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martedì 20 maggio 2014

§ 084 200514 Uccialì, da Le Castella a Costantinopoli.

La figura di Uccialì ha sempre abitato nella mia immaginazione, da quando seppi qualche notizia delle vicende di questo 'rinnegato' originario di Le Castella: una storia a modo suo 'classica', questa del giovinetto rapito dai turchi (o dagli zingari, o dai giostrai...), che affrontando tante avverse fortune arriva a diventare un ammiraglio tra i più importanti di sempre, per quanto riguarda la marineria dell'Impero Ottomano. Siamo di fronte ad un personaggio leggendario, citato anche nel 39° capitolo del 'Don Chisciotte'; Uccialì fu uno dei relativamente pochi turchi riusciti a salvarsi dalla disfatta ottomana di Lepanto. Nonostante l'abiura e le fortune militari, Uccialì non dimenticò mai la sua terra d'origine: la leggenda vuole che egli tornasse sulle coste calabre con la speranza di incontrare la propria madre, la quale, per nulla intenerita, lo maledisse. Ma forse si trattava solo di propaganda cattolica.
Parliamo, ad ogni buon conto, di un ragazzetto che molto probabilmente avrebbe speso la propria esistenza tra anfratti sperduti del litorale jonico, per sempre ignaro delle sue doti di comando, e che invece è riuscito a massimizzare gli esiti della propria cattura da parte dei 'cattivi'... Tutto questo senza dimenticare, comunque, che da 'cristiano' Uccialì si era reso responsabile di un omicidio, per quanto preterintenzionale.
Nel considerare la straordinaria vicenda di Uccialì (questa pronuncia è molto fedele a quella 'originale' turca, successivamente storpiata, in occidente, con la variante 'Occhiali', oppure 'Occhialì'), bisogna tenere presente la quotidianità delle incursioni turchesche lungo i litorali d'Italia, non solo calabri o meridionali. Questo quotidiano terrore per l'apparizione dei turchi - ...'mamma li turchi! - lo attestano, nei loro silenzi quasi rassegnati, le tante torri d'avvistamento che ancora sopravvivono - grazie alla perizia dei loro costruttori - lungo le nostre coste. Per quel che riguarda il litorale cirotano, ce lo ricordano le due torri conosciute come 'Torre Vecchia', in località Madonna di Mare, e 'Torre Nuova', in località omonima, o quasi, mentre delle vicende dei nostri antenati cirotani parla diffusamente il nostro storico Giovan Francesco Pugliese, che in qualche modo dei turchi fu anche vittima... ma questo lo dirò in altra occasione.

Busto di Uccialì a Le Castella.
Ecco un estratto dal 'Don Chisciotte', capitolo XXXIX, 'Vita ed avventure dello schiavo', fonte web: liberliber.
''...in fine l'armata tornò a Costantinopoli vincitrice e trionfante, e dopo pochi mesi passò fra gli estinti l'Ucciali il mio padrone, soprannominato Ucciali Fartax, che significa in lingua turchesca, il rinnegato tignoso, perché era coperto di tigna; ed è costume dei Turchi di pigliare un soprannome o da qualche loro particolare difetto, o da qualche virtù di cui vadano adorni: e ciò deriva dal non esservi tra loro se non quattro nomi di famiglie le quali discendono dalla casa ottomana, e le altre, siccome ho detto, lo prendono sempre o da virtù o da difetti loro propri. Questo tignoso vogò al remo, schiavo del gran Signore, pel corso di quattordici anni; pervenuto poi oltre i trentaquattro, per avere comodità di vendicarsi di uno schiaffo ricevuto da un Turco, rinnegò la sua fede. Sì grande fu il suo valore che senza ricorrere ai turpi mezzi ed a quelle indirette vie per le quali i più arrivano ad essere favoriti dal Gran Signore, salì sul trono di Algeri e poi fu generale di mare, ch'è la terza dignità che si conferisce in quell'impero. Era calabrese di nazione e buon uomo, trattando con grande umanità i suoi schiavi, che ascesero al numero di tremila; i quali poi, siccome ordinò col suo testamento, andarono ripartiti tra il Gran Signore (erede di quanti muoiono, e compartecipe insieme coi figli della sostanza che lasci il defunto) e tra i suoi rinnegati. Io toccai in sorte ad un rinnegato veneziano, ch'essendo piloto di una nave era stato fatto prigioniero dall'Ucciali il quale lo amava sopra tutti gli altri suoi garzoni e riuscì poi il più crudele rinnegato che sia stato giammai. Chiamavasi Azanaga; accumulò grandi ricchezze, e montò sul trono di Algeri. Ivi l'ho io seguìto partendo da Costantinopoli alquanto contento di trovarmi sì vicino alla Spagna, non già perché avessi intenzione di far sapere a veruno l'infelice mia sorte, ma per non so quale speranza che in Algeri potesse riuscirmi ciò che in Costantinopoli m'era sempre fallito, dove avevo tentate infinite maniere di fuggire, ma tutte invano. Pensavo di rintracciare in Algeri altri mezzi di secondare gli ardenti miei voti, non avendo perduto giammai la speranza di riacquistare la libertà: e quando io vedeva mal riuscire l'intento da me immaginato, senza cadere di animo andavo studiando nuovi mezzi che alimentavano le mie speranze, tuttoché fossero deboli e inefficaci. A questo tristo modo io conducevo la vita, rinserrato in una prigione che i Turchi chiamano bagno, in cui stanno imprigionati gli