in fondo di questo credo si tratti - non andasse perso; magari gli istituti di agraria potrebbero farsi custodi di questo sapere che è non solo un fatto di tecnica delle misurazioni, ma anche un notevole serbatoio di conoscenze storiche.
Tra le nozioni generalmente cadute nell'oblio, ma comunque restie a sparire del tutto dalla memoria popolare - ma anche da quella più 'colta', suppongo - credo si possano annoverare quelle dei pesi e delle misure ancora in uso, fuori dai crismi dell'ufficialità, fino agli anni '60 del XX secolo, e magari, almeno nelle campagne, anche oltre tale data.
Mi è capitato, talvolta, di assistere ad uno spremere di meningi (o forse ad una sollecitazione delle sinapsi), mie e degli occasionali interlocutori, nel tentativo di riassegnare un peso o una misura, sempre scavando nelle comuni memorie, a termini come 'tùminu', 'mittu', 'menzèttu', per non parlare di 'varrìlu', 'vutta', 'cannàta', forse per il fatto che questi ultimi tre termini, indicando rispettivamente il barile, la botte, il boccale (impropriamente, quest'ultimo), cioè qualcosa di tuttora tangibile e diffuso, hanno perso quella loro accezione più tecnica di unità di misura per liquidi che è stata lungamente contemplata nella legislazione delle Due Sicilie.
Rivangando nella memoria, posso aggiungere che la legislazione relativa ai pesi e alle misure in uso nelle Due Sicilie, pur attraversando tante casate dominanti, rimase in vigore dal 6 aprile 1480, sotto Ferdinando I° d'Aragona, fino al 6 aprile 1840, regnante Ferdinando II° di Borbone: una normativa la cui longevità, se da un lato può essere vista come esempio di 'stasi', di immutabiltà, dall'altro potrebbe anche essere letta come una attestazione di validità della stessa, cioè di capacità di rispondere alle esigenze quotidiane delle popolazioni che di quei pesi e e di quelle misure si servivano.
Cominciamo ad entrare in argomento, ricorrendo al Commendatore Carlo Afán de Rivera:
''Le misure ed i pesi sono i primi ministri della giustizia, il cui precipuo attributo sta nel distribuire a ciascuno ciò che gli spetta per diritto o per convenzione.  A questi ministri han dovuto ricorrere i popoli più rozzi dacchè han riconosciuto il dritto di proprietà, benchè nello stato di rozzezza non avessero potuto stabilirne l'esattezza, l'uniformità ed il buon ordinamento. E siccome le leggi che fanno innovazioni nelle antiche consuetudini ed abitudini dell'universale debbono superare gravi ostacoli nell'applicazione, così la riforma delle misure e dei pesi che concerneva gl'interessi materiali dell'universale ha fatto presentire in tutti i tempi a' legislatori la più pertinace opposizione. A queste difficoltà vuolsi attribuire che quando in Europa la civiltà faceva rapidi progressi e s'immegliavano tutte le civili instituzioni, non si osava intraprendere la necessaria riforma del respettivo sistema metrico. La Francia, che nella sua rivoluzione innovava tutte le instituzioni civili ad onta delle incessanti cure del governo e ad onta del concorso delle persone colte e degl'impiegati in tutti i rami dell'amministrazione pubblica, non ha potuto dopo mezzo secolo in circa riuscire a rendere generale l'applicazione del nuovo perfezionato sistema metrico. Le commozioni popolari avvenute nel corso di questo anno, quando la legge prescriveva che dal 1° gennaio 1840 si dovesse rendere generale l'applicazione del sistema metrico, porgono un luminoso esempio della pertinace resistenza del popolo quando si vuol costrignere a divezzarsi dalle idee di grandezza e di quantità che ha acquistato co' sensi fin dall'infanzia.
L'esempio della Francia si citava in appoggio da coloro che oppugnavano la convenienza di perfezionare e rendere in tutti i Reali Domini uniforme il nostro antico sistema metrico. Sarebbe per certo cessata la loro opposizione se scevri di prevenzione si fossero convinti che il nostro sistema metrico statuito da sei secoli per lo meno era perfettissimo che l'uniformità delle misure e dei pesi era stata prescritta da Ferdinando I di Aragona coll'editto dei 6 aprile 1480 che non è stato mai abrogato e che depositati in Castelcapuano e spediti in tutte le provincie i campioni delle misure e dei pesi essi soltanto si debbono considerare come legali. Si trattava quindi d'ingiugnere la rigorosa osservanza di una legge patria che restituendo nella sua integrità il nostro antico sistema metrico era in vigore da 4 secoli in circa senza essere stata mai abrogata. Di tale restaurazione era necessaria conseguenza che si fossero vietate le alterazioni e le intrusioni, avvenute nel nostro sistema metrico durante il corso di 360 anni dalla promulgazione del mentovato editto. Siamo altresì certi che gli oppositori saranno i più caldi fautori della restaurazione di una nostra antica patria instituzione, tosto che ne conosceranno gli alti pregi da noi esposti nella seconda edizione dell'opera che porta il titolo della restituzione del nostro sistema di misure pesi e monete alla sua antica perfezione. Dobbiamo per certo esser compresi della più alta ammirazione nell'osservare che quando nel medio evo la barbarie diffondevasi in tutte le regioni soggette al vasto impero romano le due Sicilie conservavano i germi della loro antica splendida civiltà i quali cominciarono a svilupparsi tosto che sotto i principi normanni furono costituite in monarchia indipendente. 
