La figura di Uccialì ha sempre abitato nella mia immaginazione, da quando seppi qualche notizia delle vicende di questo 'rinnegato' originario di Le Castella: una storia a modo suo 'classica', questa del giovinetto rapito dai turchi (o dagli zingari, o dai giostrai...), che affrontando tante avverse fortune arriva a diventare un ammiraglio tra i più importanti di sempre, per quanto riguarda la marineria dell'Impero Ottomano. Siamo di fronte ad un personaggio leggendario, citato anche nel 39° capitolo del 'Don Chisciotte'; Uccialì fu uno dei relativamente pochi turchi riusciti a salvarsi dalla disfatta ottomana di Lepanto. Nonostante l'abiura e le fortune militari, Uccialì non dimenticò mai la sua terra d'origine: la leggenda vuole che egli tornasse sulle coste calabre con la speranza di incontrare la propria madre, la quale, per nulla intenerita, lo maledisse. Ma forse si trattava solo di propaganda cattolica.
Parliamo, ad ogni buon conto, di un ragazzetto che molto probabilmente avrebbe speso la propria esistenza tra anfratti sperduti del litorale jonico, per sempre ignaro delle sue doti di comando, e che invece è riuscito a massimizzare gli esiti della propria cattura da parte dei 'cattivi'... Tutto questo senza dimenticare, comunque, che da 'cristiano' Uccialì si era reso responsabile di un omicidio, per quanto preterintenzionale.
Nel considerare la straordinaria vicenda di Uccialì (questa pronuncia è molto fedele a quella 'originale' turca, successivamente storpiata, in occidente, con la variante 'Occhiali', oppure 'Occhialì'), bisogna tenere presente la quotidianità delle incursioni turchesche lungo i litorali d'Italia, non solo calabri o meridionali. Questo quotidiano terrore per l'apparizione dei turchi - ...'mamma li turchi! - lo attestano, nei loro silenzi quasi rassegnati, le tante torri d'avvistamento che ancora sopravvivono - grazie alla perizia dei loro costruttori - lungo le nostre coste. Per quel che riguarda il litorale cirotano, ce lo ricordano le due torri conosciute come 'Torre Vecchia', in località Madonna di Mare, e 'Torre Nuova', in località omonima, o quasi, mentre delle vicende dei nostri antenati cirotani parla diffusamente il nostro storico Giovan Francesco Pugliese, che in qualche modo dei turchi fu anche vittima... ma questo lo dirò in altra occasione.
|
Busto di Uccialì a Le Castella. |
Ecco un estratto dal 'Don Chisciotte', capitolo XXXIX, 'Vita ed avventure dello schiavo', fonte web: liberliber.
''...in fine l'armata tornò a Costantinopoli vincitrice e trionfante, e dopo pochi
mesi passò fra gli estinti l'Ucciali il mio padrone, soprannominato Ucciali Fartax, che
significa in lingua turchesca, il rinnegato tignoso, perché era coperto di tigna;
ed è costume dei Turchi di pigliare un soprannome o da qualche loro particolare difetto,
o da qualche virtù di cui vadano adorni: e ciò deriva dal non esservi tra loro se non
quattro nomi di famiglie le quali discendono dalla casa ottomana, e le altre, siccome ho
detto, lo prendono sempre o da virtù o da difetti loro propri. Questo tignoso vogò al
remo, schiavo del gran Signore, pel corso di quattordici anni; pervenuto poi oltre i
trentaquattro, per avere comodità di vendicarsi di uno schiaffo ricevuto da un Turco,
rinnegò la sua fede. Sì grande fu il suo valore che senza ricorrere ai turpi mezzi ed a
quelle indirette vie per le quali i più arrivano ad essere favoriti dal Gran Signore,
salì sul trono di Algeri e poi fu generale di mare, ch'è la terza dignità che si
conferisce in quell'impero. Era calabrese di nazione e buon uomo, trattando con grande
umanità i suoi schiavi, che ascesero al numero di tremila; i quali poi, siccome ordinò
col suo testamento, andarono ripartiti tra il Gran Signore (erede di quanti muoiono, e
compartecipe insieme coi figli della sostanza che lasci il defunto) e tra i suoi
rinnegati. Io toccai in sorte ad un rinnegato veneziano, ch'essendo piloto di una nave era
stato fatto prigioniero dall'Ucciali il quale lo amava sopra tutti gli altri suoi garzoni
e riuscì poi il più crudele rinnegato che sia stato giammai. Chiamavasi Azanaga;
accumulò grandi ricchezze, e montò sul trono di Algeri. Ivi l'ho io seguìto partendo da
Costantinopoli alquanto contento di trovarmi sì vicino alla Spagna, non già perché
avessi intenzione di far sapere a veruno l'infelice mia sorte, ma per non so quale
speranza che in Algeri potesse riuscirmi ciò che in Costantinopoli m'era sempre fallito,
dove avevo tentate infinite maniere di fuggire, ma tutte invano. Pensavo di rintracciare
in Algeri altri mezzi di secondare gli ardenti miei voti, non avendo perduto giammai la
speranza di riacquistare la libertà: e quando io vedeva mal riuscire l'intento da me
immaginato, senza cadere di animo andavo studiando nuovi mezzi che alimentavano le mie
speranze, tuttoché fossero deboli e inefficaci. A questo tristo modo io conducevo la
vita, rinserrato in una prigione che i Turchi chiamano bagno, in cui stanno
imprigionati gli schiavi cristiani, sì quelli che sono di proprietà del re, come gli