schiavi cristiani, sì quelli che sono di proprietà del re, come gli altri che appartengono a private persone, e quelli che chiamano dell'Almazen, ch'è lo stesso che dire, schiavi del Consiglio, i quali servono la città nei lavori pubblici e in altri offizî. Molto difficilmente ottengono questi tali la libertà, perché appartenendo al comune e non ai particolari padroni, non si sa con chi trattare pel loro riscatto, se pure n'avessero i mezzi. In quei bagni dunque dove alcuni signori privati tenevano custoditi gli schiavi che miravano alla loro liberazione, io mi trovava, ed erano in mia compagnia anche alquanti schiavi del re i quali non sogliono escire colla ciurmaglia al lavoro se non quando comincia a perdersi la speranza del riscatto, o quando si crede che l'aumento delle fatiche possa farli più solleciti a comperarsi la libertà; nel qual caso, raddoppiano per costoro i lavori penosi, come a dire il far legna sulle montagne, ch'è insopportabile travaglio. Stavami dunque frammischiato con questi schiavi da riscatto: ed essendosi saputo il mio grado di capitano, ad onta che avessi dichiarato ch'io era povero e che dovevo quel posto a mille fatiche, mi collocarono nel numero dei cavalieri e della gente da molto prezzo. Mi posero una catena più per segnale di riscatto che per custodia, e a questo modo io passava la vita tra quegli orrori con molti altri cavalieri, e gente di qualità di cui si teneva certa la liberazione. Quello che più di tutto mi pesava sul cuore non era già la fame o la nudità da cui quasi sempre eravamo tutti travagliati, ma sibbene l'essere testimonio continuamente alle non più vedute e inaudite crudeltà che si esercitavano dal padrone contro i Cristiani. Ogni giorno ne faceva appiccar qualcheduno, un altro impalare, ed un altro tagliar gli orecchi, e tutto ciò per cause di sì lieve momento e così fuor di ragione che dicevano i turchi stessi essere ciò per suo capriccio, e non per altro che per covar anima di fiera a danno del genere umano. La indovinò con costui un solo soldato spagnuolo chiamato Saavedra, il quale benché avesse fatto cose che rimarranno lungamente scolpite nella memoria di quelle genti per riacquistare la sua libertà, non gli diede, né mai dar gli fece un colpo di bastone, né gli disse mai un'aspra parola; anche pel più leggiero de' suoi mancamenti noi avevamo gran timore che lo facesse impalare: timore da cui era colto egli pure. Se il tempo non mancasse io potrei contarvi molte imprese di questo soldato che vi desterebbero maraviglia: ma bisogna pur ch'io continui il mio racconto.''
Bene, quanto sopra giusto per stuzzicare la fantasia e la voglia di approfondire... Della vita di Uluç Alì Pascià, alias (forse) Giovan Dionigi Galeni (Le Castella 1519- Istanbul 1587)  parla diffusamente Gustavo Valente (Celico 1910-2007), che ne è probabilmente il massimo esperto ( e forse non poteva essere diversamente, dal momento che lo storico cosentino-crotonese visse per molti anni nei pressi di Capo Colonna: e quale miglior luogo d'ispirazione?!)
Di seguito, la voce relativa a  GALENI, Gian Dionigi (Uluch-Alì, Ulucciali), dal 'Dizionario Biografico degli Italiani' - Volume 51 (1998), di Gino Benzoni:
''Nacque, stando a Gustavo Valente - lo studioso che più s'è sforzato di connotare la prima fase della vita del G. -, attorno al 1520, a Le Castella, località non lungi da Isola di Capo Rizzuto (nell'odierna provincia di Crotone), da Birno, un pescatore originario di Sant'Agata del Bianco, e da Pippa de Cicco, una contadina del luogo. E, a congettura del biografo, il G. fanciullo avrebbe avuto - per volontà del padre desideroso di predisporre per lui una sorte meno dura della propria - i primi rudimenti d'istruzione.
Un'ipotesi che non regge gran che se la si fa scontrare colla perentoria asserzione - nella relazione, del 1585, di Gianfrancesco Morosini reduce dal bailaggio costantinopolitano - secondo la quale il G., allora "capitano del mare" ottomano, "di nazione calabrese, nato vilissimamente in un luogo detto li Castelli, non sa né leggere né scrivere". Ed è ancora Morosini ad annotare, sempre a proposito del G., che sarebbe, nel 1585, "vicino alli 80 anni". E prossimo agli ottanta l'ha già detto, nella sua relazione del 1584, Giacomo Soranzo, un altro diplomatico veneto, mentre nel 1587 il bailo veneziano Lorenzo Bernardo lo ritiene ultraottantenne. Col che la nascita del G. andrebbe anticipata al 1505. Ma per quanto nebuloso l'avvio dell'esistenza del G., questi è fatto schiavo, giovinetto, nel 1536. Sicché vien da mantenere la più tarda data di nascita proposta da Valente e da constatare, nel contempo, che, quand'è decisamente ultrassessantenne, la vita di mare l'ha talmente segnato, da farlo sembrare, appunto, ancor più vecchio. Stando a Morosini, il G. nel 1585 è talmente "prosperoso e gagliardo" da far "meravigliare", dati gli anni che gli si attribuiscono. Più semplice, allora, supporre un G. energico sessantenne, forse civettante cogli anni che gli si danno a occhio, proprio per far stupire, usufruendo, in più, dell'alone di saggezza derivantegli, appunto, dall'età presunta.