Tra le molte sapienti instituzioni civili che ne rendono luminosa testimonianza vuolsi annoverare quella del loro perfettissimo sistema di misure pesi e monete. Per difetto di documenti storici non si può asseverare se fosse stato inventato ed ordinato da coltissimi Italo-Greci o Greci-Siculi o se più tardi le sue basi fondamentali fossero state tolte dagli Egizi o dagli Arabi. Qualunque però fosse stata la sua origine egli è certo che era comune alle due Sicilie prima della loro separazione avvenuta nel 1282 e la nostra citata opera ne porge inrefragabili prove. Giova qui far cenno dei suoi principali pregi che nella nostra opera sono stati diffusamente esposti e commendati. Unica e tolta dalla natura era la base fondamentale su cui era sapientemente ordinato il nostro sistema metrico. Era per definizione statuito dover il nostro miglio equivalere alla sessagesima parte dell'arco di un grado medio del meridiano terrestre, ossia all'arco di un minuto medio del meridiano medesimo. Dividevasi il miglio in cento catene ed in mille passi ed erano perciò il passo, la catena ed il miglio aliquote esatte degli archi de' minuti primi e dei gradi del meridiano terrestre e di ogni cerchio massimo del nostro globo. Con diligenti osservazioni celesti tracciandosi sur una pianura la linea di un meridiano della lunghezza di più minuti e dividendosi pel numero di questi ultimi la lunghezza misurata con somma accuratezza, si poteva dedurre quella di un miglio corrispondente all'arco di un minuto primo. Suddividendosi il miglio in cento parti uguali, ognuna di queste indicava la lunghezza della catena e la decima parte di quest'ultima rappresentava il passo, il quale era il modulo delle misure tolto dalla natura, ossia dalle dimensioni che la sapientissima mano della Creazione avea assegnato al nostro globo. Egli è ben da notarsi che le anzidette divisioni del miglio seguivano la progressione decimale, cioè il passo, la catena di dieci passi, il decuplo della catena di cento passi ed il miglio di mille passi.
Era il passo una misura troppo grande ed incomoda per la misurazione delle piccole estensioni. Per tal ragione fu diviso in sette parti o palmi per ottenersi una misura che un uomo di alta statura avea seco nell'apertura della mano distesa tra l'estremità del mignolo e del pollice. Così ognuno scandagliando la differenza tra l'apertura della sua mano ed il palmo si abituava a tenerne conto nel servirsi della propria mano per misurare discrete lunghezze con prontezza e sufficiente approssimazione. Forse per la divisione del passo in sette parti uguali si volle anche conservare una certa equivalenza coll'antico palmo ed un certo rapporto coll'antico piede. Il palmo quindi si considerò come unità delle misure ed era aliquota esatta del passo, della catena, del miglio e degli archi dei minuti primi e dei gradi del meridiano e di ogni cerchio massimo del globo. Inoltre constando il passo di un numero impari di palmi, la sua metà o la quarta o l'ottava parte era affetta di frazioni di palmo. Per rimediare a questo inconveniente fu prescelta la canna di 8 palmi da adoperarsi come unità nella misurazione delle grandi dimensioni. Ai tempi di Ferdinando I di Aragona trovavasi stabilita la canna come unità delle misure e della sua metà si formarono i campioni. È da credersi che come l'antico palmo dividevasi in dodici once, così si conservò per gli usi comuni la stessa divisione del nuovo palmo. La divisione dell'oncia in cinque minuti mostra bene che tali divisioni erano applicate a grossolani usi comuni. 
Il sapiente che statuì il nostro sistema metrico ben conosceva che due soltanto sono i mezzi esatti per determinare la grandezza de' corpi. Il primo consiste nella misurazione delle dimensioni per conoscerne la lunghezza, la superficie ed il volume. Col secondo se ne deduceva la quantità dal loro peso. Le misure di capacità delle quali aveano fatto e facevano uso tutti i popoli per misurare gli aridi ed i liquidi sono mezzi imperfetti, i quali non possono mai dare l'esattezza nella misurazione, mentre nell'eseguirsi tal operazione porgono facile occasione alle frodi. A' tempi di Ferdinando I di Aragona tutti i liquidi si misuravano col peso e per conseguenza nelle istruzioni de' 6 Aprile 1480 relative all'uniformità delle misure e de' pesi non si fa menzione di alcun campione delle misure di capacità pe' liquidi. Per non contrariare le abitudini del popolo si dava il campione di una sola misura di capacità detta tomolo per la misurazione di alcuni pochi aridi di picciola mole. Intanto sebbene vi fosse l'anzidetta misura legale di capacità, pure in molti luoghi l'universale si serviva del peso per misurare alcuni aridi, pe' quali in altri luoghi si faceva uso della misura di capacità. Quando poi si trattava di un grande interesse nella misurazione di una gran quantità di grano, di grano d'india e di biada si associava sempre il peso alle misure di capacità. Il Real Governo traendo profitto di quest'accorta consuetudine, nelle tariffe doganali fa uso del solo peso per la misurazione di tutti gli aridi. Sotto questi rapporti dunque era perfettissimo il nostro sistema metrico che stabiliva i due mezzi più esatti per la misurazione delle sostanze.'' 
Così dice il commendatore Carlo Afán de Rivera nel 'Discorso preliminare' delle 'Tavole di riduzione dei pesi e delle misure delle Due Sicilie in quelli statuiti dalla legge de' 6 aprile del 1840', Napoli 1840, opera gemella dell'altra, alla quale pure si rimanda nel citato 'discorso', anch'essa pubblicata in Napoli nel 1840 e formanti, le due opere, una sola pubblicazione in due parti: parlo del volume 'Della restituzione del nostro sistema di misure, pesi e monete alla sua antica perfezione'. I titoli di questi libri sono chiaramente esplicativi delle intenzioni del loro eminentissimo autore.
Il problema delle misurazioni, tuttora irrisolto, deve aver costituito un impaccio non indifferente per la vita quotidiana: spulciando le tabelle delle equivalenze delle unità di misura in vigore - o forse in uso quasi fuorilegge, o comunque 'in auge' - nelle sole province, o comuni, anche non distanti tra loro, si rimane stupefatti davanti a tanta varietà d'usi, che tradotti nella pratica erano un bel fastidio per l'economia e i commerci... si aggiunga poi che spesso le denominazioni di base di quei pesi e misure erano simili se non uguali, a dispetto delle differenze di 'entità', e si capirà quante incomprensioni potevano nascere nel vendere, ad esempio, un prodotto calabrese ad un acquirente napoletano, oppure nell'esportare delle caraffe di vino da Cirò a Taranto o, cosa non infrequente, verso un porto estero...