altri che appartengono a private persone, e quelli che chiamano dell'Almazen, ch'è lo
stesso che dire, schiavi del Consiglio, i quali servono la città nei lavori
pubblici e in altri offizî. Molto difficilmente ottengono questi tali la libertà,
perché appartenendo al comune e non ai particolari padroni, non si sa con chi trattare
pel loro riscatto, se pure n'avessero i mezzi. In quei bagni dunque dove alcuni signori
privati tenevano custoditi gli schiavi che miravano alla loro liberazione, io mi trovava,
ed erano in mia compagnia anche alquanti schiavi del re i quali non sogliono escire colla
ciurmaglia al lavoro se non quando comincia a perdersi la speranza del riscatto, o quando
si crede che l'aumento delle fatiche possa farli più solleciti a comperarsi la libertà;
nel qual caso, raddoppiano per costoro i lavori penosi, come a dire il far legna sulle
montagne, ch'è insopportabile travaglio. Stavami dunque frammischiato con questi schiavi
da riscatto: ed essendosi saputo il mio grado di capitano, ad onta che avessi dichiarato
ch'io era povero e che dovevo quel posto a mille fatiche, mi collocarono nel numero dei
cavalieri e della gente da molto prezzo. Mi posero una catena più per segnale di riscatto
che per custodia, e a questo modo io passava la vita tra quegli orrori con molti altri
cavalieri, e gente di qualità di cui si teneva certa la liberazione. Quello che più di
tutto mi pesava sul cuore non era già la fame o la nudità da cui quasi sempre eravamo
tutti travagliati, ma sibbene l'essere testimonio continuamente alle non più vedute e
inaudite crudeltà che si esercitavano dal padrone contro i Cristiani. Ogni giorno ne
faceva appiccar qualcheduno, un altro impalare, ed un altro tagliar gli orecchi, e tutto
ciò per cause di sì lieve momento e così fuor di ragione che dicevano i turchi stessi
essere ciò per suo capriccio, e non per altro che per covar anima di fiera a danno del
genere umano. La indovinò con costui un solo soldato spagnuolo chiamato Saavedra, il
quale benché avesse fatto cose che rimarranno lungamente scolpite nella memoria di quelle
genti per riacquistare la sua libertà, non gli diede, né mai dar gli fece un colpo di
bastone, né gli disse mai un'aspra parola; anche pel più leggiero de' suoi mancamenti
noi avevamo gran timore che lo facesse impalare: timore da cui era colto egli pure. Se il
tempo non mancasse io potrei contarvi molte imprese di questo soldato che vi desterebbero
maraviglia: ma bisogna pur ch'io continui il mio racconto.''
Bene, quanto sopra giusto per stuzzicare la fantasia e la voglia di approfondire... Della vita di Uluç Alì Pascià, alias (forse) Giovan Dionigi Galeni (Le Castella 1519- Istanbul 1587) parla diffusamente Gustavo Valente (Celico 1910-2007), che ne è probabilmente il massimo esperto ( e forse non poteva essere diversamente, dal momento che lo storico cosentino-crotonese visse per molti anni nei pressi di Capo Colonna: e quale miglior luogo d'ispirazione?!)
Di seguito, la voce relativa a GALENI, Gian Dionigi (Uluch-Alì, Ulucciali), dal 'Dizionario Biografico degli Italiani' - Volume 51 (1998), di Gino Benzoni:
''Nacque, stando a Gustavo Valente - lo studioso che più
s'è sforzato di connotare la prima fase della vita del G. -, attorno al
1520, a Le Castella, località non lungi da Isola di Capo Rizzuto
(nell'odierna provincia di Crotone), da Birno, un pescatore originario
di Sant'Agata del Bianco, e da Pippa de Cicco, una contadina del luogo.
E, a congettura del biografo, il G. fanciullo avrebbe avuto - per
volontà del padre desideroso di predisporre per lui una sorte meno dura
della propria - i primi rudimenti d'istruzione.
Un'ipotesi che non
regge gran che se la si fa scontrare colla perentoria asserzione -
nella relazione, del 1585, di Gianfrancesco Morosini reduce dal
bailaggio costantinopolitano - secondo la quale il G., allora "capitano
del mare" ottomano, "di nazione calabrese, nato vilissimamente in un
luogo detto li Castelli, non sa né leggere né scrivere". Ed è ancora
Morosini ad annotare, sempre a proposito del G., che sarebbe, nel 1585,
"vicino alli 80 anni". E prossimo agli ottanta l'ha già detto, nella sua
relazione del 1584, Giacomo Soranzo, un altro diplomatico veneto,
mentre nel 1587 il bailo veneziano Lorenzo Bernardo lo ritiene
ultraottantenne. Col che la nascita del G. andrebbe anticipata al 1505.
Ma per quanto nebuloso l'avvio dell'esistenza del G., questi è fatto
schiavo, giovinetto, nel 1536. Sicché vien da mantenere la più tarda
data di nascita proposta da Valente e da constatare, nel contempo, che,
quand'è decisamente ultrassessantenne, la vita di mare l'ha talmente
segnato, da farlo sembrare, appunto, ancor più vecchio. Stando a
Morosini, il G. nel 1585 è talmente "prosperoso e gagliardo" da far
"meravigliare", dati gli anni che gli si attribuiscono. Più semplice,
allora, supporre un G. energico sessantenne, forse civettante cogli anni
che gli si danno a occhio, proprio per far stupire, usufruendo, in più,
dell'alone di saggezza derivantegli, appunto, dall'età presunta.
