Capire, capire, capire… non mandare inevasi i propri
conti, con sé stessi e con le proprie radici. Non scrivo per nostalgia, è questo
un sentimento che ho represso attentamente, scientemente, da tanto, forse
troppo, tempo. Presento qui, allo sporadico lettore, questo eccellente brano
del non abbastanza compianto professor Augusto Placanica (1932-2002); è tratto
dal saggio ‘Calabria in idea’, pagine 646-650, della Storia d’Italia, Le
regioni dall’Unità a oggi, ‘’La
Calabria’’, a cura di P. Bevilacqua e A. Placanica, Einaudi
1985.
A mio modestissimo parere, le parole del Placanica sono
tra le più lucide che si possano leggere, ancor più se si considera che il tema
trattato è tra quelli più sentiti, che lo si voglia o no, dai ‘calabresi’, che,
volendo dirla tutta, sono visti come dei diversi anche dal resto delle
popolazioni meridionali.
A margine del post, aggiungerei che la 'calabresità', tanto dolente quanto irrealizzata, ad un certo punto esorbita dallo schema iniziale, per farsi paradigma più radicale e personale: la mancanza, l'abbandono, l'assenza, sono tutte forme opposte ed oppositive, sono il negativo, il contrario, della parte positiva, quasi come essere calabresi e quindi portatori di una mancanza o di una essenza in negativo, costringa a confrontarsi con l'altra parte, quella in luce, la componente socialmente positiva.
Difficile spiegare le mie sensazioni, specie in tempi di malinteso ecumenismo e 'universalesimo': nessuno avrà mai ciò che ha perso o gli è stato negato, i ritardi che derivano da questo meccanismo di esclusione e inclusione, a livello planetario, sono ferrei e, temo, indipendenti dalle aspirazioni dei popoli. Almeno fino a quando le culture e i poteri dominanti non cominceranno a cedere veramente terreno e spazi. Immagino differenti livelli di segregazione regionale, sovraregionale, nazionale, sovrannazionale..., o meglio: dalla persona, dalla famiglia, dal gruppo sociale fino all'universo mondo, ma questi pensieri sono quelli di un ozioso 'stròlicu'... Però ricordo direttamente un sacco di eventi e condizioni che mi fanno ritenere per impeccabile il testo placanichiano.
Ecco il testo:
Forse è più facile
rispondere alla domanda: come si pone, com'è percepito — oggi — l'essere
calabrese? Intanto, non va dimenticato che, per un un complesso di
motivi che sarebbe lungo elencare ma che sono fin troppo ovvi, l'attività
mitopoietica e fabulante, a livello consapevole o inconscio, ha come
protagonisti soprattutto coloro che vivono la Calabria, la propria
Calabria, ab extra. Se, per i calabresi residenti, essere calabresi significa
essenzialmente vivere in quella regione, operarvi ed impegnarsi — se è il
caso — nell'attività di conoscenza e di soluzione dei suoi problemi, per gli altri, cioè per il
calabrese che è lontano dalla sua terra, il
problema è essenzialmente di identità e di memoria per sopravvivere. In questo,
il calabrese sradicato ha bisogno, assai più di ogni altro, di una Calabria in idea (simbolo, segno, ricordo,
termine di confronto, coacervo dì
impressioni e convincimenti), che serva da underground e da background[1]. In realtà la Calabria è apparsa sempre
la terra del diverso: o arcaica o tesa a un avvenire ideale in nome della sua
arcaicità; selvaggia nel bene
e selvaggia nel male; al limite, né peggiore né migliore di altri consorzi umani (uno stesso descrittore poteva ben
bilanciare i requisiti); ma diversa sempre.
