Le pagine che seguono sono tratte
dal saggio ‘’Archeologia e percezione dell'antico’’, di Roberto
Spadea, da ‘La
Calabria’, volume facente parte della ‘Storia d’Italia, Le
regioni’, Einaudi 1985, pagg. 679-683.
Emerge, insieme alla figura grandiosa di Paolo Orsi quale archeologo,
il suo carattere, che si potrebbe definire, magari semplicisticamente,
capriccioso, testardo, o malfidente verso personaggi non del mestiere. Fortunatamente
egli ebbe a che fare con teste più dure della sua (… e volevo vedere!) Forse l’Orsi
avrebbe risparmiato del tempo prezioso, se avesse dato retta alle memorie di
cui si parla nel testo, cioè quelle di Giovan Francesco Pugliese, le cui
cronache, come ho già sottolineato in altri post, furono stigmatizzate,
evidentemente a torto, dall’archeologo trentino, e senza arrivare a costringere
il poeta e deputato Luigi Siciliani (… noi
che chiamati fummo greci, ma greci più grandi – vado a memoria, non
seguitemi se sbaglio), a ricorrere all’uso di mezzi più convincenti, in giusta
misura ‘minacciosi’, viste le resistenze dell’Orsi… un potere usato, oserei
dire, a fin di bene, i cui risultati si sono visti, stante la scoperta del
santuario (di quello si tratta, infine) di Apollo Aleo.
Rimane l’atteggiamento un po’ supponente di
Paolo Orsi, come sembra evincersi dalle cronache… ma insomma, quest’anno
ricorrono i novant’anni dalla scoperta, qualcuno se ne ricorderà?
Ma poi ricordare cosa? La parte migliore,
quella eroica, di piccoli uomini che immagino dalla pelle olivastra, immersi
nel fango fino alla cintola, a cercare ‘cose’ delle quali forse non potevano cogliere
la portata storica ma solo il controvalore in pane per le proprie famiglie,
agli ordini di un signore con cappello dalle falde larghe e con le tasche
gonfie di lapis e taccuini? Oppure ricordare che su quel sacro suolo di Krimisa
lo stato italiano è riuscito ad insediare proprio lì (n’avìvinu largu!) uno
stabilimento industriale, cancellando qualsiasi possibilità di ulteriori
rinvenimenti?
Ed
ora facciamo parlare Roberto Spadea.
Cirò.
Il 5 marzo del 1924
da Siracusa Paolo Orsi telegrafava a Zanotti Bianco: «Prego impegnarmi 10 000 lire
ragguardevole scoperta calabrese».
Dai lavori di bonifica effettuati dal Consorzio autonomo delle cooperative ravennati, nei terreni paludosi tra il
torrente Lipuda e Punta Alice veniva
alla luce il santuario di Apollo Aleo.
Intorno al pantano della località nota
come Isola di San Paolo si incrociarono
nel 1923 diversi avvenimenti, taluni di grande rilievo scientifico (basti pensare agli eccezionali
rinvenimenti sui quali tra breve ritorneremo), altri estremamente emblematici
(il problema delle bonifiche, che si era già intravveduto a proposito
della piana lametina, quello della
dispersione dei materiali attraverso i rinvenimenti fortuiti da parte delle squadre degli operai) poiché in essi è
possibile esemplificare alcuni tratti
di quella «percezione» dell'antico che abbiamo ritrovato altrove in Calabria. Con buone ragioni, perciò, Cirò può
ritenersi un nodo fondamentale: con esso Paolo Orsi chiudeva felicemente la
sua attività calabrese dopo aver sottolineato che quell'intervento fu uno dei
«più singolari» e «dopo quello di Locri [...] il più bello ch'io abbia fatto
in questi 15 anni[1]»
Incomprensioni ed equivoci, tuttavia, segnano la nascita
della ricerca a Cirò. Protagonisti e
deuteragonisti erano di volta in volta Paolo Orsi, soprintendente della Calabria, le Bonifiche e con
esse il Genio civile, infine Luigi Siciliani, calabrese di Cirò, che poco più
tardi fu sottosegretario alle Belle arti.
Fulcro della questione
era l'identificazione del santuario di Apollo Aleo, punto d'onore ed ossessione
— come scrisse Orsi[2]
— per
Siciliani. Questi, «appoggiato a vecchie tradizioni paesane», si ostinava a collocare il
santuario a Punta Alice, località che, invece, Orsi dopo le sue esplorazioni effettuate
qualche anno prima, aveva assolutamente
escluso.
Nel mese di aprile
del 1923 un fitto carteggio (brevi messaggi, telegrammi, biglietti di
servizio urgenti) intercorse tra il Genio civile di Catanzaro, Paolo Orsi e
Luigi Siciliani. Nonostante l'apparente attenzione dedicata al problema, gravi
danni furono perpetrati nei confronti del patrimonio archeologico che era
affiorato all'avvio dei lavori della Società cooperativa ravennate.