Prestigioso
vecchio nella capitale dell'impero ottomano, comunque, il G. e prima
povero fanciullo della costa ionica della Calabria. Ed è in faccia a
questa che compaiono, il 29 apr. 1536, una trentina di navigli guidati
dal terribile Barbarossa, Khair ad-dīn. Vana la replica al
cannoneggiamento dal mare delle batterie della fortezza. E furibondi,
allo sbarco del 1° maggio, gli aggressori proprio perché s'è tentato di
resistere. Inevitabile il sacco. E trucidato il padre del G., mentre la
madre si salva. Catturato, invece, con altri ragazzi e con giovani
donne, il G., incatenato, portato a Istanbul e quivi messo in vendita. È
piccolo, sgraziato, decisamente brutto, col cuoio capelluto afflitto da
chiazze eritematose, infestato dalla tigna. Tant'è che lo si chiama Al
Fartas (il tignoso). E l'acquista per poco un rais, il corsaro Giafer,
che subito lo mette al remo in una delle sue tre galeotte. Inchiodato
alla voga per un paio d'anni, il suo corpo d'adolescente ancor gracile,
ancora in via di formazione, non regge. Cade ammalato. Per fortuna
Giafer ha intuito in lui qualcosa di non comune, ha scambiato con lui
qualche parola, s'è con lui sin consultato. Sicché non se ne sbarazza,
lo destina a servizi domestici, in casa propria.
E qui,
servizievole e sollecito, si guadagna la simpatia e la stima della
moglie del padrone. Benvoluto da questa, benvoluto dal marito, finisce
col godere d'un trattamento privilegiato. Ma ciò suscita l'invidia
d'altri due schiavi, un siciliano e un napoletano, che si coalizzano
contro di lui in un quotidiano stillicidio di dispetti, punzecchiature,
offese, piccole angherie. E il G. sopporta paziente, sinché,
schiaffeggiato dal napoletano, reagisce con un violento pugno che fa
cadere all'indietro l'avversario, che batte il capo e rimane stecchito a
terra.
Colpevole d'omicidio, sia pure preterintenzionale, a
questo punto il Galeni. E punita colla morte l'uccisione d'uno schiavo
da parte d'un altro schiavo. Unica via di scampo a portata di mano
l'immediata conversione all'islam, l'inturbantamento - e il turbante
torna buono a celare la tigna -, la circoncisione, l'inturcamento.
Ostinato, sino allora, il G. nel non rinnegamento, pur a questo
sollecitato reiteratamente da Giafer e sua moglie. Opportuno, ora,
decidersi, farsi turco a tutti gli effetti. E tra questi la non
punibilità del neoturco che ha ucciso uno schiavo, un infedele. E
immediati altri vantaggi: non più al remo il G. rinnegato, ma
sorvegliante dei rematori forzati; non più schiavo, ma promosso a genero
di Giafer ché, come soprattutto vuole la moglie di questo, sposa la
loro figlia Bracaduna. E gli si spalanca davanti l'avvenire.
Così
nella versione - tra le tante circolate sul suo rinnegamento - più
meticolosa nei particolari e, come tale, se non pienamente attendibile,
per lo meno non inverosimile. Resta la sensazione d'un racconto
fabbricato da un'affabulazione mediterranea da un lato affascinata dalla
vicenda del poveraccio che, inturcandosi, afferra la fortuna,
dall'altro come atterrita all'idea che la fortuna conquistata comporti
la dannazione dell'anima.
Un'esperienza effettiva, specie per le
popolazioni della costa calabra, la razzia di uomini. E un incubo il
cadere in mano all'infedele. Ma, nel contempo, una tentazione, del pari
effettiva, quella del rinnegamento, ché, con questa, la vita pare
rovesciarsi in positivo, slargarsi, farsi fuga dalla miseria e dalla
fame. Vituperando il rinnegato, degno dell'inferno e già creatura
infernale, già demone in terra. Ma anche accarezzato da un fantasticare
calamitato dal suo successo, ammirante le sue gesta, invidiante le sue
ricchezze. Intrigante, inquietante il fascino sinistro che ne emana.
Trista la sua fama, ma anche suggestionante per tanti che stentano
anonimi la vita. E sin favola bella alle orecchie degli affamati i suoi,
appunto, favolosi bottini. E più che pensare alle fiamme dell'inferno
che attendono la sua anima, vagheggiano i lussi e le delizie che
avvolgono il suo corpo. E per tanti disperati gli stessi rischi e
cimenti della pirateria si configurano a mo' d'avventura premiata dalle
razzie, remunerata dai saccheggi. In fin dei conti quella del corsaro è
una carriera con prospettive d'ascesa, con speranza di tangibili
ricchezze. Una pinacoteca di ceffi quella dei celebri rinnegati, ma
anche - nel tragitto dal reale all'immaginario - di protagonisti
vittoriosi. Ed è a entrare in questa che si candida il G., quando si fa
turco, quando diventa genero di Giafer, quando questi l'invia, nel 1541,
assieme al figlio Alì - il quale è un giovinetto; e il suocero l'affida
al G. perché l'istruisca e lo protegga - a Dragut. Ed è alle campagne
di quest'ultimo che il G. partecipa sempre più apprezzato per abilità
marinara e ardire combattivo, non senza che della sua valentia giunga
eco sin a Costantinopoli, che di lui si sappia anche nell'ambito di
Solimano il Magnifico. A mano a mano dispone d'un proprio ambito
operativo nel quale risaltare individualmente, come quando, a capo di
due fuste, nel 1554 scorrazza nelle acque della Sardegna occidentale
catturando una galera. E tra i prigionieri il nobile catalano Giacomo
Losada, che sarà riscattato a caro prezzo.
