Le pagine che seguono sono tratte da ‘Storia del peperoncino, Un protagonista
delle culture mediterranee’, di Vito
Teti, Donzelli Editore, 2007. Vito Teti, calabrese di S. Nicola da Crissa,
dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo dell’Unical, a
Cosenza.
Il titolo del volume non deve trarre in
inganno: non si tratta di ricettario con annesse notiziole sull’arrivo in
Europa del peperoncino e sua successiva affermazione, ma di un saggio, storico
e scientifico, seppure dal taglio volutamente ‘colloquiale’, intimistico, ma che
non viene meno, nonostante questa scelta dell’autore, alla sua funzione
scientifica e divulgativa, tutt’altro: dall’impostazione di cui dicevo prima
deriva una lettura accattivante, che coinvolge anche un lettore comune, come il
sottoscritto, a digiuno di particolari conoscenze antropologiche, anzi,
avvicinandolo a questa affascinante scienza umana. Segnalo, nel titolo, che si
parla di culture mediterranee, e non di colture, anche se, nel corso dei secoli
– e nelle incertezze che spesso hanno segnato il lessico italico – le parole ‘coltura’
e ‘cultura’ si sono spesso intrecciate e confuse.
Chiusa parentesi, e sfogliando il libro,
‘dirò dell’altre cose ch’i v’ho scorte’:
ad esempio, queste pagine 9-10 del capitolo introduttivo ‘In forma di assaggio’
dove il Teti racconta un episodio occorsogli in gioventù… un episodio che,
sotto forme e in contesti magari più o meno differenti, avrà coinvolto tanti,
ma proprio tanti, calabresi, ma anche meridionali in genere, e, allargando l’orizzonte, italiani all'estero, o comunque, insomma, i depositari
di una identità ben definita agli occhi altrui, soprattutto quando questa
identità è profondamente connotata dalle forme a volte irrinunciabili del
pregiudizio.
Non fatevi illusioni: i calabresi
nascono tali, e tali rimangono… è sempre come in quell’aneddoto della madre
maltrattata ‘linguisticamente’ dal figlio che ritorna ‘dal soldato’ e comincia
a ‘toscaneggiare’ davanti alla povera vecchia… ad un certo punto il giovane
mette il piede sulla parte in ferro della zappa e, beccatosi una bella legnata
in fronte, esclama ‘aja aru merùggiu!!!’
(con annessa bestemmia), e la povera donna, di rimando: ‘ah, t’è venuta a parola!’… Questo dico, tanto per rimanere nel ‘colloquiale’.
Ho marcato in neretto alcune
affermazioni del professor Teti che mi sembrano particolarmente rilevanti.
Il fenomeno del quale si leggerà ('Spesso organizziamo le nostre azioni...') è noto,
correggetemi se sbaglio, come ‘effetto Rosenthal’, molto affine al ‘complesso di
Pigmalione’, e credo, almeno per la mia esperienza personale, che sia una
caratteristica molto calabrese… mi spiace non aver fatto studi adeguati per
poterlo spiegare ad altri, mi spiace molto, e allora mi rifugio nel mio
silenzio da ‘cavallina storna’: capisco ma non so ridire, per cui mi limito a
fare ‘a capizzijàta’.
Una conferma, drammatica, di questo effetto Rosenthal di cui vado parlando, me la diede, a suo tempo, mio padre, ormai colpito dal male che lo avrebbe costretto a letto fino alla sua scomparsa. Quel giorno, spinto dal dolore e dall'ira si lasciò andare a degli improperii, peraltro giustificabili per quello che stava vivendo, e, davanti alla mia richiesta di smettere quel comportamento, mi fissò, con occhi chiari come non mai, dicendomi, sussurrandomi, confidandomi, affermando (e mettendomi a tacere): 'siamo calabresi...' Non aggiungo altro, non mi sembra il caso, e solo chi non vuol capire, pur conoscendo i 'dati' dell'assunto, può non capire, almeno credo.
Ai miei 3-4 amici lettori, augurando loro buona lettura, vorrei dire di riflettere attentamente, specie sulle righe
finali: sono parole, a mio modesto avviso, profonde ed esatte, altamente
esplicative, di un antropologo culturale e di un profondo conoscitore della materia in quanto dal medesimo autore pienamente vissuta.