Prestigioso vecchio nella capitale dell'impero ottomano, comunque, il G. e prima povero fanciullo della costa ionica della Calabria. Ed è in faccia a questa che compaiono, il 29 apr. 1536, una trentina di navigli guidati dal terribile Barbarossa, Khair ad-dīn. Vana la replica al cannoneggiamento dal mare delle batterie della fortezza. E furibondi, allo sbarco del 1° maggio, gli aggressori proprio perché s'è tentato di resistere. Inevitabile il sacco. E trucidato il padre del G., mentre la madre si salva. Catturato, invece, con altri ragazzi e con giovani donne, il G., incatenato, portato a Istanbul e quivi messo in vendita. È piccolo, sgraziato, decisamente brutto, col cuoio capelluto afflitto da chiazze eritematose, infestato dalla tigna. Tant'è che lo si chiama Al Fartas (il tignoso). E l'acquista per poco un rais, il corsaro Giafer, che subito lo mette al remo in una delle sue tre galeotte. Inchiodato alla voga per un paio d'anni, il suo corpo d'adolescente ancor gracile, ancora in via di formazione, non regge. Cade ammalato. Per fortuna Giafer ha intuito in lui qualcosa di non comune, ha scambiato con lui qualche parola, s'è con lui sin consultato. Sicché non se ne sbarazza, lo destina a servizi domestici, in casa propria.
E qui, servizievole e sollecito, si guadagna la simpatia e la stima della moglie del padrone. Benvoluto da questa, benvoluto dal marito, finisce col godere d'un trattamento privilegiato. Ma ciò suscita l'invidia d'altri due schiavi, un siciliano e un napoletano, che si coalizzano contro di lui in un quotidiano stillicidio di dispetti, punzecchiature, offese, piccole angherie. E il G. sopporta paziente, sinché, schiaffeggiato dal napoletano, reagisce con un violento pugno che fa cadere all'indietro l'avversario, che batte il capo e rimane stecchito a terra.
Colpevole d'omicidio, sia pure preterintenzionale, a questo punto il Galeni. E punita colla morte l'uccisione d'uno schiavo da parte d'un altro schiavo. Unica via di scampo a portata di mano l'immediata conversione all'islam, l'inturbantamento - e il turbante torna buono a celare la tigna -, la circoncisione, l'inturcamento. Ostinato, sino allora, il G. nel non rinnegamento, pur a questo sollecitato reiteratamente da Giafer e sua moglie. Opportuno, ora, decidersi, farsi turco a tutti gli effetti. E tra questi la non punibilità del neoturco che ha ucciso uno schiavo, un infedele. E immediati altri vantaggi: non più al remo il G. rinnegato, ma sorvegliante dei rematori forzati; non più schiavo, ma promosso a genero di Giafer ché, come soprattutto vuole la moglie di questo, sposa la loro figlia Bracaduna. E gli si spalanca davanti l'avvenire.
Così nella versione - tra le tante circolate sul suo rinnegamento - più meticolosa nei particolari e, come tale, se non pienamente attendibile, per lo meno non inverosimile. Resta la sensazione d'un racconto fabbricato da un'affabulazione mediterranea da un lato affascinata dalla vicenda del poveraccio che, inturcandosi, afferra la fortuna, dall'altro come atterrita all'idea che la fortuna conquistata comporti la dannazione dell'anima.
Un'esperienza effettiva, specie per le popolazioni della costa calabra, la razzia di uomini. E un incubo il cadere in mano all'infedele. Ma, nel contempo, una tentazione, del pari effettiva, quella del rinnegamento, ché, con questa, la vita pare rovesciarsi in positivo, slargarsi, farsi fuga dalla miseria e dalla fame. Vituperando il rinnegato, degno dell'inferno e già creatura infernale, già demone in terra. Ma anche accarezzato da un fantasticare calamitato dal suo successo, ammirante le sue gesta, invidiante le sue ricchezze. Intrigante, inquietante il fascino sinistro che ne emana. Trista la sua fama, ma anche suggestionante per tanti che stentano anonimi la vita. E sin favola bella alle orecchie degli affamati i suoi, appunto, favolosi bottini. E più che pensare alle fiamme dell'inferno che attendono la sua anima, vagheggiano i lussi e le delizie che avvolgono il suo corpo. E per tanti disperati gli stessi rischi e cimenti della pirateria si configurano a mo' d'avventura premiata dalle razzie, remunerata dai saccheggi. In fin dei conti quella del corsaro è una carriera con prospettive d'ascesa, con speranza di tangibili ricchezze. Una pinacoteca di ceffi quella dei celebri rinnegati, ma anche - nel tragitto dal reale all'immaginario - di protagonisti vittoriosi. Ed è a entrare in questa che si candida il G., quando si fa turco, quando diventa genero di Giafer, quando questi l'invia, nel 1541, assieme al figlio Alì - il quale è un giovinetto; e il suocero l'affida al G. perché l'istruisca e lo protegga - a Dragut. Ed è alle campagne di quest'ultimo che il G. partecipa sempre più apprezzato per abilità marinara e ardire combattivo, non senza che della sua valentia giunga eco sin a Costantinopoli, che di lui si sappia anche nell'ambito di Solimano il Magnifico. A mano a mano dispone d'un proprio ambito operativo nel quale risaltare individualmente, come quando, a capo di due fuste, nel 1554 scorrazza nelle acque della Sardegna occidentale catturando una galera. E tra i prigionieri il nobile catalano Giacomo Losada, che sarà riscattato a caro prezzo.