Di nuovo attivo nel
1555 il G. - e questa volta con cinque galere grosse ai suoi ordini -
conquista una galera dei cavalieri di Malta. Ancora a caccia di preda il
G. nel 1556, con una galea e una galeotta, sinché, il 23 luglio, nei
paraggi di Gerba, non incappa in una squadra di tredici galee capeggiate
da Giovanni Andrea Doria. E, per salvarsi, non gli resta che guadagnare
terra lasciando i suoi legni al nemico. Una disavventura che, per
quanto umiliante, non interrompe il suo corseggiare. Sicché è di nuovo
aggressivo nel 1557. E, il 17 apr. 1558, è il G., a capo di nove unità
(quattro galere e cinque galeotte da lui guidate a bordo della
"bastarda" di Dragut), ad affrontare la squadra ove spicca il galeone di
Visconte Cicala nei pressi della costa tunisina. Ben sei ore di
reciproco cannoneggiamento, cui il galeone riesce a scampare - sia pure
malconcio, con tutta l'alberatura, incluso l'albero maestro, rovinata -
rifugiandosi, il 28, a Cagliari. Uno smacco la mancata cattura di questo
(tanto più che, prontamente riparato, il "galeone di Cicala", riprende
di lì a poco a operare) per il G., compensato dalla presa di due
vascelli carichi di vino. Nel febbraio del 1560 - coll'appalesarsi,
minaccioso per Tripoli, del piano aggressivo del viceré di Sicilia Juan
de la Cerda, duca di Medinaceli - è il G. a precipitarsi con due
galeotte a Costantinopoli ad allertare la Porta. E, mentre Dragut si
porta a Tripoli da Gerba, in questa il 7 marzo sbarca Medinaceli. Ed è
qui che lo sorprende, l'11 maggio, la flotta turca di Piale pascià che
ha il G. come secondo. E, nella disfatta cristiana, trionfatore il G.,
che cattura una ventina di galee e fa oltre 5000 prigionieri. Vigorosa
la successiva ripresa della guerra di corsa. Il G. si spinge sino a capo
San Siro, in Liguria. Di qui s'inoltra sino a Taggia e Roccabruna. E
se, in giugno, il duca di Savoia Emanuele Filiberto, allora a
Villafranca, schiva l'ignominia della cattura, è perché, deposta ogni
velleità di resistenza, acconsente al versamento d'una somma enorme
(12.000 scudi, pare), colla quale riscatta anche una quarantina di
cavalieri. E pure oggetto d'incursioni le coste della Linguadoca e della
Provenza. E catturata dal G. una nave di Dieppe.
Famoso a questo
punto il G., temibile e non certo col suo nome cristiano di Gian Dionigi
Galeni. Le fonti lo chiamano Lucalì (il che ha fatto supporre una
derivazione da Luca; sarebbe stato, allora, questo il suo nome di
battesimo), Uluds-Alì (il rognoso), Uluosch-Alì, Ouloudi, Aluccialì,
Locchialì, Luzzolì, Luccialì, Uluch-Alì, Uichialì, Uluzzalì, Louchalì, Ulug-Alì, Euldi-Alì, Ucci-Alì, Uluccialì, Ucciallì, Euldi-Alì,
Ouloud Alì, Euludy Alì, Luccialli, Ucci-Ali, Eudji Ali, Uluc Ali e
soprattutto Ochialy o Occhiali o Occhialì, più semplice - in occidente -
da scrivere e da pronunciare. Nel 1562 il sultano lo nomina capitano
della squadra d'Alessandria, conferendogli altresì il comando della
capitana costantinopolitana dalla quale - così un racconto non più che
tanto attendibile e, con tutta probabilità, ricalcato su un analogo
episodio concernente Scipione Cicala - sarebbe sbarcato nel luogo natio
carico di doni per la vecchia madre. E questa, salda nella fede, li
avrebbe rifiutati.