Ora, penso che
possano assumersi due presupposti di fondo. In primo luogo, soprattutto oggi — cioè in
questi decenni che hanno visto espandersi
ed approfondirsi il processo di omologazione socioeconomica, socioculturale, sociolinguistica della
nazione italiana — una calabresi-tà
come dato antropologico-morale è ormai, essenzialmente, solo un'astrazione, che si giustifica assai meno della
connotazione della meridio-nalità: le forme della convivenza e
dell'acculturazione, i comportamenti e gli
universi dì discorso, tutto — e da decenni — cospira a consumare le distinzioni
regionali nell'indistinto della modernità italiana. La calabre-sità come
autocoscienza è, dunque, per chi viva in Calabria, un dato ormai, se non
inutile, certamente inessenziale, e certamente collaterale rispetto ad altri modi di essere, di sentirsi e di
rapportarsi al mondo. In secondo
luogo — come s'è già anticipato — la percezione della calabresità, per
il calabrese emigrato e déraciné, è un prodotto della sedimentazione socioculturale, che risponde a un bisogno assai
avvertito, di identificazione,
necessaria soprattutto nelle difficoltà dei nuovi radicamenti in un ambiente
assai spesso ostile e prevenuto. Si perdonerà qualche necessario schematismo:
ma le due anime del flusso migratorio — da una parte la classe operaia ex contadina, dall'altra la classe burocratico-intellettuale
d'estrazione piccolo-borghese — hanno mirato alla propria identificazione attraverso il recupero di una calabresità
fino ad allora non indispensabile,
ma grazie a itinerari esistenziali e antropologico-culturali diversi. E infatti, nel primo dei due settori, la
strada attraverso la quale realizzare la reidentificazione in terra
altrui è stata offerta dalla costruzione-invenzione
di coesioni di gruppi calabresi, viventi e operanti in prossimità
spaziali, col sostegno della memoria riconducente agli stessi luoghi, la
pratica dei canti comuni, la fabulazione aneddotica, le strategie matrimoniali
e di convivenza, i riti, i simboli, i significati, i «valori» e i precetti e così via, quasi a riprodurre, in una
terra estranea, l'antica patria o ritrovata o non dimenticata. Solo così, per
migliaia e migliaia di emigranti —
uomini e donne, fanciulli e vecchi, taluni disposti all'avventura e a
dimenticare, altri sradicati con violenza da un ambito umano insostituibile
— il distacco della Calabria è stato
reso meno lacerante; e solo ove si pensi ai
costi umani — in termini di sofferenza per lo sradicamento, di nostalgia, di sostanziale infelicità — anche
i toni retorici di tante opere
letterarie e cinematografiche ci appaiono meno lontani dal vero, e forse
inferiori, per intensità di sentimento, ai drammi spirituali di tanti calabresi
trapiantati.
Il ceto
burocratico-intellettuale ha avuto analoghi problemi quando, per necessità di
lavoro o di carriera, ha dovuto abbandonare la Calabria, Su di esso — quasi
sempre — ha infierito di meno la ghettizzazione, volontaria o involontaria,
imposta ai contemporanei emigrati delle classi subalterne. Meno numerosa, e meno temibile
per concorrenzialità, questa diversa classe
d'emigrati borghesi si è dispersa in tutte le regioni d'Italia, ma anch'essa s'è portato dentro il cruccio e
la nostalgia. Questo diverso tipo
d'emigrazione burocratico-intellettuale non è riuscito a confortare il proprio malessere da sradicamento con
la ricostituzione di un'altra piccola patria fatta di una ritrovata
coesione di gruppi regionali: figli essi stessi, già nella Calabria natale, di
un isolamento dalla base popolare, questi
borghesi emigrati hanno subito più cocentemente la percezione della propria solitudine, spesso
risarcendola con attivismo ed efficienza
sul luogo di lavoro, e hanno dovuto ricostruire quella Calabria ideale nella sfera della propria interiorità. In
un contesto sociale abituato a ritenersi più elevato rispetto agli
àmbiti operai, allora, all'intellettuale calabrese
emigrato (impiegato o dirigente, professore universitario o professionista) è riuscito, forse, meno difficile
radicarsi, ma quasi impossibile
ritrovare il calore dell’ambiente di provenienza. Ha dovuto, perciò,
riscattare la propria condizione di diverso, e ai suoi occhi la Calabria — di oggi, di sempre — si è rivestita di qualità e
doti mai prima pensate, e la
calabresità — sua e dei conterranei della diaspora — è apparsa, ancora una volta, la triste beffa giocata dal
destino a danno di un popolo nobile e
capace (la Calabria
in idea, ipostasi necessaria). Se l’operaio
emigrato ha mantenuto stretto, nel fatto della sua esistenza e dei suoi
rapporti, il legame con la terra d'origine, l'intellettuale ha coltivato dentro di sé il vagheggiamento di una Calabria
ideale, e in questo s'è assunto il compito di accogliere in sé, e di offrire
agli altri, talora con malcelata
civetteria, i topoi tradizionali della calabresità: solidità, tenacia, e finanche la suscettibilità, la ritrosia, la
ombrosità. E con ciò, ha ricostruito quell'orizzonte di prosopografie e
di esaltazioni della calabresità vissuto sui banchi di scuola, nelle parole
degli adulti, nelle letture, chiedendo ad
esso un conforto non meglio ottenibile altrove.