giovedì 12 giugno 2014

§ 092 120614 Per le nozze della signorina Adele Lucifero... e 'A Cesena', di Marino Moretti.

Un accostamento forse un po' arrischiato... una poesia del crepuscolare Marino Moretti, 'A Cesena', tratta dalla raccolta 'Il giardino dei frutti' (apparsa nel 1915) e una pubblicazione, un libro, edito nel 1872 quale omaggio dei familiari per le nozze della signorina Adele Lucifero, dei Marchesi di Aprigliano; una famiglia, quella dei Marchesi Lucifero, che massimamente ha inciso sulla storia di Crotone e del 'Marchesato', e basta dare una occhiata in rete alle voci 'Armando' (fratello della signorina Adele) e del figlio 'Falcone Lucifero', ministro della Real Casa Savoia. Sono due condizioni storiche e sociali assolutamente differenti, però, al fondo, una figlia o sorella che va sposa prendendo posto, per così dire, in un'altra famiglia... mi pare che lasci sempre un segno particolare, come la scia di una barchetta bambina che prende l'abrivio, mentre i parenti festeggiano e un po' perplessi, come delle bitte, assistono al suo allontanamento. Questo per giocare a fare il crepuscolare anch'io... In realtà, nel 1872, immaginare, in Calabria, la pubblicazione di un libricino per delle nozze... incredibile, tranne che per pochissime famiglie. 

A Cesena, di Marino Moretti. 


Piove. Mercoledì. Sono a Cesena,
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.
Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia delle case senza posa,
schiuma a piè delle gronde come bava. Tu mi sorridi e io sono triste. Forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,
il sogno che non t'avvizzì, sorella,
che guardi me con occhio che si ostina
a dirmi bella la tua vita: bella, bella! Oh bambina, sorellina, o nuora,
o sposa, io vedo tuo marito, sento
a chi dici ora mamma, a una signora;
so che quell'uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolento,
il babbo che ti vuole un po' di bene. "Mamma!" tu chiami e le sorridi e vuoi
ch'io sia gentile, vuoi ch'io le sorrida,
ch'io le parli de' miei viaggi; e poi,
quando poi siamo soli (oh come piove!)
mi dici, rauca, di non so che sfida
corsa ieri tra voi, e dici dove, quando, come, perché, ripeti ancora
quando, come perché, chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo, di nuora.
Parli d'una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;

parli del nonno ch'è quasi al tramonto,
il nonno ricco del tuo Dino, e dici:
"Vedrai, vedrai se lo terrò da conto"; parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d'amor proprio, d'amore...
Piove. Mercoledì. Sono a Cesena.
Sono a Cesena e mia sorella è qui,
tutta di un uomo ch'io conosco appena, tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me così parla, così
parla, senza dolcezza, mentre piove:
"Mamma nostra t'avrà già detto che...
E poi si vede, ora si vede, e come!
Sì, sono incinta: troppo presto, ahimè! Sai che non voglio balia, che ho speranza
d'allattarlo da me? Cerchiamo un nome...
Ho fortuna: è una buona gravidanza...".
Ancora parli, ancora parli; e guardi
Ancora parli, ancora parli; e guardi
l'ombra grigiastra. Suona l'ora. È tardi.
E l'anno scorso eri così bambina!

   

martedì 10 giugno 2014

§ 091 100614 Zavarroni, Pulicicchio, Leoni, Croce; ...anche Cristo! 'Sti calabresi...

Premessa 'successiva': mi rendo conto che questa esposizione di brani vari ha il sapore di una accozzaglia di elementi diversi e forse poco congruenti... pazienza. Ero partito con l'idea di presentare l'opera di Zavarroni e i cirotani in essa annoverati, ma poi mi sono lasciato andare a qualche divagazione... e mi sa che a questo punto dovrò continuare con le considerazioni illuminanti di Augusto Placanica. 
Ci penserò...

Frontespizio della 'Biblioteca Calabra, ovvero degli uomini illustri di Calabria', di Angelo Zavarroni (1705-1767), in pratica un repertorio, elenco, almanacco, di calabresi illustri non solo nelle lettere, come sembrerebbe dal sottotitolo, ma meritevoli in genere di menzione per l'opera da loro svolta; questa antica 'biblioteca' è utile per attingere notizie difficilmente reperibili altrove, ed è spesso citata quando si parla delle vicende del sapere calabro. L'opera, in latino, è dedicata a Jacobum Salutium, cioè Saluzzo, signore di Corigliano Calabro. Dice di questo nostro 'critico', nel VI tomo delle 'Vicende della coltura nelle Due Sicilie', Napoli 1811, Pietro Napoli Signorelli: 'dobbiamo ad Angelo Zavarroni, nato in Montalto nel 1705 ed ivi morto nel 1767, la Biblioteca Calabra sive Illustriorum virorum Calabriae, qui literis claruerunt Elenchus' uscita in Napoli nel 1753, opera pregevole sebbene tratto tratto l'autore sulle tracce del Barrio vi inserisce alcuni scrittori tolti a' Siciliani ed anche a' Lucani. Angelo Zavarroni insieme con Antonio Zavarroni vescovo di Tricarico sostenne che la patria di S. Tommaso d'Aquino fosse stata Belcastro in Calabria, là dove il Pratilli stimò essere stata Roccasecca nella Campagna felice. Difese ancora il Zavarroni i compatrioti dalle imputazioni dell'autore anonimo delle dissertazioni 'de tortoribus Christi' nel libro pubblicato in Venezia nel 1738 intitolato 'Epistolae apologeticae criticae. ec.'. 
La 'difesa' dello Zavarroni non nasceva da una querelle di poco conto: qualcuno voleva far passare per calabresi anche i 'tortores Christi', carnefici di Cristo, cosa che all'epoca doveva avere un notevole impatto sull'immaginario popolare. Se aggiungiamo anche Maramaldo, e che so io... magari un Marco Tullio Catizone, non rimane che rendersi conto che il razzismo ha radici profonde e che vengono da lontano, e che non si tratta di essere solo, in ordine crescente di disprezzo, meridionali, terroni, calabresi. Ma questo vorrei dirlo con la massima serenità, sapendo che si tratta, purtroppo, di sciocchezze pericolosissime.
A rappresentare il Cirò, troviamo in questo 'elenchus' almeno un paio di viri cirenses:
 