Nel 1563 ancora incursioni piratesche guidate
dal G.; particolarmente audace lo sbarco del 31 maggio a Chiaia e
immediatamente fruttuoso il sequestro di ventiquattro persone ché il
viceré di Napoli, il duca d'Alcalá Pedro Afán de Rivera, si premura di
riscattarle prima che egli riparta. Partecipe sin dall'inizio, il 18
maggio 1565, il G. all'assedio di Malta, colle sei galee della guardia
d'Alessandria nelle quali sono imbarcati seicento soldati. E, morto
durante questo, il 23 giugno, Dragut, il G. gli subentra nel comando
delle operazioni e nel governatorato di Tripoli. Strenua però la
resistenza degli assediati. E, nel protrarsi dell'assedio - ché, caduta
la fortezza di Sant'Elmo, le cittadelle di Borgo e San Michele, in
compenso, non cedono -, il G. si porta a Tripoli donde torna con cinque
galee cariche di viveri. Ma l'arrivo, il 7 settembre, del soccorso
spagnolo agli ordini del viceré di Sicilia don García de Toledo rovescia
la situazione. Ora sono i Turchi in difficoltà. E lo stesso G.,
attardatosi nel salvataggio d'un contingente, per poco non rischia di
cadere in mano dei difensori. Uno scacco per la Porta l'abbandono turco,
dell'11 settembre, dell'assedio. E un po' responsabile della fallita
spedizione pure il G., cui Solimano vorrebbe, a tutta prima, revocare
gli incarichi, togliere la reggenza di Tripoli. Ma si frappone il
principe ereditario Selim, al G. favorevole, ritardando la destituzione.
E lo stesso, una volta sultano, nomina il G. viceré d'Algeri nel marzo
del 1568. Il che suona come promozione. "Occhialì bassà d'Algeri", lo
chiama il bailo veneziano Marcantonio Barbaro. "Re" preferisce dirlo la communis opinio
mediterranea, ché così l'intitolatura l'enfatizza, l'ingrandisce e, nel
contempo, enormizza il rinnegamento, lo rende vieppiù famigerato.
È
come sottintendere che ha perso il cielo per un regno in terra, che ha
venduta l'anima, che sarà dannato in eterno. Tentante per il G.
l'appoggiare in qualche modo la rivolta ancora non doma dei moriscos
in quel di Granata, anche se, nei colloqui con lui ad Algeri lungo il
1569, il doppiogiochista Francisco Gasparo Corso gli va spiegando che la
rivolta è al più un fastidio per Filippo II, che i ribelli non sono
pericolosi, non sanno combattere, atti come sono non già alle armi, ma a
zappare e pascolare.
Crucciata, in effetti, la Spagna da quel che
il G. potrebbe fare. Tant'è che cerca di cattivarselo, tant'è che,
sottovalutando i suoi appetiti, gli offre, purché stia buono e si faccia
buono, un marchesato in Calabria. E, sempre nel 1569, gli invia a
prospettargli l'offa, troppo modesta, d'una sistemazione
feudal-marchionale tal Giovanbattista Ganguzza, un calabrese di Le
Castella, suo compaesano e, pure, in qualche modo suo parente.
Troppo
poco per l'ottica affatto terrena del G., cui il feudo sembra piccolo,
mentre non l'ingrandisce la possibilità del rientro nel cristianesimo.
La sorte dell'anima decisamente non è in cima ai suoi pensieri. Lungi da
lui la speranza animante il verseggiare d'un conterraneo anonimo,
vagheggiante un G. cedente "Algier al confalon de Spagna" e insieme
genuflesso a Roma, al cospetto del papa, dal quale implora perdono pei
suoi peccati, ottenendone la "benedition" assolutoria. Né, d'altra
parte, il G. è talmente islamizzato da pensare seriamente a soccorrere i
moriscos in lotta. Quel che gli preme è approfittare d'una
guerra che sta paralizzando il re Cattolico. Quel che gli interessa è
metter mano su Biskra e, soprattutto, su Tunisi. È alla volta di questa
che, nell'ottobre del 1569, muove con un robusto contingente di 4 o 5000
giannizzeri che strada facendo si gonfia di volontari. E, mentre Malay
Hamida ripara con pochi fidi nella fortezza spagnola della Goletta, il
19 genn. 1570 il G. entra a Tunisi senza incontrare resistenza. E ci
rimane un paio di mesi, per poi tornare - lasciandovi una grossa
guarnigione e affidandone il governo a un suo luogotenente, il rinnegato
corso Cayto Ramadan - ad Algeri. Ma da qui lo chiama lungi dalla costa
africana la guerra contro Venezia per Cipro. Salpato da Biserta con
circa venticinque galee senza che G.A. Doria riesca a intercettarlo,
s'unisce alla flotta ottomana. Ed è con questa nel giugno del 1571 di
fronte a Candia. Sua iniziativa la conquista e il saccheggio di Retimno,
donde poi procede alla volta di Zante - qui sbarca in luglio - e quindi
assaltando e catturando la "Moceniga", la "Leza", e la "Costantina",
tutte navi destinate a Sebastiano Venier. E poi s'inoltra nell'Adriatico
domando Dulcigno, conquistando Antivari, Budua, assediando Curzola,
saccheggiando Lesina, quindi tornando indietro toccando Cattaro,
Durazzo, Valona e azzardando nel settembre - ma l'assalto viene
rintuzzato - lo sbarco a Corfù. Imminente ormai l'immane scontro tra la
flotta ottomana e quella cristiana. E il 7 ott. 1571, nei pressi di
Lepanto il G., nel disporsi di quella è al comando - di contro al destro
cristiano costituito dalle cinquantatre galee comandate da Doria -
delle sessantasette galee e ventisette galeotte del corno sinistro.
