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lunedì 24 febbraio 2014

§ 061 240214 Luigi Siciliani, Capo Crimisa, modificato.

   Le opere di Luigi Siciliani si possono consultare e legalmente scaricare dal sito, tra gli altri, dell'Università del Connecticut: https://archive.org/details/uconn_libraries ; basta inserire 'siciliani' come parola chiave nel riquadro 'search', in alto a sinistra e poi scegliere dalle voci che appaiono quelle che interessano; le opere si possono scaricare, tra l'altro, in vari formati, nel senso di tipo di file (mi sono dilungato poiché so di una persona cara che fa a pugni col pc...).
   Non voglio dire che l'opera di Siciliani sia di imprescindibile importanza, assolutamente no, ma ritengo che abbia un suo valore non trascurabile, che non sfigura nel confronto con tantissimi altri autori 'minori' della letteratura italiana. Tra l'altro la sua opera di traduttore non è assolutamente 'minore'...

   Lo sguardo profondo di Luigi Siciliani, dalla posizione dominante che al monumento al poeta è stata destinata nella piazza di Cirò, sembra scrutare lo Ionio quasi nell’attesa dell’arrivo degli Elleni colonizzatori e portatori di arti le più varie, pensiero il più profondo, e commerci i più vari.  
   Luigi Siciliani nacque a Cirò nel 1881 e morì nel 1925. Fu deputato e soprattutto grande latinista e traduttore di classici greci, poeta, saggista e anche autore di un romanzo, ‘Giovanni Fràncica’: a lui si deve la rivitalizzazione dei poeti erotici dell’antologia palatina.
   Sto scrivendo a memoria, in quanto non voglio con questo post scrivere la biografia di Luigi Siciliani, ma solo rileggere ‘Capo Crimisa’ ed esprimere qualche considerazione senza pretese.
   Uno degli aspetti più interessanti di internet, della rete,  è, per me come per tanti altri, poter reperire, con pochi clic, testi quasi introvabili, come le opere di Luigi Siciliani - peraltro in edizione originale - direttamente dagli archivi,  o da una biblioteca, spesso, come in questo caso, d’oltreoceano … i testi ai quali sto attingendo arrivano dall’università del Connecticut!
   ‘Capo Crimisa’ apparve nel 1906 nella raccolta ‘Sogni pagani’  (1899-1905), per i tipi di W. Modes, Roma, quindi ben prima della scoperta del santuario di Apollo Aleo e dei resti della sacra Krimisa (maggio 1924), dovuta all’opera del soprintendente Paolo Orsi, fortemente stimolato ed indirizzato, con caparbietà, dal Siciliani che era fermamente convinto di potersi individuare quel sito nei pressi di  Punta Alice, anche sulla scorta delle affermazioni di autori precedenti, in primis G. F. Pugliese. L’Orsi ebbe a dichiarare, senza tanti giri di parole,  che mai avrebbe immaginato che la misteriosa Krimisa potesse essere stata edificata in una palude mefitica e in posizione bassa, quindi poco visibile ai naviganti che vi si recavano in pellegrinaggio, per così dire, al santuario di Apollo Aleo.

In questo canto il Siciliani ripercorre anche la storia di Cirò e di quel borgo che si andava formando lungo il litorale, e che un giorno sarebbe diventato Cirò Marina (‘Sorto non sono cent’anni è un piccolo borgo sul mare’); le terre sono ‘piccole’ in quanto piccola è l’estensione, come Siciliani spiega nelle note, sulla quale sembra siano convissute due città, Krimisa e Chone, che l’autore colloca nella località ancora oggi detta ‘Brisi’, da Bacco Briseo.
Il poeta, seduto a poppa di una barca (nu vuzzareddu, chissà…) si fa portare, da due rematori, a visitare il Capo Crimisa, e descrive questa sua escursione nella poesia e nel mito, con toni classicheggianti e dal taglio talvolta d’annunziano, come è evidente in alcuni passaggi. Il Siciliani è mosso dal desiderio di scoprire qualche vestigio della colonia magno greca, e parla a quel capo, a quel tempio, a quella città, a quei greci, che abitano i suoi sogni, i pensieri, le istanze.
I versi di ‘Capo Crimisa’ sono più sentiti di quanto si possa credere, ed esulano dagli schemi del poeta -letterato (fine letterato, peraltro).
Esempio di questa tensione siano  i versi, di assoluto valore, che recitano: 
‘Hera ed Apollo non sono signori di templi sui flutti.
Dileguarono insieme per sempre gli umani e gli iddii.
Cupo squallore, miseria profonda ci aduggia da allora!
Noi che chiamati fummo greci, ma greci più grandi,
noi, ora siamo negletti in solitario abbandono.’
Ritengo si tratti di cinque versi che riassumono l’antico splendore della Megale Hellas e l’attuale rovina di quegli stessi territori…
Pur essendo evidenti nel testo figure retoriche e metriche che il Siciliani padroneggiava senza il minimo sforzo, lo spunto lirico, la partecipazione, l’afflato, sono insopprimibili: valga in assoluto la chiusa, quando il poeta si rivolge direttamente al tempio di Apollo, invocandone l’apparizione – non del dio, ma del tempio - su quel lido puro, ‘or ch’è colcato il tuo dio / dietro i monti, nel tempio’, ora, quindi, che il poeta ha visto il lume di quel dio e si dichiara degno di entrarvi…
 
                  CAPO CRIMISA
Sorto non sono cento anni è un piccolo borgo sul mare,
tra le piccole terre antiche di Crimisa e Chone.
Crescon su Chone i vigneti dai grappoli cupo granato,
padri del forte vino soave odorante di Brisi;
presso Crimisa l'onda ricama le labili spume,
sopra, la terra s'immelma in lutulenti pantani.
Ora dal piccolo borgo moviamo su fragile barca
due rematori abbronzati dagli agili corpi d'efebi,
io seduto alla poppa, pensando i travagli d’UIisse.
«Sopra la tolda l’eroe dormiva; gl'industri Feaci
lui riportavano stanco dal salso vagare sui flutti».

