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sabato 22 novembre 2014

§ 131 221114 Vito Teti: la scoperta del peperoncino e... di una forma dell'identità.

Le pagine che seguono sono tratte da ‘Storia del peperoncino, Un protagonista delle culture mediterranee’, di Vito Teti, Donzelli Editore, 2007. Vito Teti, calabrese di S. Nicola da Crissa, dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo dell’Unical, a Cosenza.
Il titolo del volume non deve trarre in inganno: non si tratta di ricettario con annesse notiziole sull’arrivo in Europa del peperoncino e sua successiva affermazione, ma di un saggio, storico e scientifico, seppure dal taglio volutamente ‘colloquiale’, intimistico, ma che non viene meno, nonostante questa scelta dell’autore, alla sua funzione scientifica e divulgativa, tutt’altro: dall’impostazione di cui dicevo prima deriva una lettura accattivante, che coinvolge anche un lettore comune, come il sottoscritto, a digiuno di particolari conoscenze antropologiche, anzi, avvicinandolo a questa affascinante scienza umana. Segnalo, nel titolo, che si parla di culture mediterranee, e non di colture, anche se, nel corso dei secoli – e nelle incertezze che spesso hanno segnato il lessico italico – le parole ‘coltura’ e ‘cultura’ si sono spesso intrecciate e confuse.
Chiusa parentesi, e sfogliando il libro, ‘dirò dell’altre cose ch’i v’ho scorte’: ad esempio, queste pagine 9-10 del capitolo introduttivo ‘In forma di assaggio’ dove il Teti racconta un episodio occorsogli in gioventù… un episodio che, sotto forme e in contesti magari più o meno differenti, avrà coinvolto tanti, ma proprio tanti, calabresi, ma anche meridionali in genere, e, allargando l’orizzonte, italiani all'estero, o  comunque, insomma, i depositari di una identità ben definita agli occhi altrui, soprattutto quando questa identità è profondamente connotata dalle forme a volte irrinunciabili del pregiudizio.
Non fatevi illusioni: i calabresi nascono tali, e tali rimangono… è sempre come in quell’aneddoto della madre maltrattata ‘linguisticamente’ dal figlio che ritorna ‘dal soldato’ e comincia a ‘toscaneggiare’ davanti alla povera vecchia… ad un certo punto il giovane mette il piede sulla parte in ferro della zappa e, beccatosi una bella legnata in fronte, esclama ‘aja aru merùggiu!!!’ (con annessa bestemmia), e la povera donna, di rimando: ‘ah, t’è venuta a parola!’… Questo dico, tanto per rimanere nel ‘colloquiale’.
Ho marcato in neretto alcune affermazioni del professor Teti che mi sembrano particolarmente rilevanti.
Il fenomeno del quale si leggerà ('Spesso organizziamo le nostre azioni...') è noto, correggetemi se sbaglio, come ‘effetto Rosenthal’, molto affine al ‘complesso di Pigmalione’, e credo, almeno per la mia esperienza personale, che sia una caratteristica molto calabrese… mi spiace non aver fatto studi adeguati per poterlo spiegare ad altri, mi spiace molto, e allora mi rifugio nel mio silenzio da ‘cavallina storna’: capisco ma non so ridire, per cui mi limito a fare ‘a capizzijàta’.
Una conferma, drammatica, di questo effetto Rosenthal di cui vado parlando, me la diede, a suo tempo, mio padre, ormai colpito dal male che lo avrebbe costretto a letto fino alla sua scomparsa. Quel giorno, spinto dal dolore e dall'ira si lasciò andare a degli improperii, peraltro giustificabili per quello che stava vivendo, e, davanti alla mia richiesta di smettere quel comportamento, mi fissò, con occhi chiari come non mai, dicendomi, sussurrandomi, confidandomi, affermando (e mettendomi a tacere): 'siamo calabresi...' Non aggiungo altro, non mi sembra il caso, e solo chi non vuol capire, pur conoscendo i 'dati' dell'assunto, può non capire, almeno credo.
Ai miei 3-4 amici lettori, augurando loro buona lettura, vorrei dire di riflettere attentamente, specie sulle righe finali: sono parole, a mio modesto avviso, profonde ed esatte, altamente esplicative, di un antropologo culturale e di un profondo conoscitore della materia in quanto dal medesimo autore pienamente vissuta.
Cat.