Così, nozione un tempo fortemente attiva,
e percepita quale simbolo quasi aggressivo
di identità proclamata, la calabresità è ora divenuta strumento
meramente difensivo, di autoconservazione. Se la Calabria è poco più che
una realtà politico-amministrativa per chi vi risiede, essa diviene, invece, un
indispensabile grumo di sentimenti e di risentimenti per chi ne sta lontano: e allora le brumose atmosfere del Nord sembrano non offrire all'occhio i torrenti di luce e di
colori della Calabria lontana, e i cibi non sono più gli stessi, e il
vestire, l'operare, il pensare, così scopertamente diversi, fanno riandare con
l'anima alla dimensione perduta: la Calabria non è mai così
prepotentemente se stessa come nel pensiero di chi l'ha lasciata.
Chiamato a misurarsi con altre identità, e
a identificarsi con il nuovo ambiente di
lavoro, il calabrese della diaspora deve, per sopravvivere, accettare la lacerazione, tra ciò che egli non
può più essere e ciò che egli non è
ancora, calabrese di sempre e italiano (o europeo) di oggi. È in questo momento delicatissimo, di transizione, che il
calabrese sente di rischiare lo smarrimento della sua identità, e ad
essa si afferra con la corposità dei simboli,
della memoria, del linguaggio, delle credenze. Nella coralità calda dei
gruppi, o nel vagheggiamento culto della riflessione isolata, l'essere
calabrese diviene un mito da non perdere, da dichiarare, da proclamare: che sia
fatta di tenere memorie familiari o che sia il prodotto stratificato dell'immaginario, la Calabria è soprattutto
nell'animo di chi se n'è andato.
Concetto o pseudoconcetto, astrazione o ipostasi, quella Calabria in idea ha, ancora una volta
(almeno fino ad oggi), una sua
funzione.
Poi, lentamente, il
processo di assimilazione al nuovo ambiente si fa più lineare ed evidente; e va sempre
meglio interiorizzandosi quella calabresità, che, come punto dolente e momento
difensivo, doveva essere, agl'inizi,
quotidianamente riconquistata attraverso segni, riti, parole; e il buon
calabrese, finalmente, «s'inserisce», senza con ciò dimenticare d'essere — o, più malinconicamente, d'essere
stato — calabrese. La Calabria, alla fine, si consolida come immaginario
collettivo, ma senza lacerazioni
drammatiche con l'attualità.
Certo, la nostalgia
resta. E tuttavia, non sempre, poi, quell'idea di Calabria — il calore degli affetti,
l'orgoglio della tradizione — regge al confronto
con la Calabria
reale: l'emigrato che temporaneamente ritorna porta ora, dentro di sé, una calabresità di tipo nuovo, interiorizzata
certamente, ma colorata di un odi
et amo imprevedibile: la sua vecchia patria gli si presenta con difetti non immaginati. Forse è la
consolazione, di cui si ha bisogno,
per poter credere d'avere scelto bene allorché si è scelta la strada dell'emigrazione; forse è la
costatazione che, fuori della Calabria,
i processi dì modernizzazione sono più radicati e più effettuali; forse è la considerazione — amara —
che, in Calabria, il clientelismo terziarizzante ha spesso agevolato
l'espulsione degli elementi migliori, garantendosi l'acquiescente consenso dei
meno dotati e gestendo una vita politica ridotta in ambiti angusti. È certo,
comunque, che, nella coscienza di quegli stessi calabresi che di più hanno
amato la loro terra, la stessa nostalgia diventa conflittuale; dì questo fatto,
comunemente avvertito, esistono cause ben precise e le responsabilità sono
ormai ben individuate. Il problema, come
sempre, è politico.
[1]
Ha osservato Luigi Maria Lombardi Satriani:
«Sulla Calabria si sono addensati nel corso dei secoli
una serie di pregiudizi che, pur diversamente articolati, convergono nel
sottolinearne l'arcaicità e il carattere selvaggio: sono immagini esterne, che
utilizzano la Calabria
come polo dialettico, per riconfermare la
superiorità del proprio mondo culturale. La Calabria costituisce quindi la zona oscura della coscienza civile europea e, in quanto
tale, deve essere continuamente percorsa e negata» (L. M. Lombardi Satriani e M. Meligrana, Un villaggio nella memora, Roma
- Reggio Calabria 1983, p. 5). Si può anche obiettare che non sempre il
giudizio del forestiero (dello straniero, soprattutto)
è stato, in sé, negativo; ma sulla funzione dialettica della Calabria, in
contrapposizione alla modernità volta per volta attuale nei diversi
contesti culturali, sì deve essere d'accordo.
Nessun commento:
Posta un commento