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venerdì 21 febbraio 2014

§ 059 210214 Roberto Spadea, Cirò.



  


   Le pagine che seguono sono tratte dal saggio ‘’Archeologia e percezione dell'antico’’, di Roberto Spadea, da ‘La Calabria’, volume facente parte della ‘Storia d’Italia, Le regioni’, Einaudi 1985, pagg. 679-683.
   Emerge, insieme alla figura grandiosa di Paolo Orsi quale archeologo, il suo carattere, che si potrebbe definire, magari semplicisticamente, capriccioso, testardo, o malfidente verso personaggi non del mestiere. Fortunatamente egli ebbe a che fare con teste più dure della sua (… e volevo vedere!) Forse l’Orsi avrebbe risparmiato del tempo prezioso, se avesse dato retta alle memorie di cui si parla nel testo, cioè quelle di Giovan Francesco Pugliese, le cui cronache, come ho già sottolineato in altri post, furono stigmatizzate, evidentemente a torto, dall’archeologo trentino, e senza arrivare a costringere il poeta e deputato Luigi Siciliani (… noi che chiamati fummo greci, ma greci più grandi – vado a memoria, non seguitemi se sbaglio), a ricorrere all’uso di mezzi più convincenti, in giusta misura ‘minacciosi’, viste le resistenze dell’Orsi… un potere usato, oserei dire, a fin di bene, i cui risultati si sono visti, stante la scoperta del santuario (di quello si tratta, infine) di Apollo Aleo.
Rimane l’atteggiamento un po’ supponente di Paolo Orsi, come sembra evincersi dalle cronache… ma insomma, quest’anno ricorrono i novant’anni dalla scoperta, qualcuno se ne ricorderà?
Ma poi ricordare cosa? La parte migliore, quella eroica, di piccoli uomini che immagino dalla pelle olivastra, immersi nel fango fino alla cintola, a cercare ‘cose’ delle quali forse non potevano cogliere la portata storica ma solo il controvalore in pane per le proprie famiglie, agli ordini di un signore con cappello dalle falde larghe e con le tasche gonfie di lapis e taccuini? Oppure ricordare che su quel sacro suolo di Krimisa lo stato italiano è riuscito ad insediare proprio lì (n’avìvinu largu!) uno stabilimento industriale, cancellando qualsiasi possibilità di ulteriori rinvenimenti?
   Ed ora facciamo parlare Roberto Spadea.
                                        Cirò.
Il 5 marzo del 1924 da Siracusa Paolo Orsi telegrafava a Zanotti Bianco: «Prego impegnarmi 10 000 lire ragguardevole scoperta calabre­se». Dai lavori di bonifica effettuati dal Consorzio autonomo delle coo­perative ravennati, nei terreni paludosi tra il torrente Lipuda e Punta Alice veniva alla luce il santuario di Apollo Aleo.
Intorno al pantano della località nota come Isola di San Paolo si in­crociarono nel 1923 diversi avvenimenti, taluni di grande rilievo scien­tifico (basti pensare agli eccezionali rinvenimenti sui quali tra breve ri­torneremo), altri estremamente emblematici (il problema delle bonifi­che, che si era già intravveduto a proposito della piana lametina, quello della dispersione dei materiali attraverso i rinvenimenti fortuiti da parte delle squadre degli operai) poiché in essi è possibile esemplificare alcuni tratti di quella «percezione» dell'antico che abbiamo ritrovato altrove in Calabria. Con buone ragioni, perciò, Cirò può ritenersi un nodo fon­damentale: con esso Paolo Orsi chiudeva felicemente la sua attività ca­labrese dopo aver sottolineato che quell'intervento fu uno dei «più sin­golari» e «dopo quello di Locri [...] il più bello ch'io abbia fatto in que­sti 15 anni[1]»
Incomprensioni ed equivoci, tuttavia, segnano la nascita della ricerca a Cirò. Protagonisti e deuteragonisti erano di volta in volta Paolo Orsi, soprintendente della Calabria, le Bonifiche e con esse il Genio civile, infine Luigi Siciliani, calabrese di Cirò, che poco più tardi fu sottose­gretario alle Belle arti.
Fulcro della questione era l'identificazione del santuario di Apollo Aleo, punto d'onore ed ossessione — come scrisse Orsi[2]per Siciliani. Questi, «appoggiato a vecchie tradizioni paesane», si osti­nava a collocare il santuario a Punta Alice, località che, invece, Orsi dopo le sue esplorazioni effettuate qualche anno prima, aveva assoluta­mente escluso.