Torniamo allo Zavarroni e al 'de tortoribus Christi', e vediamo cosa dice Gaetano Melzi nel suo 'Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani o come che sia aventi relazione all'Italia', Milano 1848:




Ecco la 'voce' della 'Biblioteca calabra' alla quale fa riferimento il Melzi, e dove lo Zavarroni afferma essere lo zio Giordano Pulicicchio l'autore del 'de tortoribus Christi':




Ma scaviamo ancora un po' nella vita dello Zavarroni, andando a leggere dalla 'Biografia universale antica e moderna ossia Storia per alfabeto della vita pubblica e privata..., Volume 65', Venezia 1831:


 

E Nicola Leoni, 'Della Magna Grecia e delle tre Calabrie, ricerche...' 1844:

 
Insomma... ''La Calabria  fu sempre bersaglio di satira mordace'', dice Benedetto Croce, ricordando, oltre ai giudizi taglienti di Alfonso d'Aragona e di Enea Silvio Piccolomini, una ''bizzarra accusa storica: che i Bruzii, per essersi alleati con Annibale contro i Romani, fossero stati condannati a prestar servizi di schiavi, e perciò anche di carnefici, ai magistrati romani nelle provincie, e che, di conseguenza, calabresi fossero stati i carnefici di Cristo'' (B. Croce, Saggi sulla letteratura italiana del Seicento).

giovedì 5 giugno 2014

§ 090 050614 Cirò nella Pantopologia Calabra.

Cirò nella 'Pantopologia calabra' di frate Elia D'Amato, religioso e poligrafo di Montalto Uffugo (1657-1748). L'opera si pubblicò in Napoli nel 1725, in latino; l'ultima - per quel che ne so - edizione è apparsa, in traduzione italiana, nel 1980 per i tipi della cosentina Brenner. Dal numero dei personaggi illustri citati, e tenendo conto delle dimensioni del paese, mi pare di poter dire che culturalmente il nostro Psycro non fosse messo poi così male... Non tragga in inganno la brevità della voce 'Cirum' contenuta in questa 'Pantopologia': a questa 'raccolta', allo stesso modo che a quella di Angelo Zavarroni ('Bibliotheca Calabra...') hanno attinto in tanti, più o meno notevoli e attendibili, cultori della storia della letteratura e della storia calabra, tantoppiù se si considera l'esiguità e difficoltà di reperimento di altre fonti. Qui 'Cirò' è stata latinizzata in 'Cirum', mentre nell'opera di Zavarroni i cirotani sono chiamati, altrettanto latinamente, 'Cirensi'... carino, direi, forse anche più elegante di 'cirotani'.
Tra i personaggi citati figurano i due Lilio, Casopero, Maleni, Giano Lacinio, Angelo Cirella, ma non l'Astorini, o San Nicodemo e neppure Cosmo Basamo. 

mercoledì 4 giugno 2014

§ 089 040614 P. Giannone, Emendazione del Calendario Romano.


 La correzione, 'emendazione', del Calendario, nelle parole di Pietro Giannone (1676-1748), autore dell'opera 'Dell'istoria civile del Regno di Napoli' (1723), alla cui stesura egli si dedicò per circa vent'anni. Nulla di nuovo, probabilmente, ma altre conferme, non tanto scientifiche (anzi: assolutamente nessuna), ma una sorta di 'consolidamento', o ulteriore attestazione, della 'letteratura' formatasi intorno alla vicenda della riforma gregoriana - o liliana - del calendario. Ritroviamo, tra le amenità, l'aneddoto relativo al sangue di San Gaudioso, che un po' di anni più tardi riporterà anche il Botta nella sua 'Storia...' 
A sottolineare lo straordinario interesse (forse non solo scientifico) suscitato dalla necessità di realizzare la riforma, in questo testo del Giannone troviamo addirittura un presunto omicidio...
Il testo proposto è stato ripreso dalla 'Biblioteca Enciclopedica Italiana', di Achille Mauri, di cui costituisce il libro XXVIII.