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La prima volta che mi accorsi dì una mia diversità - o più sempli­cemente la inventai? - nel legame complesso che le persone intratten­gono con il peperoncino, avevo poco più di vent'anni. La scoperta av­venne fuori dal mio paese, dove consumare peperoncino era quasi per tutti un fatto naturale e quotidiano. Era il 1971, facevo il servizio di le­va a Roma, dopo essere stato a Cagliari, e una sera ci trovammo, in tanti, nella casa di un amico romano per fare una spaghettata all'aglio, olio e peperoncino. Quando misi in bocca la prima forchettata, trovai il pe­peroncino adoperato un po' dolciastro, scipito, e mi venne, come si usa dalle mie parti, di chiederne dell'altro e di più forte. Ricordo ancora lo sguardo smarrito dei miei amici che soffiavano, starnutivano, beveva­no vino a causa dell'eccessivo peperoncino che avevo fatto buttare nel­la padella, dove veniva girata la pasta. «Ne hai forza», mi disse qualcuno. «Si vede che sei calabrese». Continuai a mangiare, con ricercata di­sinvoltura, quella pasta molto piccante, che, confesso, mi provocava un po' di bruciore. Come dire? Senza saperlo, mi immedesimai nella parte del calabrese mangiatore di peperoncino. Non pensai allora all’accostamento peperoncino, forza, Calabria, ma quel giudizio (che ora mi rendo conto sfiorava, sia pure in maniera simpatica, il pregiu­dizio) mi fece sentire importante, mi riempì di orgoglio. Ero un ragazzo melanconico, appartato e insieme esuberante, e mi sentii improvvisamente osservato, al centro dell'attenzione per un merito che non apparteneva tanto a me, quanto al mio essere calabrese. Ero granatiere di Sardegna, studiavo filosofia a Roma, seguivo la lettura del Capitale di Marx che Lucio Colletti faceva all'università e anche qualche corso poco frequentato su Nietzsche e la nascita della tragedia, militavo a fianco dei gruppi della sinistra extraparlamentare, avevo una fidanzata in paese, sentivo la mancanza di casa, ma soprattutto, come tanti allora, desideravo tornare ardentemente in Calabria per cambiare le cose, per fare in modo che il mondo di padri emigrati, di braccianti, contadini, raccoglitrici di olive avesse finalmente ascolto. Era anche il periodo dei fatti di Reggio e dei legami 'ndrangheta, politica, servizi segreti, estrema destra, e sentivo che bisognava fare qualcosa per i nostri paesi che continuavano a spopolarsi. Tutti i giovani erano fuori, qualcuno partiva per sempre, altri sognavano un ritorno, che so­lo in pochi poi fecero.
Quella sera, il riferimento al peperoncino e alla Calabria fece scat­tare una qualche molla dentro di me. Cominciai a mantenere, socializ­zando sempre più, le mie promesse e caratteristiche di calabrese. In fondo mi comportavo come gli emigrati e quelli che avevano fatto la guerra: mangiare peperoncino era una sorta di legame con il mondo d'origine. Il mio interesse per il peperoncino aumentava, e non solo a livello alimentare. Quando tornavo in paese, d'estate, in occasione del­le feste, ormai in fatto di piccante me la cavavo bene anche rispetto ai più terribili e accaniti mangiatori dì peperoncino, amici braccianti e mastri muratori, ma anche studenti.

Spesso organizziamo le nostre azioni per compiacere o per dispia­cere gli altri. A volte ci comportiamo come gli altri vogliono, per non dispiacerli o per confermare una loro immagine. Altre volte costruia­mo un'immagine di noi corrispondente alle aspettative altrui, e altre volte ancora ci comportiamo in modi nemmeno da noi condivisi sol­tanto per contrastare le immagini negative che gli altri sì sono fatte di noi. Gli studiosi di psicologia infantile, quelli che indagano il legame madre-bambino, hanno chiarito bene quanto il bambino abbia bisogno del sorriso materno e come si adoperi per suscitarlo. Quella che chia­miamo identità è spesso il frutto di un bisogno di affetto, di riconosci­mento, molte volte è esito di un gioco di sguardi incrociati, di malinte­si, di chiusure e di aperture nostre e degli altri. Quando tutto questo ri­guarda non tanto l'individuo, ma un gruppo o una popolazione, si ca­pisce come spesso l'identità culturale sia un'invenzione, che subisce i condizionamenti dello sguardo esterno, e che i pregiudizi alimentano risposte di tipo pregiudiziale. Il problema di tutti è quello di uscire in tempo dalle dinamiche di tipo madre-bambino, e di non comportarsi come se fossimo assediati dagli altri o attendendo il loro riconosci­mento, o temendo la loro disapprovazione. L'identità non può che es­sere una storia di dialogo, di rapporto, di messa in discussione di sé.

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