Nel mese di aprile del 1923 un fitto carteggio (brevi messaggi, tele­grammi, biglietti di servizio urgenti) intercorse tra il Genio civile di Catanzaro, Paolo Orsi e Luigi Siciliani. Nonostante l'apparente atten­zione dedicata al problema, gravi danni furono perpetrati nei confronti del patrimonio archeologico che era affiorato all'avvio dei lavori della Società cooperativa ravennate. Inspiegabilmente Orsi non intervenne, ma si limitò a richiedere generiche assicurazioni. Evidentemente il gran­de archeologo persisteva nel non ritenere possibili rinvenimenti così importanti in una palude mefitica. Più tardi, nella monografia dedicata al santuario e pubblicata per i tipi della Società Magna Grecia, nel II capi­tolo, che recherà il significativo sottotitolo Tenacia detta tradizione po­polare, l'Orsi come in una lunga palinodia, riassumendo la questione, sarà costretto ad ammettere in forma implicita i propri errori, anche se ricorderà che il non aver adempiuto alle precise disposizioni della So­printendenza da parte delle Bonifiche e dei subappaltanti locali aveva procurato danni assai gravi alle strutture del tempio.
Non è il caso di ripercorrere tutta la lunga polemica, che divide e di­stribuisce per ciascuno degli attori precise responsabilità. Ricordo solo per un particolare curioso, una lettera inviata nel 1924 da Luigi Siciliani a Paolo Orsi. I primi rinvenimenti archeologici (acroteri a testa di me­dusa e soprattutto una testa di marmo pertinente ad un acrolito, forse la statua di culto del tempio), erano depositati nell'ufficio delle Bonifiche a Cirò. Dopo aver esternato costernazione e rammarico per lo strazio di quelle venerande reliquie, il Siciliani, rivolgendosi ad Orsi, così con­clude: «la avverto che i Sabbatini proprietari del luogo, hanno ceduto per il materiale archeologico tutti i loro diritti a me» (Soprintendenza, Cirò, Lettera del 29 febbraio 1924). Si allude evidentemente alla quota parte spettante per legge al proprietario del suolo, ma ciò che mi pare significativo nell'ambito del tema che stiamo trattando, è la degenera­zione che può intervenire a stravolgere una corretta consonanza con quanto fa parte delle proprie origini. Luigi Siciliani considerava le sco­perte al tempio di Apollo Aleo come proprio personale possesso, dimo­strando per esse un attaccamento cieco e morboso, che sconfina nell'a­buso e nell'equivoco dei ruoli: non si dimentichi che Siciliani era parla­mentare a Roma, mentre recitava il ruolo di «onnipotente a Cirò». I ri­sultati nell'ultimo caso, furono tuttavia sconfortanti, se con velenosa iro­nia Orsi rimarcava come il Siciliani, pur avendo promesso premi agli operai «in sostanza recuperò cose di limitato valore, conservate ora in casa sua e disgraziatamente confuse con i materiali del serbatoio di Cirò superiore. Grande guaio questo!» (Orsi, op. cit., p. 19, nota 1).
Al veleno dell'archeologo si consenta la possibilità di una replica per salvare, se non altro, il genuino entusiasmo del Siciliani: il tempio di Apollo Aleo era là, dove egli e ancor prima altri uomini, che avevano rac­colto più antiche memorie, dicevano esistere.
Illustrando lo scavo di punta Alice Paolo Orsi descrive in modo esemplare, quasi abbellendolo, quel paesaggio triste e malsano:
‘una costa piatta con dune impercettibili verso il mare, in parte coperte di mac­chia, in parte nude, piana monotona ed antipatica, che oggi la mano ìndustre del villico viene trasformando in vigne redditizie, superando aspre lotte contro i venti marini e l'arsura solare.’ (Orsi, op. cit. p. 8).
Il lavoro svolto dalle Bonifiche prima e dalla missione di scavo poi, avveniva in condizioni praticamente impossibili. I miasmi paludosi e il calore consigliarono più di una volta il lavoro durante la notte « col ple­nilunio per evitare l'arsura intollerabile di quella piana percossa da un sole quasi africano e non offrente il riparo di un solo albero». Con gran­de velocità si sbancavano le dune sabbiose, aiutandosi con i carrelli di una ferrovia «Decauville», nei quali era trasportata la sabbia dei «mam­melloni» spianati affinché essa fosse sparsa riempiendo le bassure acqui­trinose. Non a caso Punta Alice fu definita un campo di battaglia da Paolo Orsi, che vi rimase due settimane, dirigendo «la lunga e ostinata impresa che ci diede finalmente la vittoria».
Nonostante le negative premesse fu infatti possibile mettere in luce lo stilobate dell'edificio e comprenderne la pianta. Dell'elevato si recu­perarono i capitelli d'ordine dorico e, in frammenti, parte della decora­zione architettonica in lastre e cassette policrome con forme peculiari dell'area crotoniate, cui Cirò in antico appartenne.
Completarono la ricerca il parziale scavo delle cosiddette Case dei sacerdoti, ma ancor più il felice recupero - anch'esso non totale per i motivi sopra accennati - della stipe votiva in cui, oltre agli oggetti cul­tuali in bronzo, terracotta e ceramica, fu davvero rimarchevole la sco­perta di statuette d'oro e di argento, di frammenti di diademi aurei, fo­glie d'alloro in bronzo, e di materiale in marmo scolpito, valutato senza eccesso (come fece rilevare Paolo Orsi autore della stima) L. 12060, delle quali spettarono alla famiglia Sabbatini, proprietaria del terreno L. 3000, quella quota parte che Luigi Siciliani credeva gli potesse essere ceduta in oggetti.