Inspiegabilmente Orsi non intervenne, ma si limitò a richiedere generiche assicurazioni. Evidentemente
il grande archeologo persisteva nel non ritenere possibili rinvenimenti così
importanti in una palude mefitica. Più tardi,
nella monografia dedicata al santuario
e pubblicata per i tipi della Società Magna Grecia, nel II capitolo,
che recherà il significativo sottotitolo Tenacia detta tradizione popolare, l'Orsi come in una lunga palinodia, riassumendo la questione, sarà
costretto ad ammettere in forma implicita i propri errori, anche se ricorderà che il non aver adempiuto alle precise
disposizioni della Soprintendenza da parte delle Bonifiche e dei subappaltanti
locali aveva procurato danni assai
gravi alle strutture del tempio.
Non è il caso di ripercorrere tutta la
lunga polemica, che divide e distribuisce
per ciascuno degli attori precise responsabilità. Ricordo solo per un
particolare curioso, una lettera inviata nel 1924 da Luigi Siciliani a Paolo Orsi. I primi rinvenimenti archeologici
(acroteri a testa di medusa e
soprattutto una testa di marmo pertinente ad un acrolito, forse la statua di culto del tempio), erano depositati
nell'ufficio delle Bonifiche a Cirò. Dopo aver esternato costernazione e
rammarico per lo strazio di quelle venerande
reliquie, il Siciliani, rivolgendosi ad Orsi, così conclude: «la avverto che i Sabbatini proprietari del
luogo, hanno ceduto per il materiale
archeologico tutti i loro diritti a me» (Soprintendenza, Cirò, Lettera
del 29 febbraio 1924). Si allude evidentemente alla quota parte spettante per legge al proprietario del
suolo, ma ciò che mi pare significativo
nell'ambito del tema che stiamo trattando, è la degenerazione che può intervenire a stravolgere una
corretta consonanza con quanto fa parte delle proprie origini. Luigi
Siciliani considerava le scoperte al tempio
di Apollo Aleo come proprio personale possesso, dimostrando per esse un
attaccamento cieco e morboso, che sconfina nell'abuso e nell'equivoco dei
ruoli: non si dimentichi che Siciliani era parlamentare a Roma, mentre recitava il ruolo di
«onnipotente a Cirò». I risultati nell'ultimo
caso, furono tuttavia sconfortanti, se con velenosa ironia Orsi rimarcava
come il Siciliani, pur avendo promesso premi agli operai «in sostanza
recuperò cose di limitato valore, conservate ora in casa sua e disgraziatamente confuse con i
materiali del serbatoio di Cirò superiore.
Grande guaio questo!» (Orsi, op. cit., p. 19, nota 1).
Al veleno dell'archeologo si consenta la
possibilità di una replica per salvare, se
non altro, il genuino entusiasmo del Siciliani: il tempio di Apollo Aleo era là, dove egli e
ancor prima altri uomini, che avevano raccolto più antiche memorie, dicevano esistere.
Illustrando lo scavo
di punta Alice Paolo Orsi descrive in modo esemplare, quasi abbellendolo, quel paesaggio triste e malsano:
‘una costa piatta con dune impercettibili verso il mare,
in parte coperte di macchia,
in parte nude, piana monotona ed antipatica, che oggi la mano ìndustre del villico viene trasformando in vigne
redditizie, superando aspre lotte contro i venti marini e l'arsura solare.’ (Orsi, op. cit. p. 8).
Il lavoro svolto dalle Bonifiche prima e
dalla missione di scavo poi, avveniva in
condizioni praticamente impossibili. I miasmi paludosi e il calore
consigliarono più di una volta il lavoro durante la notte « col plenilunio per evitare l'arsura intollerabile di
quella piana percossa da un sole quasi africano e non offrente il riparo
di un solo albero». Con grande velocità si
sbancavano le dune sabbiose, aiutandosi con i carrelli di una ferrovia
«Decauville», nei quali era trasportata la sabbia dei «mammelloni» spianati affinché essa fosse sparsa
riempiendo le bassure acquitrinose.
Non a caso Punta Alice fu definita un campo di battaglia da Paolo Orsi, che vi rimase due settimane, dirigendo
«la lunga e ostinata impresa che ci diede finalmente la vittoria».
Nonostante le negative
premesse fu infatti possibile mettere in luce lo stilobate dell'edificio e
comprenderne la pianta. Dell'elevato si recuperarono i capitelli d'ordine
dorico e, in frammenti, parte della decorazione architettonica in lastre e
cassette policrome con forme peculiari dell'area crotoniate, cui Cirò in antico
appartenne.
Completarono la
ricerca il parziale scavo delle cosiddette Case dei sacerdoti, ma ancor più il felice recupero - anch'esso
non totale per i motivi sopra accennati - della stipe votiva in cui, oltre agli oggetti cultuali in
bronzo, terracotta e ceramica, fu davvero rimarchevole la scoperta di statuette
d'oro e di argento, di frammenti di diademi aurei, foglie d'alloro in
bronzo, e di materiale in marmo scolpito, valutato senza eccesso (come fece
rilevare Paolo Orsi autore della stima) L. 12060, delle quali spettarono alla
famiglia Sabbatini, proprietaria del terreno L. 3000, quella quota parte che Luigi
Siciliani credeva gli potesse essere ceduta in oggetti.