Violento l'impatto tra i due corni contrapposti allorché il G.,
trattenuto da Doria, punta, con manovra accerchiante, al centro
dell'armata cristiana. E il G. riesce a sganciarsi dalla presa di Doria,
ad accostarsi alla squadra centrale. E nel procedere sbaraglia la
capitana maltese (e catturato M. de Cervantes nel vano tentativo di
soccorso da parte della capitana di Doria; balzato, racconterà nel Don Chisciotte
"sulla galera nemica", staccatasi questa da quella di Doria, rimane
"prigioniero" del G.), la prende a rimorchio, danneggia altre galee,
mette a mal partito la "Fiorenza" papale rimorchiando pure questa. Ma
l'avvenuta saldatura tra Doria e don Giovanni d'Austria è una morsa che
rischia di stritolarlo. Al G. non resta che rinunciare al rimorchio
delle due galee e sottrarsi allo scontro. Nel tripudio pel trionfo
cristiano, nella fine del mito dell'invincibilità turca, nel disastro
ottomano è l'unico, tra i nemici della Cristianità, a potersi stralciare
dall'ignominia della sconfitta. Totalmente distrutta l'armata nemica,
scrive Venier, l'8 ottobre, alla Serenissima, "non essendo fuggito se
non 30 vele con Uluzali". E non appena apprende - vagamente - della
clamorosa vittoria il nunzio pontificio a Napoli Cesare Brumano si
precipita a scrivere a Roma il 23 ottobre: totale l'annientamento della
flotta turca, "eccetto alcune galee… fuggite con l'Uciali".
Evidentemente le buone notizie volano se già il 23 ottobre si sa, a
Napoli, qualcosa. Ed evidentemente quelle cattive vanno un po'
rallentate se solo il 23 ottobre Selim II, allora ad Adrianopoli, ha -
da un messaggio del G. - la comunicazione ufficiale della sconfitta.
E
nell'elaborazione del lutto provocata dalla sconfitta - sconvolta a
tutta prima Costantinopoli da una catastrofe che suona come giudizio
dell'Onnipotente - si dà un'accorta gestione, edulcorante e rianimante.
Sin trionfale il rientro del 28 dicembre del G.: "Lugiali vice re
d'Algier con il residuo dell'armata" sopravvissuto alla rotta arriva nel
porto con ventisei galere e nove "palandarie" scaricanti "tanta
arteglieria che parevano esser più di 200". Così in un anonimo diario di
prigionia redatto da persona al seguito di Marcantonio Barbaro. "Una
superbissima intrata" questa del G., annota il diarista, con gran
spiegamento, con fragore d'artiglieria, con sventolio di bandiere. E ciò
ad "arte, per allegrare il populo, il qual concorse tutto alla marina",
come a una festa. E fiero combattente il G., nella misura in cui depone
ai piedi del sultano lo stendardo dei cavalieri di Malta guadagnato in
battaglia. Va da sé che, invece, visto da Occidente, il G. è
semplicemente scappato: "vedendo Ulucciali che l'armata era rotta, fuggì
con trenta o quaranta vele… et col stendardo della capetana di Malta",
riassume la relazione sulla vittoria cristiana dovuta a Marcantonio
Colonna e trasmessa a Ragusa con proprie "aggiunte" dal diplomatico
raguseo Francesco Gondola. Perito a Lepanto il Kapudan, ossia
grande ammiraglio, Muezzinzadè Alì pascià, è il G. quello che merita di
succedergli. E, infatti, Selim II lo nomina capitano del Mare, gli
conferisce il generalato del Mare, che comporta - come spiegano
meticolosamente i diplomatici veneziani - l'"assoluto governo"
dell'arsenale, la cura esclusiva, tutta dell'armata marittima, nonché il
governo di Pera, Gallipoli e dei sei sangiaccati di Rodi, Metelino,
Scio, Lepanto, Negroponte, Prevesa. E a valorizzare la carica il cambio -
sempre voluto dal sultano - del nome.
Non più Ouloudj - dall'arabo 'ildj, che significa barbaro, straniero e, anche, zotico - ma Kilic Alì o Kilige-Alì o Quìlìǧ 'Alī o, ancora, Kĭlĭdi Ali. E kĭlĭdi,
in arabo, significa sciabola, spada. Alì la spada, Alì la scimitarra
insomma. Un nome adeguato all'entità del compito ed espressivo anche
della volontà di rimonta turca dopo l'umiliazione di Lepanto. E
protagonista, in effetti, il G. d'una fase nella quale la ferita inferta
viene cicatrizzata, lungo la quale la sconfitta viene riassorbita, sin
annullata, sin amputata delle possibili conseguenze. Arrestata,
ridimensionata, sin ricacciata, sin costretta all'arretramento
l'offensiva cristiana.
Pressoché distrutta a Lepanto la flotta
della mezzaluna. Ma, diretto energicamente dal G., l'arsenale
costantinopolitano, nel solo inverno del 1571-72, con un ritmo
intensificato al massimo di lavoro, produce almeno 220 unità, anzitutto
galere e poi galeotte e fuste. Scarseggia la fanteria da imbarcare.
Epperò la potenza di fuoco complessiva è superiore a quella della flotta
battuta a Lepanto. Più numerosa questa di quella cristiana, epperò
svantaggiata, ché in essa sono prevalenti arcieri e frombolieri.