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La prima
volta che mi accorsi dì una mia diversità - o più semplicemente la inventai? -
nel legame complesso che le persone intrattengono con il peperoncino, avevo
poco più di vent'anni. La scoperta avvenne fuori dal mio paese, dove consumare
peperoncino era quasi per tutti
un fatto naturale e quotidiano. Era il 1971, facevo il servizio di leva a
Roma, dopo essere stato a Cagliari, e una sera ci trovammo, in tanti, nella casa di un amico romano per fare una
spaghettata all'aglio, olio e
peperoncino. Quando misi in bocca la prima forchettata, trovai il peperoncino
adoperato un po' dolciastro, scipito, e mi venne, come si usa dalle mie parti, di chiederne dell'altro e di più
forte. Ricordo ancora lo sguardo
smarrito dei miei amici che soffiavano, starnutivano, bevevano vino a
causa dell'eccessivo peperoncino che avevo fatto buttare nella padella, dove
veniva girata la pasta. «Ne hai forza», mi disse qualcuno. «Si vede che sei calabrese». Continuai a mangiare, con ricercata disinvoltura, quella pasta molto piccante, che,
confesso, mi provocava un po' di bruciore. Come dire? Senza saperlo, mi
immedesimai nella parte del calabrese
mangiatore di peperoncino. Non pensai allora all’accostamento peperoncino, forza, Calabria, ma quel
giudizio (che ora mi
rendo conto sfiorava, sia pure in maniera simpatica, il pregiudizio) mi
fece sentire importante, mi riempì di orgoglio. Ero un ragazzo melanconico, appartato e insieme esuberante, e mi
sentii improvvisamente osservato, al
centro dell'attenzione per un merito che non apparteneva tanto a me, quanto al mio essere calabrese. Ero granatiere di Sardegna, studiavo filosofia a Roma, seguivo
la lettura del Capitale di
Marx che Lucio Colletti faceva all'università e anche qualche corso poco frequentato su Nietzsche e la nascita
della tragedia, militavo a fianco dei gruppi della sinistra extraparlamentare,
avevo una fidanzata in paese, sentivo
la mancanza di casa, ma soprattutto, come tanti allora, desideravo tornare ardentemente in Calabria per cambiare le cose, per fare in modo che il mondo di padri
emigrati, di braccianti,
contadini, raccoglitrici di olive avesse finalmente ascolto. Era anche il periodo dei fatti di Reggio e dei legami
'ndrangheta, politica, servizi
segreti, estrema destra, e sentivo che bisognava fare qualcosa per i
nostri paesi che continuavano a spopolarsi. Tutti i giovani erano fuori, qualcuno partiva per sempre, altri
sognavano un ritorno, che solo in pochi poi fecero.
Quella sera, il riferimento al
peperoncino e alla Calabria fece scattare una qualche molla dentro di me.
Cominciai a mantenere, socializzando sempre più, le mie promesse e
caratteristiche di calabrese. In fondo mi comportavo come gli emigrati e quelli
che avevano fatto la guerra:
mangiare peperoncino era una sorta di legame con il mondo d'origine. Il mio interesse per il peperoncino
aumentava, e non solo a livello
alimentare. Quando tornavo in paese, d'estate, in occasione delle feste, ormai in fatto di piccante me la cavavo
bene anche rispetto ai più terribili
e accaniti mangiatori dì peperoncino, amici braccianti e mastri
muratori, ma anche studenti.
Spesso organizziamo
le nostre azioni per compiacere o per dispiacere gli altri. A volte ci comportiamo come gli altri
vogliono, per non dispiacerli o per
confermare una loro immagine. Altre volte costruiamo un'immagine di noi corrispondente alle
aspettative altrui, e altre volte ancora ci
comportiamo in modi nemmeno da noi condivisi soltanto per contrastare le
immagini negative che gli altri sì sono fatte di noi. Gli studiosi di psicologia infantile, quelli che indagano il legame
madre-bambino, hanno chiarito bene
quanto il bambino abbia bisogno del
sorriso materno e come si adoperi per suscitarlo. Quella che chiamiamo identità è spesso il frutto di un bisogno di
affetto, di riconoscimento, molte
volte è esito di un gioco di sguardi incrociati, di malintesi, di chiusure e
di aperture nostre e degli altri. Quando
tutto questo riguarda non tanto l'individuo, ma un gruppo o una
popolazione, si capisce come spesso l'identità culturale sia un'invenzione,
che subisce i condizionamenti dello
sguardo esterno, e che i pregiudizi alimentano risposte di tipo pregiudiziale. Il problema di tutti è quello di uscire in tempo dalle dinamiche di
tipo madre-bambino, e di non comportarsi come se fossimo assediati dagli altri
o attendendo il loro riconoscimento, o temendo la loro disapprovazione. L'identità non può che essere una storia
di dialogo, di rapporto, di messa in discussione di sé.