Quanto non fu
recuperato nel corso dello scavo, si ritrovò rinvangando più volte le
colmate della Bonifica, percorse instancabilmente dall'Orsi e dai suoi collaboratori alla
ricerca, talora fortunata, di ciò che era sfuggito.
Il lavoro era quasi impossibile: la fanghiglia rivoltata permetteva la
risalita dell'acqua, impedendo in tal modo il sereno e distaccato contatto dell'archeologo con il terreno. Oltre che
dalle sabbie mobili, materiale
archeologico fu strappato abilmente dalle mani dei contadini e degli operai, che al solito avevano trafugato
quanto era più appariscente nella speranza
del lucro o per farne «trastullo dei propri bambini» (Orsi, op. cit.,
p. 18). Lo Stato, tramite il restauratore Damico si sostituiva ora agli antiquari, recuperando per poche lire
testimonianze preziose e di fatto
prendendo atto di una situazione alla quale era inutile opporre l'intervento delle forze di polizia. In perfetta
coerenza con questa linea d'azione è
quanto avvenne la sera del 14 maggio 1924:
dopo un violento temporale che aveva ridotto a fanghiglia le
sabbie rinvangate, fu raccolto il prezioso idolo di Apollo in argento [...]
esso venne raccolto da un operaio mentre le
squadre si ritiravano in paese; per quanto avvolto di fango venne tosto riconosciuto dall'operaio scopritore
(un albanese) per quello che era; avendolo immediatamente consegnato
senza tentarne il trafugamento, venne generosamente compensato. È questo il
pezzo più bello ricuperato dalle rinvanga ture.
(Orsi, op. cit. p. 37).
Da qualche mese Paolo Orsi aveva lasciato
definitivamente la Calabria
trenta anni dopo il suo primo intervento a Locri. Una riforma aveva unificato
Calabria e Lucania in un unico Istituto di tutela per scavi, gallerie e monumenti, e a guidarlo era stato chiamato
Edoardo Galli, calabrese che alla
Calabria ritornava dopo lunghi soggiorni a Roma e in Toscana.
Uomo di carattere
fermo e gran temperamento, il Galli si trovò a ricevere e affrontare
l'enorme eredità dell'Orsi, fatta non solo dei frutti della sua intensa ed esaustiva ricerca,
quanto dominata dalla gigantesca personalità
dell'uomo geniale e acuto conoscitore dei luoghi e della gente calabrese. Dal confronto inevitabile sarebbe
riuscito fatalmente perdente il Galli, che doveva anche affrontare i
problemi di un nuovo ufficio ingrandito a
dismisura nel territorio e gravato dai nuovi e non pochi problemi dei settori
artistico e monumentale. È da dire però che Edoardo Galli seppe ben rispondere
ai problemi e agli interrogativi di cui abbiamo detto, sopperendovi con
attività infaticabile, testimoniata dall'enorme quantità degli interventi e delle pratiche trattate con minuzia e rapidità di decisione. La battaglia per il Museo
nazionale di Reggio Calabria divenne
uno dei punti più qualificanti del suo programma. Raccogliendo le idee
di Paolo Orsi, il Galli fu convinto assertore della fusione delle collezioni del Museo civico con quelle
dello Stato divenute all'epoca più che considerevoli.
Il grande Museo di Reggio - scriveva - dovrà
rappresentare la sintesi dell'arte regionale dal periodo preistorico fino
all'età moderna; mentre le raccolte locali, piccole o grandi, organizzate però sempre seguendo il medesimo
schema topografico e cronologico dell'Istituto
centrale, sono chiamate ad una funzione diversa, cioè ad offrire analiticamente
agli studiosi la visione d'età passate, riflessa in ogni genere di manufatti
umili o ricchi che siano (E. Galli, in «Bruttium»,
1925, n. 1, p. 1).
A tutti, ai calabresi
in particolare, Galli richiedeva un impegno costante. Questo dimostrava il
continuo contatto con gli Ispettori onorari, che furono tanti
in quegli anni, e per i quali erano state stampate — quasi un
decalogo — norme di comportamento rigide e severe.
Il
contatto con la Società
Magna Grecia che aveva sempre in Zanotti Bianco il suo
infaticabile sostenitore, divenne in quegli anni più fitto e proficuo. Si preparava cosi il grande ritorno a
Sibari, problema che Paolo Orsi, ormai avanzato negli anni, non aveva
potuto impostare, né tanto-meno risolvere, pur sempre desiderandolo.
[1] Umberto
Zanotti Bianco, Paolo Orsi e la Società Magna Grecia, in Paolo Orsi (a cura dell’Archivio Storico
per la Calabria
e la Lucania),
Roma 1935.
[2] Paolo
Orsi, Templum Apollinis Alaei
ad Krimissam promontorium, estratto da Atti e Memorie Società magna
Grecia, edito a cura della Società Magna Grecia nella Coll. Merid., Roma
1933, p. 10).
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