Di nuovo attivo nel 1555 il G. - e questa volta con cinque galere grosse ai suoi ordini - conquista una galera dei cavalieri di Malta. Ancora a caccia di preda il G. nel 1556, con una galea e una galeotta, sinché, il 23 luglio, nei paraggi di Gerba, non incappa in una squadra di tredici galee capeggiate da Giovanni Andrea Doria. E, per salvarsi, non gli resta che guadagnare terra lasciando i suoi legni al nemico. Una disavventura che, per quanto umiliante, non interrompe il suo corseggiare. Sicché è di nuovo aggressivo nel 1557. E, il 17 apr. 1558, è il G., a capo di nove unità (quattro galere e cinque galeotte da lui guidate a bordo della "bastarda" di Dragut), ad affrontare la squadra ove spicca il galeone di Visconte Cicala nei pressi della costa tunisina. Ben sei ore di reciproco cannoneggiamento, cui il galeone riesce a scampare - sia pure malconcio, con tutta l'alberatura, incluso l'albero maestro, rovinata - rifugiandosi, il 28, a Cagliari. Uno smacco la mancata cattura di questo (tanto più che, prontamente riparato, il "galeone di Cicala", riprende di lì a poco a operare) per il G., compensato dalla presa di due vascelli carichi di vino. Nel febbraio del 1560 - coll'appalesarsi, minaccioso per Tripoli, del piano aggressivo del viceré di Sicilia Juan de la Cerda, duca di Medinaceli - è il G. a precipitarsi con due galeotte a Costantinopoli ad allertare la Porta. E, mentre Dragut si porta a Tripoli da Gerba, in questa il 7 marzo sbarca Medinaceli. Ed è qui che lo sorprende, l'11 maggio, la flotta turca di Piale pascià che ha il G. come secondo. E, nella disfatta cristiana, trionfatore il G., che cattura una ventina di galee e fa oltre 5000 prigionieri. Vigorosa la successiva ripresa della guerra di corsa. Il G. si spinge sino a capo San Siro, in Liguria. Di qui s'inoltra sino a Taggia e Roccabruna. E se, in giugno, il duca di Savoia Emanuele Filiberto, allora a Villafranca, schiva l'ignominia della cattura, è perché, deposta ogni velleità di resistenza, acconsente al versamento d'una somma enorme (12.000 scudi, pare), colla quale riscatta anche una quarantina di cavalieri. E pure oggetto d'incursioni le coste della Linguadoca e della Provenza. E catturata dal G. una nave di Dieppe.
Famoso a questo punto il G., temibile e non certo col suo nome cristiano di Gian Dionigi Galeni. Le fonti lo chiamano Lucalì (il che ha fatto supporre una derivazione da Luca; sarebbe stato, allora, questo il suo nome di battesimo), Uluds-Alì (il rognoso), Uluosch-Alì, Ouloudi, Aluccialì, Locchialì, Luzzolì, Luccialì, Uluch-Alì, Uichialì, Uluzzalì, Louchalì, Ulug-Alì, Euldi-Alì, Ucci-Alì, Uluccialì, Ucciallì, Euldi-Alì, Ouloud Alì, Euludy Alì, Luccialli, Ucci-Ali, Eudji Ali, Uluc Ali e soprattutto Ochialy o Occhiali o Occhialì, più semplice - in occidente - da scrivere e da pronunciare. Nel 1562 il sultano lo nomina capitano della squadra d'Alessandria, conferendogli altresì il comando della capitana costantinopolitana dalla quale - così un racconto non più che tanto attendibile e, con tutta probabilità, ricalcato su un analogo episodio concernente Scipione Cicala - sarebbe sbarcato nel luogo natio carico di doni per la vecchia madre. E questa, salda nella fede, li avrebbe rifiutati.