Quanto non fu recuperato nel corso dello scavo, si ritrovò rinvangando più volte le colmate della Bonifica, percorse instancabilmente dal­l'Orsi e dai suoi collaboratori alla ricerca, talora fortunata, di ciò che era sfuggito. Il lavoro era quasi impossibile: la fanghiglia rivoltata permet­teva la risalita dell'acqua, impedendo in tal modo il sereno e distaccato contatto dell'archeologo con il terreno. Oltre che dalle sabbie mobili, materiale archeologico fu strappato abilmente dalle mani dei contadini e degli operai, che al solito avevano trafugato quanto era più appariscen­te nella speranza del lucro o per farne «trastullo dei propri bambini» (Orsi, op. cit., p. 18). Lo Stato, tramite il restauratore Damico si sostituiva ora agli antiquari, recuperando per poche lire testimonianze preziose e di fatto prendendo atto di una situazione alla quale era inutile opporre l'intervento delle forze di polizia. In perfetta coerenza con questa linea d'azione è quanto avvenne la sera del 14 maggio 1924:
dopo un violento temporale che aveva ridotto a fanghiglia le sabbie rinvangate, fu raccolto il prezioso idolo di Apollo in argento [...] esso venne raccolto da un operaio mentre le squadre si ritiravano in paese; per quanto avvolto di fango venne tosto riconosciuto dall'operaio scopritore (un albanese) per quello che era; avendolo immediatamente consegnato senza tentarne il trafugamento, ven­ne generosamente compensato. È questo il pezzo più bello ricuperato dalle rinvanga ture. (Orsi, op. cit. p. 37).
Da qualche mese Paolo Orsi aveva lasciato definitivamente la Cala­bria trenta anni dopo il suo primo intervento a Locri. Una riforma aveva unificato Calabria e Lucania in un unico Istituto di tutela per scavi, gal­lerie e monumenti, e a guidarlo era stato chiamato Edoardo Galli, cala­brese che alla Calabria ritornava dopo lunghi soggiorni a Roma e in To­scana.
Uomo di carattere fermo e gran temperamento, il Galli si trovò a ri­cevere e affrontare l'enorme eredità dell'Orsi, fatta non solo dei frutti della sua intensa ed esaustiva ricerca, quanto dominata dalla gigantesca personalità dell'uomo geniale e acuto conoscitore dei luoghi e della gen­te calabrese. Dal confronto inevitabile sarebbe riuscito fatalmente per­dente il Galli, che doveva anche affrontare i problemi di un nuovo uffi­cio ingrandito a dismisura nel territorio e gravato dai nuovi e non pochi problemi dei settori artistico e monumentale. È da dire però che Edoar­do Galli seppe ben rispondere ai problemi e agli interrogativi di cui ab­biamo detto, sopperendovi con attività infaticabile, testimoniata dall'e­norme quantità degli interventi e delle pratiche trattate con minuzia e rapidità di decisione. La battaglia per il Museo nazionale di Reggio Cala­bria divenne uno dei punti più qualificanti del suo programma. Racco­gliendo le idee di Paolo Orsi, il Galli fu convinto assertore della fusione delle collezioni del Museo civico con quelle dello Stato divenute all'epo­ca più che considerevoli.
 Il grande Museo di Reggio - scriveva - dovrà rappresentare la sintesi del­l'arte regionale dal periodo preistorico fino all'età moderna; mentre le raccolte locali, piccole o grandi, organizzate però sempre seguendo il medesimo schema topografico e cronologico dell'Istituto centrale, sono chiamate ad una funzione diversa, cioè ad offrire analiticamente agli studiosi la visione d'età passate, ri­flessa in ogni genere di manufatti umili o ricchi che siano (E. Galli, in «Bruttium», 1925, n. 1, p. 1).
A tutti, ai calabresi in particolare, Galli richiedeva un impegno co­stante. Questo dimostrava il continuo contatto con gli Ispettori onorari, che furono tanti in quegli anni, e per i quali erano state stampate — quasi un decalogo — norme di comportamento rigide e severe.
Il contatto con la Società Magna Grecia che aveva sempre in Zanotti Bianco il suo infaticabile sostenitore, divenne in quegli anni più fitto e proficuo. Si preparava cosi il grande ritorno a Sibari, problema che Paolo Orsi, ormai avanzato negli anni, non aveva potuto impostare, né tanto-meno risolvere, pur sempre desiderandolo.


[1] Umberto Zanotti Bianco, Paolo Orsi e la Società Magna Grecia, in Paolo Orsi (a cura dell’Archivio Storico per la Calabria e la Lucania), Roma 1935.
[2] Paolo Orsi, Templum Apollinis Alaei ad Krimissam promontorium, estratto da Atti e Memorie Società magna Grecia, edito a cura della Società Magna Grecia nella Coll. Merid., Roma 1933, p. 10).

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