                                               Cap.III. § II. Emendazione del Calendario Romano.
   Merita, che fra le cose memorande accadute nel governo del Principe di Pietrapersia non si tralasci questa emendazione, che rese l'anno 1582 per tutti i secoli memorabile; tanto più che non meno negli altri Regni della Cristianità, che nel nostro, prima di riceversi, fu nella appo noi ben esaminata e discussa. L'anno antico de' Romani, non già di dieci mesi, come vollero Giunio Gracco, Fulvio Varrone, Ovidio e Svetonio, ma di dodici si componeva, siccome per sentenza di Licinio Macro, e di L. Fenestella scrisse Censorino, de' quali il primo era il mese di marzo e l'ultimo quello di febbrajo.
   I mesi di marzo, maggio, luglio ed ottobre erano ciascuno di 31 giorni: gli altri erano di 29 eccetto febbrajo, il qual solamente si componeva di 28 giorni, di maniera che l'antico anno de' Romani era di giorni 355, e mancava dall'anno degli Egizj di dieci giorni, onde fu bisogno dell'intercalare, la qual'intercalazione si faceva in ciascun biennio nella maniera, che viene rapportata dal Presidente Tuano. Ma riuscendo questa intercalazione viziosa, si diede ansa ai Sacerdoti, li quali si presero questa briga d'emendar i tempi, di regolare a lor modo il corso dell'anno, mettendovi per supplire il mese intercalare, ch'essi chiamavano Mercedonio, di cui ne facevano autore Numa Pompilio. Ma siccome fece veder Plutarco nella di lui vita, questo aiuto era assai debole per emendar quegli errori e confusioni, che ne nascevano ne' mesi dell'anno: onde i sacrificj e le ferie trascorrendo a poco a poco cadevano, come dice Plutarco nella vita di Cesare, nelle parti contrarie dell'anno: li Sacerdoti per ciò (essendosi quest'affare ridotto al lor arbitrio) come a lor piaceva, e sovente per odio de' Magistrati, ora tardi, ora presto intercalavano. Pertanto Giulio Cesare s'accinse a far egli una più esatta Emendazione dell'anno; ed avendo mentr'era in Alessandria preso il parere da que' valenti Matematici e consultato l'affare con altri Filosofi, con più emendata diligenza notando i Segni celesti, promulgò per mezzo d'un suo editto una nuova Emendazione, e mostrò la propria via, la quale attesta Plutarco, che insino a dì suoi usavano i Romani.
   (La Scuola d'Alessandria fiorì sempre di valenti Astronomi, tal che i Vescovi di Roma per non fallire il dì della celebrazione della Pasqua, secondo il prescritto del Concilio Niceno, solevano ogni anno consultarsi col Vescovo d'Alessandria per sapere il giusto equinozio di Primavera prossimo al plenilunio di che fra gli altri è da vedersi Francesco Balduino.
   Bacon di Verulamio non tralasciò di commendare la suddetta sua Emendazione, chiamandola un perpetuo documento, non meno del suo sapere, che della sua potenza, e che debbia attribuirsi alla sua gloria d'aver conosciuto non meno in Cielo le leggi delle Stelle, che d'averle date in terra agli uomini per governarli. Ma non mancaron degl'invidiosi, che, come dice Plutarco, non biasimassero tal'emendazione; e Cicerone, essendogli da taluno stato detto, che la Libbra nasceva 1'altro giorno, gli rispose, sì secondo il Bando; quasi che questo ancora si dovesse ricevere da Cesare ed accettare dalle persone.
   Ma in decorso di tempo l'editto di Cesare mal interpretato da' Sacerdoti, non fu riputato sufficiente e la sua emendazione ebbe bisogno poi d'altra ammenda; onde Claudio Tolomeo che fiorì intorno a' 180 anni dopo Cesare, considerando la gran varietà de' pareri in determinare l'anno naturale, ne descrisse un'altra tanto che variando dalle prime, ne nacque un grande turbamento ed una grande confusione.
   Nell'Imperio di Costantino Magno i Padri del Concilio di Nicea, volendo stabilire il giorno di Pasqua, ne statuirono un'altra, dal qual tempo seguì di nuovo una gran confusione negli Equinozj. Da poi Dionigi il Piccolo intorno l'anno 526, avanzandosi sempre più il disordine, cercò con nuova computazione darci rimedio, ma quello fu per pochi anni, onde si tornò a' disordini di prima.
   Il Panzirolo scrive, che l'Imperador Andronico Paleologo pensò pure ad una nuova emendazione, ma si sgomentò a porci mano, così per le guerre che gliel'impedirono, come perchè dubitava non fosse stata dagli altri Principi ricevuta: Id antea, e' dice, Andronicus Paleologus Imperator facere cogitavit, sed pluribus bellis impeditus, et quia alios Principes novo anno non assensuros dubitavit, a negotio destitit. Niceph. Gregor. Lib 8. de Paschatis correctione).
   Riputando pertanto i Pontefici romani, dover essere della loro incombenza di rimediarvi, furono per ciò solleciti, per prevenire anche gli altri Principi e l'Imperadore, di fare una nuova Emendazione: e cento anni prima, il Pontefice Innocenzio VIII fece venire in Roma Giovanni Regimontano celebre Matematico di que' tempi perché correggesse gli errori del Calendario; ma fu fama che i figliuoli di Giorgio Trapezunzio, i quali non potevano sofferire che un Germano fosse a' Greci anteposto, 1'avessero allo avvelenare: per la qual cosa non potè soddisfare al desiderio del Papa.
Immagine dal web di 'Regiomontano', 1436-1476, la presunta vittima del calendario... Fu matematico e astronomo di primaria importanza.