Nel 1563 ancora incursioni piratesche guidate dal G.; particolarmente audace lo sbarco del 31 maggio a Chiaia e immediatamente fruttuoso il sequestro di ventiquattro persone ché il viceré di Napoli, il duca d'Alcalá Pedro Afán de Rivera, si premura di riscattarle prima che egli riparta. Partecipe sin dall'inizio, il 18 maggio 1565, il G. all'assedio di Malta, colle sei galee della guardia d'Alessandria nelle quali sono imbarcati seicento soldati. E, morto durante questo, il 23 giugno, Dragut, il G. gli subentra nel comando delle operazioni e nel governatorato di Tripoli. Strenua però la resistenza degli assediati. E, nel protrarsi dell'assedio - ché, caduta la fortezza di Sant'Elmo, le cittadelle di Borgo e San Michele, in compenso, non cedono -, il G. si porta a Tripoli donde torna con cinque galee cariche di viveri. Ma l'arrivo, il 7 settembre, del soccorso spagnolo agli ordini del viceré di Sicilia don García de Toledo rovescia la situazione. Ora sono i Turchi in difficoltà. E lo stesso G., attardatosi nel salvataggio d'un contingente, per poco non rischia di cadere in mano dei difensori. Uno scacco per la Porta l'abbandono turco, dell'11 settembre, dell'assedio. E un po' responsabile della fallita spedizione pure il G., cui Solimano vorrebbe, a tutta prima, revocare gli incarichi, togliere la reggenza di Tripoli. Ma si frappone il principe ereditario Selim, al G. favorevole, ritardando la destituzione. E lo stesso, una volta sultano, nomina il G. viceré d'Algeri nel marzo del 1568. Il che suona come promozione. "Occhialì bassà d'Algeri", lo chiama il bailo veneziano Marcantonio Barbaro. "Re" preferisce dirlo la communis opinio mediterranea, ché così l'intitolatura l'enfatizza, l'ingrandisce e, nel contempo, enormizza il rinnegamento, lo rende vieppiù famigerato.
È come sottintendere che ha perso il cielo per un regno in terra, che ha venduta l'anima, che sarà dannato in eterno. Tentante per il G. l'appoggiare in qualche modo la rivolta ancora non doma dei moriscos in quel di Granata, anche se, nei colloqui con lui ad Algeri lungo il 1569, il doppiogiochista Francisco Gasparo Corso gli va spiegando che la rivolta è al più un fastidio per Filippo II, che i ribelli non sono pericolosi, non sanno combattere, atti come sono non già alle armi, ma a zappare e pascolare.
Crucciata, in effetti, la Spagna da quel che il G. potrebbe fare. Tant'è che cerca di cattivarselo, tant'è che, sottovalutando i suoi appetiti, gli offre, purché stia buono e si faccia buono, un marchesato in Calabria. E, sempre nel 1569, gli invia a prospettargli l'offa, troppo modesta, d'una sistemazione feudal-marchionale tal Giovanbattista Ganguzza, un calabrese di Le Castella, suo compaesano e, pure, in qualche modo suo parente.
Troppo poco per l'ottica affatto terrena del G., cui il feudo sembra piccolo, mentre non l'ingrandisce la possibilità del rientro nel cristianesimo. La sorte dell'anima decisamente non è in cima ai suoi pensieri. Lungi da lui la speranza animante il verseggiare d'un conterraneo anonimo, vagheggiante un G. cedente "Algier al confalon de Spagna" e insieme genuflesso a Roma, al cospetto del papa, dal quale implora perdono pei suoi peccati, ottenendone la "benedition" assolutoria. Né, d'altra parte, il G. è talmente islamizzato da pensare seriamente a soccorrere i moriscos in lotta. Quel che gli preme è approfittare d'una guerra che sta paralizzando il re Cattolico. Quel che gli interessa è metter mano su Biskra e, soprattutto, su Tunisi. È alla volta di questa che, nell'ottobre del 1569, muove con un robusto contingente di 4 o 5000 giannizzeri che strada facendo si gonfia di volontari. E, mentre Malay Hamida ripara con pochi fidi nella fortezza spagnola della Goletta, il 19 genn. 1570 il G. entra a Tunisi senza incontrare resistenza. E ci rimane un paio di mesi, per poi tornare - lasciandovi una grossa guarnigione e affidandone il governo a un suo luogotenente, il rinnegato corso Cayto Ramadan - ad Algeri. Ma da qui lo chiama lungi dalla costa africana la guerra contro Venezia per Cipro. Salpato da Biserta con circa venticinque galee senza che G.A. Doria riesca a intercettarlo, s'unisce alla flotta ottomana. Ed è con questa nel giugno del 1571 di fronte a Candia. Sua iniziativa la conquista e il saccheggio di Retimno, donde poi procede alla volta di Zante - qui sbarca in luglio - e quindi assaltando e catturando la "Moceniga", la "Leza", e la "Costantina", tutte navi destinate a Sebastiano Venier. E poi s'inoltra nell'Adriatico domando Dulcigno, conquistando Antivari, Budua, assediando Curzola, saccheggiando Lesina, quindi tornando indietro toccando Cattaro, Durazzo, Valona e azzardando nel settembre - ma l'assalto viene rintuzzato - lo sbarco a Corfù. Imminente ormai l'immane scontro tra la flotta ottomana e quella cristiana. E il 7 ott. 1571, nei pressi di Lepanto il