Memore
della lezione, il G. finalizza le nuove unità a un moderno armamento:
quindi l'archibugio al posto dell'arco; quindi artiglieria saldamente
piantata. E solide le sue galee e, nel contempo, come quelle della
marineria algerina, più leggere, più agili di quelle cristiane ma,
ovviamente, con minor capacità di carico. Con una flotta ammodernata il
G. è in grado di sfidare il nemico, anche se, nel contempo, alla
contrapposizione frontale s'accompagnano ammiccamenti furbeschi, accenni
di trattative sottobanco. Già l'11 maggio 1572 Algeri chiede la
protezione del re di Francia Carlo IX ottenendone l'assenso, non senza
che contemporaneamente il G. lanci messaggi di disponibilità a cedere la
città a Filippo II. E risbuca Ganguzza al quale il G. fa capire che non
gli spiacerebbe, come contropartita, il titolo di principe di Salerno.
Non è, comunque, per ottenere un qualche principato individuale che il
12 giugno il G. esce in mare con oltre centodieci galere tra salve
bellicose d'archibugi e cannoni, ma per riaffermare la mezzaluna. Più
accenno a manovre da schermaglia che battaglie il fronteggiarsi delle
flotte, del 7 e del 19 agosto, nel quale il G. schiva lo scontro vero e
proprio, mentre Marcantonio Colonna non sa imporlo. Più ravvicinato, il
15-16 settembre, l'incontro colla flotta guidata da don Giovanni
d'Austria, ma questi non sa forzare Modone, dove il G. è riparato, e
distruggervi la flotta turca. Efficace tattica quella del G. d'evitare
la battaglia campale. Nel frattempo, i collegati si scollano. E poi, col
giungere dell'autunno, la guerra cessa, viene rimandata all'anno dopo. E
in questo, il 7 marzo 1573, la Serenissima addiviene alla pace
separata. E se l'11 ottobre don Giovanni d'Austria conquista Tunisi, nel
1574 l'armata della mezzaluna - forte di quasi trecento unità, se alle
230 galere si sommano i navigli inferiori, e con ben 40.000 uomini
imbarcati - guidata dal G. conquista il 25 agosto la Goletta, già
spagnola dal 1535, e quindi, il 13 settembre, Tunisi. Col che vien da
dire che si chiude il dopo Lepanto, non senza che il trionfo cristiano
nelle acque di questa non si ridimensioni a battaglia vinta in una
guerra, pei trionfatori di Lepanto, non vincente. Dopo di che il G. si
limita a operazioni di polizia marittima, anche a corseggiare un po',
anche a lasciar corseggiare. Non cerca il grande, immane scontro. Per
tal verso quello a Lepanto è stato il più grande e, insieme, l'ultimo.
Indicativo giunge, all'inizio del 1576, avviso a Venezia che il G. -
così il 14 gennaio il nunzio pontificio Giambattista Castagna - vada
insistendo perché si riducano le unità prodotte dall'arsenale. Per quel
che lo concerne gli bastano "200 galere bene armate", meno "maoni et
navi", sicché "l'armata sia più presta et spedita". E "lettere di
Costantinopoli" dell'11 giugno, indirizzate a Venezia, affermano - a
detta del nunzio Castagna - che il G. s'è limitato a portarsi "a
Navarino per fortificar quel forte". E sarebbe uscito in mare con circa
ottanta galee. Meno degli anni antecedenti insomma. E l'anno dopo, nel
1577, addirittura la flotta - anche se il G. non è d'accordo - nemmeno
esce. È un effetto della tregua colla Spagna. E se, nell'aprile del
1579, l'armata esce parzialmente, è avviata verso il Mar Nero.
Tutt'altro che gratificato il G. dal doversi adattare a incombenze
ausiliarie nei confronti della minaccia persiana. Fatto sta che scarica
munizioni a Trebisonda, che sovrintende all'erezione d'un "castello nel
territorio di Tatiana" (ossia dirige i lavori per le possenti
fortificazioni costruite a Kars), che rinforza e amplia i "confini nella
Georgia", rientrando il 10 settembre a Costantinopoli con solo tredici
galee, delle trenta con cui era partito. Oggettivamente la guerra
terrestre non dà risalto al grande ammiraglio. Il suo protagonismo
abbisogna della perdurante tensione turco-ispana. E, invece, questa si
sta allentando: a mano a mano il Portogallo da un lato e la Persia
dall'altro decantano la conflittualità nel Mediterraneo del re Cattolico
e del Gran Signore. Per tal verso tra i due necessita la sospensione
delle armi, s'impone una pace di fatto, anche se il G. s'agita in
contrario.
"Re del mare" - e per mare s'intenda il Mediterraneo - è
in certo qual modo spiazzato, laddove, attirate verso Est la Turchia e
verso Ovest la Spagna, il contenzioso mediterraneo ne risulta svuotato,
la centralità mediterranea sta venendo meno.
Il G. è quel che più
rilutta a prender atto della tregua ispano-turca. Ed è quello dal quale
la Spagna più si sente minacciata. Già ambasciatore veneto in Ispagna,
Matteo Zane riferisce, al suo rientro nel 1584, che Filippo II paventa
la "Barberia", s'angoscia nel vedere che il G. "con l'armata frequenti
ogni giorno Algeri". A vuoto il tentativo del 1582 per cui "un Andrea
Corso" offre, per conto di Filippo II, una ricompensa purché dia
l'armata alla Spagna, purché tradisca. Comunque un po' "d'orecchio alla
negoziazione" avviata da Andrea Corso (che dev'essere un parente di quel
Francisco Gasparo Corso che l'aveva contattato nel 1569) il G. pare
prestarlo. Comunque - è sempre Zane a riferirlo - "si crede… che se" il
G. "continuerà a frequentare quel viaggio", il tratto
Costantinopoli-Algeri, "con poca armata, il re" di Spagna "s'abbia a
risolvere di farla combattere dalla sua". Da constatare come il G.
costituisca il massimo dell'aggressività antispagnola al punto da
diventare, agli occhi di Filippo II, un problema da risolvere o colla
corruzione ad personam o con una guerra, sempre ad personam.