   Con tal'occasione scrissero a quei tempi del giusto computo dell'anno Pietro Alliacense Vescovo di Cambray e poi Cardinale, il Cardinal Cusano, e poco da poi Roberto Lincolniense e Paolo Midelburgense Vescovo di Fossombrone, il qusle sopra ciò compose un gran volume, che lo dedicò a Massimiliano I Imperadore.
   Essendosi da poi aperto il Concilio in Trento, credendosi, che que' Padri ad esempio di ciò, che si fece nel Concilio Niceno, volessero stabilire questa Emendazione, s'affaticarono i primi ingegni d'Europa intorno a questo soggetto, fra gli altri Giovanni Gennesio Sepulveda Cordovese, Gioan-Francesco Spinola Milanese, Benedetto Majorino, il famoso Luca Gaurico familiare di Paolo III e Pietro Pilato Veronese, il quale con un particolar suo libro refutò la sentenza del Gaurico. Ma il Concilio, essendosi  terminato con molta fretta, non potè occuparsi ad una cotanto intricata materia, che per diffinirla richiedeva mollo tempo.
   Pertanto Gregorio XIII dubitando di non esser prevenuto dagl'Imperadori di Germania, come affare appartenente alla ragion dell'Imperio, si pose con molta sollecitudine ad affrettar questa Emendazione, e per ciò mandò per tutte l'Accademie d'Italia, e scrisse al Senato Veneto acciò che da' Matematici e Filosofi di Padova ricercasse il lor parere intorno a correzione. Fu dato prima il pensiero a Giuseppe Molettio Messinese, il quale due prima di quest'Emendazione diede fuori le Tavole Gregoriane. Ma ricercato ancora il celebre Niccolò Copernico, famoso Astronomo di quei tempi, del suo giudizio, insorsero vari pareri, ed essendo ancora venuto in campo Sperone Speroni, s'accesero fra costoro le contese. Matteo Mogino vi ebbe ancora la sua parte, e Giuntino ricercato dal Pontefice, s'uniformò all'opinione di coloro che volevano che diece giorni si scemassero dell'anno: ma Alberto Leonio d'Utrecht, avendo perciò composto un libro, provò, che se ne dovevano scemare undici: il Duca Francesco Maria d'Urbino in grazie del Pontefice ricercò ancora del suo parere Vido Ubaldo peritissimo di questa scienza, il quale lo diede, uniformandosi però alla correzion fatta da' Padri nel Concilio Niceno. Scrissene eziandio Gregorio al Re di Francia, il quale ne diede il pensiero a Francesco Foix Candale, famoso Astronomo, che parimente diede fuori sopra ciò il suo giudizio.
   Papa Gregorio intanto, perchè non si lasciasse perdere sì opportuna occasione d'ingrandire l'autorità della sua Sede, richiedeva sì bene di ciò gli altri Principi, ma voleva che dappoi si dovesse stare a quel che egli sopra ciò stabiliva; onde esaminati tutti i pareri, finalmente per suggestione d'Antonio Lilio celebre Medico di que' tempi, s'appigliò all'emendazione di Luigi Lilio suo fratello, la qual in breve conteneva, che dovessero dell'anno scemarsi diece giorni che per difetto d'intercalazione si trovavano soverchi, e si prescriveva il modo, sicchè tal difetto non accadesse per l'avvenire. Questa correzione in un picciol volume compresa, dopo avutane l'approvazione di Vincenzo Laureo Vescovo di Monreale, il giudicio del quale sopra queste cose egli stimava tanto, la mandò a tutti i Principi Cristiani ed alle più famose e celebri Accademie d'Europa.
   Ma ebbe quest'emendazione del Lilio forti oppositori, fra gli altri Giuseppe Scaligero gran Letterato di que' tempi, il quale in quella sua maravigliosa opera De emendatione temporum scovrì gli abbagli da colui presi. Impugnò parimente il computo Liliano Michele Mestino Professore nell'Accademia di Tubingen con grandi Commentarj. Ma contra costoro in difesa del Lilio sorsero Cristoforo Clavio Gesuita, celebre Professore in Roma, ed Ugolino Martello Vescovo di Glandeves.
   Pubblicata ch'ebbe Gregorio questa sua Emendazione, perchè fosse ricevuta da tutti i Principi Cattolici e sopra ogni altro dall'Imperadore e da' Principi d'Alemagna, spedì a Cesare il Cardinal Lodovico Madruccio Vescovo di Trento; ma essendosi nella Dieta d'Augusta proposto quest'affare, dai Principi quivi assembrati fu riputato un grande attentato del Pontefice d'aver posto a ciò mano, e di grande oltraggio all'autorità di Cesare e dell'Imperio, né doversi permettere la pubblicazione del nuovo Calendario in Germania. Apparteneva ciò agli Imperadori di farlo, siccome fece Giulio Cesare e da poi nell'Imperio d'Occidente Carlo Magno, il qual diede egli a' suoi Germani il Calendario in lingua Tedesca. Ciò che fecero i Padri nel Concilio Niceno, fu per autorità di Costantino Magno Imperadore, per comando del quale s'era convocato quel Concilio: doversi pertanto rifiutare il nuovo Calendario, tanto maggiormente, che quello fu fatto, non ricercati i Principi dell'Imperio, nè il consenso degli Ordini. Cesare vedendo la costante risoluzione de' Principi, e delle città della Germania, che avevano ricevuta la Confessione Augustana, di non riceverlo, differì di trattar quest'affare e comandò che ne' giudizj della Camera s'osservasse l'antica forma sin allora tenuta.