G., nel disporsi di quella è al comando - di contro al destro cristiano costituito dalle cinquantatre galee comandate da Doria - delle sessantasette galee e ventisette galeotte del corno sinistro. Violento l'impatto tra i due corni contrapposti allorché il G., trattenuto da Doria, punta, con manovra accerchiante, al centro dell'armata cristiana. E il G. riesce a sganciarsi dalla presa di Doria, ad accostarsi alla squadra centrale. E nel procedere sbaraglia la capitana maltese (e catturato M. de Cervantes nel vano tentativo di soccorso da parte della capitana di Doria; balzato, racconterà nel Don Chisciotte "sulla galera nemica", staccatasi questa da quella di Doria, rimane "prigioniero" del G.), la prende a rimorchio, danneggia altre galee, mette a mal partito la "Fiorenza" papale rimorchiando pure questa. Ma l'avvenuta saldatura tra Doria e don Giovanni d'Austria è una morsa che rischia di stritolarlo. Al G. non resta che rinunciare al rimorchio delle due galee e sottrarsi allo scontro. Nel tripudio pel trionfo cristiano, nella fine del mito dell'invincibilità turca, nel disastro ottomano è l'unico, tra i nemici della Cristianità, a potersi stralciare dall'ignominia della sconfitta. Totalmente distrutta l'armata nemica, scrive Venier, l'8 ottobre, alla Serenissima, "non essendo fuggito se non 30 vele con Uluzali". E non appena apprende - vagamente - della clamorosa vittoria il nunzio pontificio a Napoli Cesare Brumano si precipita a scrivere a Roma il 23 ottobre: totale l'annientamento della flotta turca, "eccetto alcune galee… fuggite con l'Uciali". Evidentemente le buone notizie volano se già il 23 ottobre si sa, a Napoli, qualcosa. Ed evidentemente quelle cattive vanno un po' rallentate se solo il 23 ottobre Selim II, allora ad Adrianopoli, ha - da un messaggio del G. - la comunicazione ufficiale della sconfitta.
E nell'elaborazione del lutto provocata dalla sconfitta - sconvolta a tutta prima Costantinopoli da una catastrofe che suona come giudizio dell'Onnipotente - si dà un'accorta gestione, edulcorante e rianimante. Sin trionfale il rientro del 28 dicembre del G.: "Lugiali vice re d'Algier con il residuo dell'armata" sopravvissuto alla rotta arriva nel porto con ventisei galere e nove "palandarie" scaricanti "tanta arteglieria che parevano esser più di 200". Così in un anonimo diario di prigionia redatto da persona al seguito di Marcantonio Barbaro. "Una superbissima intrata" questa del G., annota il diarista, con gran spiegamento, con fragore d'artiglieria, con sventolio di bandiere. E ciò ad "arte, per allegrare il populo, il qual concorse tutto alla marina", come a una festa. E fiero combattente il G., nella misura in cui depone ai piedi del sultano lo stendardo dei cavalieri di Malta guadagnato in battaglia. Va da sé che, invece, visto da Occidente, il G. è semplicemente scappato: "vedendo Ulucciali che l'armata era rotta, fuggì con trenta o quaranta vele… et col stendardo della capetana di Malta", riassume la relazione sulla vittoria cristiana dovuta a Marcantonio Colonna e trasmessa a Ragusa con proprie "aggiunte" dal diplomatico raguseo Francesco Gondola. Perito a Lepanto il Kapudan, ossia grande ammiraglio, Muezzinzadè Alì pascià, è il G. quello che merita di succedergli. E, infatti, Selim II lo nomina capitano del Mare, gli conferisce il generalato del Mare, che comporta - come spiegano meticolosamente i diplomatici veneziani - l'"assoluto governo" dell'arsenale, la cura esclusiva, tutta dell'armata marittima, nonché il governo di Pera, Gallipoli e dei sei sangiaccati di Rodi, Metelino, Scio, Lepanto, Negroponte, Prevesa. E a valorizzare la carica il cambio - sempre voluto dal sultano - del nome.
Non più Ouloudj - dall'arabo 'ildj, che significa barbaro, straniero e, anche, zotico - ma Kilic Alì o Kilige-Alì o Quìlìǧ 'Alī o, ancora, Kĭlĭdi Ali. E kĭlĭdi, in arabo, significa sciabola, spada. Alì la spada, Alì la scimitarra insomma. Un nome adeguato all'entità del compito ed espressivo anche della volontà di rimonta turca dopo l'umiliazione di Lepanto. E protagonista, in effetti, il G. d'una fase nella quale la ferita inferta viene cicatrizzata, lungo la quale la sconfitta viene riassorbita, sin annullata, sin amputata delle possibili conseguenze. Arrestata, ridimensionata, sin ricacciata, sin costretta all'arretramento l'offensiva cristiana.
Pressoché distrutta a Lepanto la flotta della mezzaluna. Ma, diretto energicamente dal G., l'arsenale costantinopolitano, nel solo inverno del 1571-72, con un ritmo intensificato al massimo di lavoro, produce almeno 220 unità, anzitutto galere e poi galeotte e fuste. Scarseggia la fanteria da imbarcare. Epperò la potenza di fuoco complessiva è superiore a quella della flotta battuta a Lepanto. Più numerosa questa di quella cristiana, epperò svantaggiata, ché in essa sono prevalenti arcieri e frombolieri.