È sereno il mare, il mio bel Jonio azzurrino,
sola patria verace degli antichissimi Elleni:
erano i loro templi, le loro città lussurianti
lungo le coste sonanti l'eterna parola dei flutti.
Ecco già il borgo lontano, impiccolito sul lido.
Tra nereggianti scogliere, dove si ammassan gli echini,
lentamente s’avanza la fragile barca: più grande
ad ogni colpo di braccia il faro rotondo diventa.


Ora giungiamo all’approdo. Con gli ultimi colpi veementi
dentro la rena s’infìgge la barca. Balziamo sul lido.
Avido cerco con gli occhi d'intorno se pure un vestigio
fosse rimasto del tempio splendente d'Apolline Aleo.
Nulla. Lontano si scorge velato di nebbia il Lacinio.
Hera ed Apollo non sono signori di templi sui flutti.
Dileguarono insieme per sempre gli umani e gli iddii.
Cupo squallore, miseria profonda ci aduggia da allora!
Noi che chiamati fummo greci, ma greci più grandi,
noi, ora siamo negletti in solitario abbandono.
Densa la tenebra grava dove splendette la luce
ch’arde pel mondo, che accende dovunque fiaccole nuove;
ma scorre lungi più sempre dal suo focolare nativo.
Ricca d’armenti è la terra, ferace di grani, di viti
e dì cinerei ulivi fuggenti dai monti sul piano.
Fischiano al vento le forre donde zampillan le fonti.
Agita il faggio, il pino, l'abete, il castagno le fronde:
s'alzano i tronchi grandi di centenaria potenza.
Forti son gli uomini, saldi, acuti di mente, tenaci;
ma per il piano li sbianca la trista malarica febbre,
per le montagne li preme la necessità della vita,
ed i lor occhi non sanno la grande bellezza passata.

Sembra diffuso di sangue il cielo dintorno al tramonto.


Alto sui colli vicino un altro borgo compare:
i fondatori suoi primi, fuggendo gli avari pirati,
disertarono il piano, si ricovrarono ai colli.
Ma i lor padri antichi movevano in lunga teoria,
doni portando ad Apollo nel tempio recinto dai flutti.

Ecco che l'anima antica, l'anima della mia stirpe
oggi risento nuova dalle mie labbra spirare;
ecco l’oblio dilegua del tempo passato, risorge
tutta la Grecia vivente dentro i miei occhi stupiti.
Vengon pe’l Jonio l’ombre su cui non ha presa la morte:
han scoverchiato le tombe, e scosso l'incerto lor sonno.
Mai non dormiranno l'eterno sonno queste ombre,
fin che sui campì il sole risplenda all'umano lavoro,
fin che maturin le messi e pendano l'uve dai tralci.
Grecia, grande tu sei, qual mare mutevole e bella:
nulla per l'uomo è più dolce quanto di te nutricarsi.
Ogni gloria si onora, se è comparata alla tua;
d’ogni grandezza il fiore cogliesti fragrante e perfetto;
e la corona di tutti i canti cantati tu porti.
L'oscurità dei fati sull'acqua fluttuante dei tempi
guarda a te come un faro raggiante, a una fulgida aurora.
E tornerai sorridente; l'impero del mondo tu avrai,
con i tuoi occhi sereni ove ride una luce azzurrina,
pura, quale ebbe Athena armata del senno e dell'asta.

Tempo verrà che la vita si pieghi all'antica sua fonte,
e che ritorni l'uomo a ber la desiata frescura,
e che rinfranchi l'arso corpo dal lungo cammino.
Una terribile sete nei secoli l'ha divorato;
bere di libertà egli or vuole all'antica sorgente,
si ch’egli senta il suo sangue battergli sano nei polsi.
Ogni favola oscura onde la mente fu oppressa,
ogni timore vano d’imperscrutabili iddii,
ogni crudele brama di sottometter l'eguale
lungi si sgombrerà dall'anima fatta raggiante,
sola, bastevole a sé ne la plenitudine sua.
Quando sorvenga la morte, egli l’accolga sereno,
torni confuso nel nulla ond'ebbe principio la vita,
e la tristezza sia vinta dall'ultimo grande trapasso.
Noi saremo sapienti allora, ma tutto l'amaro
della sapienza nostra in dolce sarà tramutato.
Gli occhi rimireranno sereni la favola breve,
dove il sorriso traluce così raramente nel pianto.

Trionfatrice sarai per l'ultima volta e per sempre,
Grecia, mia patria, signora dell’ala fugace del tempo,
madre in ispirito e fede degli uomini liberi tutti,
cuore del mondo, pulsante eterno come il tuo mare,
che ti recinge tutta del fresco suo alito salso.

Tempio d’Apollo, disegna le forme tue pure sul lido,
leva le belle colonne e l’istoriate metòpe!
Degno son d’entrare, or ch’è colcato il tuo dio
dietro i monti, nel tempio, e dirgli ch’io vidi il suo lume.

1 commento:

  1. Versi veramente molto belli.Tranne la statua e qualche poesiola, in un libro delle elementari,di cui non ricordo nulla,non pensavo di un vero grande poeta.

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