   (In Germania presso i Protestanti nella fine del secolo XVII si fece una nuova emendazione del Calendario, togliendone dall'anno 1700 undici giorni, la quale è ancora in uso presso i medesimi, la di cui istoria meglio sarà che qui si noti colle parole istesse di Burcardo Struvio - omissis-.)
   In Francia per la morte del Tuano e l'assenzia d'Achille Arleo non fu sopra ciò fatto lungo esame, ma il Re promulgò egli un Editto che fu ubbidito dal Parlamento, col quale la nuova emendazione fu ricevuta; e scemati i dieci giorni all'anno fu stabilito che li diece di dicembre si contassero per venti, onde in quell'anno il giorno di Natale fu celebrato ai 15 di quel mese. Parimente ad emulazione del Re di Francia, il novello Duca del Brabante Francesco, per cattivarsi la benevolenza del Pontefice, ottenne anche da' Protestanti, che fosse la sua emendazione ricevuta in Fiandra, siccome fu ricevuta in Olanda e nella Frisia Occidentale e nell altre province.
   In Ispagna e ne' Dominj del nostro Re Filippo II particolarmente nel Regno di Napoli, pubblicata che fu da Gregorio questa emendazione, prima che si ricevesse, fu quella esaminata e fu richiesta la permissione e 'l beneplacito del Re Filippo, siccome in tutti gli altri Regni erasi fatto, appartenendo a' Principi, per ciò che riguarda i loro Stati, regolare i giorni e per le celebrità dei loro natali, incoronazioni e per ogni altro, ma sopra tutto per le Ferie de' loro Tribunali. Il Re Filippo informato che con accordo e partecipazione di molti Principi della Cristianità erasi fatta questa emendazione, e che coloro l'aveano ricevuta ne' loro Dominj, così egli fece ne suoi Regni; onde governando il nostro in questi tempi il Principe di Pietrapersia, mandò al medesimo il nuovo Calendario riformato da Gregorio, scrivendogli a' 21 agosto di quest'anno 1582, che avendo il Pontefice Gregorio con matura deliberazione e comunicazione de' Principi Cristiani, ed accordo di tutto il Sagro Collegio dei Cardinali riformato il Calendario, per ridur la Pasqua di Resurrezione ed altre Feste Mobili al giusto e vero punto della loro antica istituzione, perciò l'ordinava che lo facesse eseguire nel Regno Napoli ed in tutte le Chiese di quello.
   Ma contenendosi in quel Calendario alcune cose pregiudiziali alle sue preminenze, scrisse nel medesimo tempo un'altra lettera a parte al suddetto Principe, avvertendogli di mirar molto bene che se in quel che tocca alla proibizione che s'aggiunge in quello, cioè che non lo possa imprimere altri che Antonio Lilio, o altri di suo ordine, vi fosse cosa da notare di pregiudizio alla sua Regal Giurisdizione, e ritrovandosi altro inconveniente o novità di considerazione, trattenga l'impressione, e ne l'informi ed aspetti da lui nuova risposta. In cotal maniera e con tali moderazioni fu il nuovo Calendario appo noi ricevuto ed osservato; e narra il Summonte, che per ciò in questo anno li 4 d'ottobre furon contati per 14 e li pagamenti di tutti gli affitti si fecero per tanto meno, quanto era la valuta di que' diece giorni. Parimente fu osservato che conservandosi nella Chiesa di S. Gaudioso una caraffina di Sangue di S. Stefano portata in Napoli, secondo che scrive il Baronio, da S. Gaudioso Vescovo Affricano, la quale era solita liquefarsi da sé stessa il dì terzo d'agosto secondo il Calendario antico: da poi che Gregorio fece questa emendazione non bolle il sangue che alli 13 di agosto, nel qual dì, secondo la nuova riforma, cade la festa di San Stefano; onde Guglielmo Cave scrisse che questa sia una pruova manifesta, che il Calendario Gregoriano sia stato ricevuto in Cielo, ancor che in Terra alcuni paesi abbiano ricusato di seguitarlo.
   (Lo stesso narrasi esser accaduto nel bollimento del sangue di S. Gennaro a' 19 settembre. E Panzirolo in prova della verità dell'emendazione Gregoriana rapporta nel cap. 177 de Clar. Leg. Interp. una Istorietta che merita esser trascritta colle sue istesse parole - omissis-.)
                                                    *****************
Links per Lilio e Calendario:
http://originicirotane.blogspot.com/2014/05/luigi-giglio-per-carlo-antonio-de-rosa.html
http://originicirotane.blogspot.com/2014/04/trattatello-del-1578-in-cui-si-spiega.html
http://originicirotane.blogspot.com/2014/06/curiosando-in-rete-aloigi-lilius-nella.html
http://originicirotane.blogspot.com/2014/05/proprio-interessante-questo-giornale.html
http://originicirotane.blogspot.com/2014/05/e-questo-chi-e.html
http://originicirotane.blogspot.com/2014/05/magno-son-io-di-nome-et-di-costumi.html
http://originicirotane.blogspot.com/2014/05/930-luigi-lilio-nella-biblioteca.html
http://originicirotane.blogspot.com/2014/01/franceso-vizza-luigi-lilio.html
http://originicirotane.blogspot.com/2014/04/trattatello-del-1578-in-cui-si-spiega.html
http://originicirotane.blogspot.com/2014/06/p-giannone-emendazione-del-calendario.html
http://originicirotane.blogspot.com/2014/06/980-ciro-nella-pantopologia-calabra.html
http://originicirotane.blogspot.it/2014/04/margherita-esposito-luigi-lilio-da-la.html