Memore della lezione, il G. finalizza le nuove unità a un moderno armamento: quindi l'archibugio al posto dell'arco; quindi artiglieria saldamente piantata. E solide le sue galee e, nel contempo, come quelle della marineria algerina, più leggere, più agili di quelle cristiane ma, ovviamente, con minor capacità di carico. Con una flotta ammodernata il G. è in grado di sfidare il nemico, anche se, nel contempo, alla contrapposizione frontale s'accompagnano ammiccamenti furbeschi, accenni di trattative sottobanco. Già l'11 maggio 1572 Algeri chiede la protezione del re di Francia Carlo IX ottenendone l'assenso, non senza che contemporaneamente il G. lanci messaggi di disponibilità a cedere la città a Filippo II. E risbuca Ganguzza al quale il G. fa capire che non gli spiacerebbe, come contropartita, il titolo di principe di Salerno. Non è, comunque, per ottenere un qualche principato individuale che il 12 giugno il G. esce in mare con oltre centodieci galere tra salve bellicose d'archibugi e cannoni, ma per riaffermare la mezzaluna. Più accenno a manovre da schermaglia che battaglie il fronteggiarsi delle flotte, del 7 e del 19 agosto, nel quale il G. schiva lo scontro vero e proprio, mentre Marcantonio Colonna non sa imporlo. Più ravvicinato, il 15-16 settembre, l'incontro colla flotta guidata da don Giovanni d'Austria, ma questi non sa forzare Modone, dove il G. è riparato, e distruggervi la flotta turca. Efficace tattica quella del G. d'evitare la battaglia campale. Nel frattempo, i collegati si scollano. E poi, col giungere dell'autunno, la guerra cessa, viene rimandata all'anno dopo. E in questo, il 7 marzo 1573, la Serenissima addiviene alla pace separata. E se l'11 ottobre don Giovanni d'Austria conquista Tunisi, nel 1574 l'armata della mezzaluna - forte di quasi trecento unità, se alle 230 galere si sommano i navigli inferiori, e con ben 40.000 uomini imbarcati - guidata dal G. conquista il 25 agosto la Goletta, già spagnola dal 1535, e quindi, il 13 settembre, Tunisi. Col che vien da dire che si chiude il dopo Lepanto, non senza che il trionfo cristiano nelle acque di questa non si ridimensioni a battaglia vinta in una guerra, pei trionfatori di Lepanto, non vincente. Dopo di che il G. si limita a operazioni di polizia marittima, anche a corseggiare un po', anche a lasciar corseggiare. Non cerca il grande, immane scontro. Per tal verso quello a Lepanto è stato il più grande e, insieme, l'ultimo. Indicativo giunge, all'inizio del 1576, avviso a Venezia che il G. - così il 14 gennaio il nunzio pontificio Giambattista Castagna - vada insistendo perché si riducano le unità prodotte dall'arsenale. Per quel che lo concerne gli bastano "200 galere bene armate", meno "maoni et navi", sicché "l'armata sia più presta et spedita". E "lettere di Costantinopoli" dell'11 giugno, indirizzate a Venezia, affermano - a detta del nunzio Castagna - che il G. s'è limitato a portarsi "a Navarino per fortificar quel forte". E sarebbe uscito in mare con circa ottanta galee. Meno degli anni antecedenti insomma. E l'anno dopo, nel 1577, addirittura la flotta - anche se il G. non è d'accordo - nemmeno esce. È un effetto della tregua colla Spagna. E se, nell'aprile del 1579, l'armata esce parzialmente, è avviata verso il Mar Nero. Tutt'altro che gratificato il G. dal doversi adattare a incombenze ausiliarie nei confronti della minaccia persiana. Fatto sta che scarica munizioni a Trebisonda, che sovrintende all'erezione d'un "castello nel territorio di Tatiana" (ossia dirige i lavori per le possenti fortificazioni costruite a Kars), che rinforza e amplia i "confini nella Georgia", rientrando il 10 settembre a Costantinopoli con solo tredici galee, delle trenta con cui era partito. Oggettivamente la guerra terrestre non dà risalto al grande ammiraglio. Il suo protagonismo abbisogna della perdurante tensione turco-ispana. E, invece, questa si sta allentando: a mano a mano il Portogallo da un lato e la Persia dall'altro decantano la conflittualità nel Mediterraneo del re Cattolico e del Gran Signore. Per tal verso tra i due necessita la sospensione delle armi, s'impone una pace di fatto, anche se il G. s'agita in contrario.
"Re del mare" - e per mare s'intenda il Mediterraneo - è in certo qual modo spiazzato, laddove, attirate verso Est la Turchia e verso Ovest la Spagna, il contenzioso mediterraneo ne risulta svuotato, la centralità mediterranea sta venendo meno.