Certo che, per indurre il G. a tradire il Gran Signore, la ricompensa
dovrebbe essere enorme. E se par prestare orecchio, forse lo fa perché
sia l'agente spagnolo a scoprirsi e a scoprire le manovre in atto per
conto del re Cattolico. Forse simula disponibilità per ingannare, per
sondare a sua volta sino a che punto la Spagna spinge le sue trame. Da
escludere pensi realmente a un clamoroso voltafaccia, a un rientro alla
grande, da principe di Salerno, in Occidente, a un'abiura dell'islam, a
una riconversione al cattolicesimo. Né la fede cristiana, dato il suo
ruolo di custode anche della "sicurtà di questi mari", gli si configura
come promotrice di virtù, dal momento che sono cristiane le "galee" che,
appunto, "in questi mari", specie a danno di "tutti i luoghi
dell'arcipelago", esercitano la pirateria, continuano a "rubar".
Il
G. è straricco: lucra sulla pirateria barbaresca da lui "secretamente"
favorita; pretende donativi: per esempio tramite un suo agà invia uno
scrivano al bailo Gianfrancesco Morosini per notificare che "consigliava
di mandare a donare" 7000 "cechini al suo padrone", ossia il G., per
ammorbidirlo in merito a una grave questione in corso. Il bailo - sempre
tramite lo scrivano, che riferisce all'agà, che a sua volta riferisce
al G. - fa presente a quest'ultimo che la "cassetta di cristallo" appena
donatagli costa molte migliaia, appunto, di "cechini". Ottiene il G.
donativi da tutti i diplomatici; accumula appannaggi; estorce tangenti.
Sontuoso - così, nel 1584, il veneziano Giacomo Soranzo - "nel canale
del mar Maggiore" il "serraglio" dove abita. Circa 10.000, allora, gli
schiavi cristiani a Costantinopoli; e, di questi, 3000 appartengono al
sultano Murad III e altrettanti al Galeni. E questi su di un colle
soprastante la propria dimora sta facendo erigere "un grande casale", da
lui chiamato "Nova Calavria" ove "dà habitatione alli suoi schiavi che
lo hanno servito et li ha fatti liberi et maritati lasciandoli viver
cristiani con un prete che gli ha dato che era schiavo anche lui… Et li
lascia far qual arte gli piace", non senza impiegarne parecchi in
arsenale e, in ogni caso, donando "a tutti il pane per suo uso". Anche
benefattore a questo punto il G., il quale, stando al bailo Lorenzo
Bernardo, è sì "homo crudelissimo et talmente colerico" sì da non
poterlo contraddire, ma è anche "liberal", munifico e pure assennato se i
"grandi di questa Porta" a lui ricorrono come arbitro nei loro
"dispareri". Animato - ancorché vecchio - da una gran voglia di vivere,
certo non si nega i piaceri dei sensi. Ma quel che soprattutto lo
distingue è un attivismo sin frenetico: è sempre "in moto", non si
concede tregua. È egli stesso a dire che la sua vita consiste nel
"travagliar". E sinché è in vita provvede per tempo a un monumento che
renda perenne la sua memoria dopo la morte.
Trattasi della Kiliç
Ali Pasa Camii, la moschea a sé intitolata, eretta su un'ansa del
Bosforo (ma ora, in seguito ai successivi terrazzamenti, arretrata,
rispetto al mare, di 200 m) nel 1580 su progetto, pare, del vecchissimo
Sinan, il grande architetto; sempre che, invece, non sia da attribuire a
Davut Aga. Quadrata la pianta dell'edificio, con cupola centrale e due
semicupole lungo l'asse principale; avvertibile, fortissima, l'influenza
di S. Sofia. Inserito il miḥrāb - la nicchia posizionata verso
la Mecca - in un'abside al termine della navata centrale, fiancheggiata
questa da un piano di tribune con arcate sovrapposte. Enorme il costo:
"mezzo million d'oro", quantifica Soranzo.
"Il capitano del mare -
così, il 27 giugno 1587, il bailo Bernardo - questa matina nell'alba" è
stato "soprapreso da improviso accidente": persa "la favella", è morto
di colpo "con dispiacer grandissimo" della corte e dell'intera città. Il
Turco con lui perde "un bravissimo huomo non solo nella professione del
mare, ma anco prattico et intelligente nelle cose del mondo". Lascia -
precisa Bernardo - "grossa facoltà", ossia due splendidi "seragli" sul
Bosforo, nonché più di duemila schiavi, di cui almeno cinquecento
"maestranze per l'arsenal", tutti "benissimo da lui trattati". Immediato
l'inventario dei suoi beni per ordine del sultano, ansioso
d'incamerarli. E deposta la salma nella türbe, il monumento funerario, nel piccolo giardino a sinistra della moschea al G. intitolata.''