domenica 1 giugno 2014

§ 088 010614 Curiosando in rete: Aloigi Lilius nella 'Catholic Encyclopedia'...

In questa puntata vi propongo una delle tante 'curiosità' reperibili in rete riguardo il nostro Luigi Giglio. Questa proviene da un sito americano, ed è ovviamente in inglese, anche se mi sembra un inglese molto scolastico, quello di cui in genere si servono i non anglofoni (tipo 'the book is on the table', per intenderci...). Vediamo cosa si dice, prima in questo inglese, e poi in italiano:

''Aloisius Lilius, principal author of the Gregorian Calendar, was a native of Cirò or Zirò in Calabria. His name was originally Aloigi Giglio, from which the Latinized form now used is derived. Montucla (Histoire des Mathématiques, I, 678) erroneously calls him a Veronese, and Delambre (Histoire de l'Astronomie moderne, 1812, I, 5 and 57) calls him Luigi Lilio Giraldi, mixing up Aloigi with Lilius Gregorius Giraldi, the author of a work "De Annis et Mensibus". Of Lilius's life nothing is known beyond the fact that he was professor of medicine at the University of Perugia as early as 1552. In that year he was recommended by Cardinal Marcello Cervini (afterwards Pope Marcellus II) for an increase of salary as an eminent professor and a man highly esteemed by the entire university. This date may explain why Lilius did not live to see his calendar introduced thirty years later. The statement in Poggendorff's "Handwörterbuch", that Lilius was a physician in Rome and that he died in 1576, is apparently not supported by recent researches. In that year, 1576, his manuscript on the reform of the calendar was presented to the Roman Curia by his brother Antonius, likewise doctor of arts and medicine. Antonius was probably many years younger, as he survived the reform, and owned the copyright of the new calendar, until, by retarding its introduction, he lost that privilege, and its printing became free. Mention is made of a Mgr Thomas Giglio, Bishop of Sora, as first prefect of the papal commissions for the reform. If he was a relative of the two brothers, he was not guilty of family favouritism, as he proved himself an obstruction to Aloigi's plans. Lilius's work cannot be understood without a knowledge of what was done before him and in what shape his reform was introduced.''

Quanto sopra, secondo i miei ricordi scolastici di lingua inglese, suona più o meno così:
''Aloisius Lilius, principale autore del Calendario Gregoriano, nacque in Cirò, o Zirò (1), in Calabria. Il suo nome era originariamente Aloigi Giglio, da cui deriva la forma latinizzata attualmente in uso (2). Montucla (Histoire des Mathématiques, I, 678) lo chiama erroneamente 'veronese', e Delambre (Histoire de l'Astronomie moderne, 1812, I, 5 and 57) lo chiama Luigi Lilio Giraldi, scambiando Aloigi con Lilius Gregorius Giraldi, autore di ''De Annis et Mensibus''. Della vita di Lilio non si sa nulla, oltre al fatto che fu professore di medicina all'Università di Perugia non più tardi del 1552. In quello stesso anno egli fu segnalatoo dal Cardinale Marcello Cervini (il futuro papa Marcello II) per un aumento salariale quale eminente professore e uomo altamente stimato dall'intero mondo accademico. Questo fatto potrebbe spiegare perché Lilio non visse abbastanza da poter vedere l'introduzione del suo calendario trent'anni più tardi (3). L'affermazione, nell' "Handwörterbuch" di Poggendorff (4), che Lilio fosse un fisico operante in Roma e che morisse nel 1576, non è supportata, a quanto pare, dalle recenti ricerche. In quell'anno, 1576, il suo manoscritto sulla riforma del calendario fu presentato alla Curia Romana dal fratello Antonio, anch'egli umanista e medico. Antonio era probabilmente di molti anni più giovane, poiché visse oltre la riforma e detenne i diritti d'autore del nuovo calendario, finché, a causa del ritardo dell'introduzione, perse quel privilegio, e la stampa del calendario divenne libera. Si menziona un Mgr (direttore) Tommaso Giglio, vescovo di Sora, come primo prefetto delle commissioni pontifice per la riforma. Se anche egli fosse stato un parente dei due fratelli, non sarebbe colpevole di favoritismi familiari, poiché si oppose personalmente al progetto di Aloigi. L'opera di Lilio non può essere compresa senza una conoscenza di cosa fosse stato fatto prima di lui e delle condizioni nelle quali la sua riforma fu introdotta.''
1 Della forma 'Zirò' si è ormai persa traccia, e un po' mi spiace.
2 Lilius è la forma latina per 'giglio', come è noto.
3 Spiegazione un po' fragile...
4 Poggendorff, Biographisch-Literarisches Hand-wörterbuch zur Geschichte der Exacten Wissenschaften enthaltend Nachweisungen über Lebensvehältnisse und Leistungen von Mathematikern, J.C. Poggendorff (ed), Leipzig, J.A. Barth, 1863.
Seguono le fonti.
Sources:
CLAVIUS, Novi Calendarii Romani Apologia (Rome, 1588); IDEM, Romani Calendarii a Gregorio XIII P. M. restituti Explicatio (Rome, 1603); LIBRI, Histoire des Sciences Mathématiques en Italie, IV (Halle, 1865); KALTENBRUNNER, Die Vorgeschichte der Gregorianischen Kalenderreform in Sitzungsberichte der Akademie philos. histor. Klasse, LXXXII (Vienna, 1876), 289; KALTENBRUNNER, Die Polemik über die Gregorianische Kalenderreform, ibidem, LXXXVII (1877), 485; KALTENBRUNNER, Beitrage zur Geschicte der Gregorianische Kalenderreform, ibidem, XCVII (1880) I, 7; SCHMID, Zur Geschichte der Gregorianischen Kalenderreform in Görresgesellschaft, Historisches Jahrbuch 1882 und 1884; MARZI, La questione della Riforma del Calendario nel Quinto Concilio Lateranense 1512-1517 (Florence, 1896); DÉPREZ, Ecole Francaise de Rome; Mélanges d'Archéologie et d'Histoire XIX (1899) 131.
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APA citation. Hagen, J. (1910). Aloisius Lilius. In The Catholic Encyclopedia. New York: Robert Appleton Company. Retrieved June 1, 2014 from New Advent: http://www.newadvent.org/cathen/09247c.htm
MLA citation. Hagen, John. "Aloisius Lilius." The Catholic Encyclopedia. Vol. 9. New York: Robert Appleton Company, 1910. 1 Jun. 2014 <http://www.newadvent.org/cathen/09247c.htm>.
Transcription. This article was transcribed for New Advent by WGKofron. With thanks to St. Mary's Church, Akron, Ohio.
Ecclesiastical approbation. Nihil Obstat. October 1, 1910. Remy Lafort, Censor. Imprimatur. +John M. Farley, Archbishop of New York.
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