Il G. è quel che più rilutta a prender atto della tregua ispano-turca. Ed è quello dal quale la Spagna più si sente minacciata. Già ambasciatore veneto in Ispagna, Matteo Zane riferisce, al suo rientro nel 1584, che Filippo II paventa la "Barberia", s'angoscia nel vedere che il G. "con l'armata frequenti ogni giorno Algeri". A vuoto il tentativo del 1582 per cui "un Andrea Corso" offre, per conto di Filippo II, una ricompensa purché dia l'armata alla Spagna, purché tradisca. Comunque un po' "d'orecchio alla negoziazione" avviata da Andrea Corso (che dev'essere un parente di quel Francisco Gasparo Corso che l'aveva contattato nel 1569) il G. pare prestarlo. Comunque - è sempre Zane a riferirlo - "si crede… che se" il G. "continuerà a frequentare quel viaggio", il tratto Costantinopoli-Algeri, "con poca armata, il re" di Spagna "s'abbia a risolvere di farla combattere dalla sua". Da constatare come il G. costituisca il massimo dell'aggressività antispagnola al punto da diventare, agli occhi di Filippo II, un problema da risolvere o colla corruzione ad personam o con una guerra, sempre ad personam. Certo che, per indurre il G. a tradire il Gran Signore, la ricompensa dovrebbe essere enorme. E se par prestare orecchio, forse lo fa perché sia l'agente spagnolo a scoprirsi e a scoprire le manovre in atto per conto del re Cattolico. Forse simula disponibilità per ingannare, per sondare a sua volta sino a che punto la Spagna spinge le sue trame. Da escludere pensi realmente a un clamoroso voltafaccia, a un rientro alla grande, da principe di Salerno, in Occidente, a un'abiura dell'islam, a una riconversione al cattolicesimo. Né la fede cristiana, dato il suo ruolo di custode anche della "sicurtà di questi mari", gli si configura come promotrice di virtù, dal momento che sono cristiane le "galee" che, appunto, "in questi mari", specie a danno di "tutti i luoghi dell'arcipelago", esercitano la pirateria, continuano a "rubar".
Il G. è straricco: lucra sulla pirateria barbaresca da lui "secretamente" favorita; pretende donativi: per esempio tramite un suo agà invia uno scrivano al bailo Gianfrancesco Morosini per notificare che "consigliava di mandare a donare" 7000 "cechini al suo padrone", ossia il G., per ammorbidirlo in merito a una grave questione in corso. Il bailo - sempre tramite lo scrivano, che riferisce all'agà, che a sua volta riferisce al G. - fa presente a quest'ultimo che la "cassetta di cristallo" appena donatagli costa molte migliaia, appunto, di "cechini". Ottiene il G. donativi da tutti i diplomatici; accumula appannaggi; estorce tangenti. Sontuoso - così, nel 1584, il veneziano Giacomo Soranzo - "nel canale del mar Maggiore" il "serraglio" dove abita. Circa 10.000, allora, gli schiavi cristiani a Costantinopoli; e, di questi, 3000 appartengono al sultano Murad III e altrettanti al Galeni. E questi su di un colle soprastante la propria dimora sta facendo erigere "un grande casale", da lui chiamato "Nova Calavria" ove "dà habitatione alli suoi schiavi che lo hanno servito et li ha fatti liberi et maritati lasciandoli viver cristiani con un prete che gli ha dato che era schiavo anche lui… Et li lascia far qual arte gli piace", non senza impiegarne parecchi in arsenale e, in ogni caso, donando "a tutti il pane per suo uso". Anche benefattore a questo punto il G., il quale, stando al bailo Lorenzo Bernardo, è sì "homo crudelissimo et talmente colerico" sì da non poterlo contraddire, ma è anche "liberal", munifico e pure assennato se i "grandi di questa Porta" a lui ricorrono come arbitro nei loro "dispareri". Animato - ancorché vecchio - da una gran voglia di vivere, certo non si nega i piaceri dei sensi. Ma quel che soprattutto lo distingue è un attivismo sin frenetico: è sempre "in moto", non si concede tregua. È egli stesso a dire che la sua vita consiste nel "travagliar". E sinché è in vita provvede per tempo a un monumento che renda perenne la sua memoria dopo la morte.
Trattasi della Kiliç Ali Pasa Camii, la moschea a sé intitolata, eretta su un'ansa del Bosforo (ma ora, in seguito ai successivi terrazzamenti, arretrata, rispetto al mare, di 200 m) nel 1580 su progetto, pare, del vecchissimo Sinan, il grande architetto; sempre che, invece, non sia da attribuire a Davut Aga. Quadrata la pianta dell'edificio, con cupola centrale e due semicupole lungo l'asse principale; avvertibile, fortissima, l'influenza di S. Sofia. Inserito il miḥrāb - la nicchia posizionata verso la Mecca - in un'abside al termine della navata centrale, fiancheggiata questa da un piano di tribune con arcate sovrapposte. Enorme il costo: "mezzo million d'oro", quantifica Soranzo.
"Il capitano del mare - così, il 27 giugno 1587, il bailo Bernardo - questa matina nell'alba" è stato "soprapreso da improviso accidente": persa "la favella", è morto di colpo "con dispiacer grandissimo" della corte e dell'intera città. Il Turco con lui perde "un bravissimo huomo non solo nella professione del mare, ma anco prattico et intelligente nelle cose del mondo". Lascia - precisa Bernardo - "grossa facoltà", ossia due splendidi "seragli" sul Bosforo, nonché più di duemila schiavi, di cui almeno cinquecento "maestranze per l'arsenal", tutti "benissimo da lui trattati". Immediato l'inventario dei suoi beni per ordine del sultano, ansioso d'incamerarli. E deposta la salma nella türbe, il monumento funerario, nel piccolo giardino a sinistra della moschea al G. intitolata.''
 

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