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giovedì 20 febbraio 2014

§ 058 200214 Augusto Placanica, La Calabria in idea.



Capire, capire, capire… non mandare inevasi i propri conti, con sé stessi e con le proprie radici. Non scrivo per nostalgia, è questo un sentimento che ho represso attentamente, scientemente, da tanto, forse troppo, tempo. Presento qui, allo sporadico lettore, questo eccellente brano del non abbastanza compianto professor Augusto Placanica (1932-2002); è tratto dal saggio ‘Calabria in idea’, pagine 646-650, della Storia d’Italia, Le regioni dall’Unità a oggi, ‘’La Calabria’’, a cura di P. Bevilacqua e A. Placanica, Einaudi 1985.
A mio modestissimo parere, le parole del Placanica sono tra le più lucide che si possano leggere, ancor più se si considera che il tema trattato è tra quelli più sentiti, che lo si voglia o no, dai ‘calabresi’, che, volendo dirla tutta, sono visti come dei diversi anche dal resto delle popolazioni meridionali. 
A margine del post, aggiungerei che la 'calabresità', tanto dolente quanto irrealizzata, ad un certo punto esorbita dallo schema iniziale, per farsi paradigma più radicale e personale: la mancanza, l'abbandono, l'assenza, sono tutte forme opposte ed oppositive, sono il negativo, il contrario, della parte positiva, quasi come essere calabresi e quindi portatori di una mancanza o di una essenza in negativo, costringa a confrontarsi con l'altra parte, quella in luce, la componente socialmente positiva.
Difficile spiegare le mie sensazioni, specie in tempi di malinteso ecumenismo e 'universalesimo': nessuno avrà mai ciò che ha perso o gli è stato negato, i ritardi che derivano da questo meccanismo di esclusione e inclusione, a livello planetario, sono ferrei e, temo, indipendenti dalle aspirazioni dei popoli. Almeno fino a quando le culture e i poteri dominanti non cominceranno a cedere veramente terreno e spazi. Immagino differenti livelli di segregazione regionale, sovraregionale, nazionale, sovrannazionale..., o meglio: dalla persona, dalla famiglia, dal gruppo sociale fino all'universo mondo, ma questi pensieri sono quelli di un ozioso 'stròlicu'... Però ricordo direttamente un sacco di eventi e condizioni che mi fanno ritenere per impeccabile il testo placanichiano.
Ecco il testo:
Forse è più facile rispondere alla domanda: come si pone, com'è percepito — oggi — l'essere calabrese? Intanto, non va dimenticato che, per un un complesso di motivi che sarebbe lungo elencare ma che sono fin troppo ovvi, l'attività mitopoietica e fabulante, a livello consapevole o inconscio, ha come protagonisti soprattutto coloro che vivono la Calabria, la propria Calabria, ab extra. Se, per i calabresi residenti, essere calabresi significa essenzialmente vivere in quella regione, operarvi ed impe­gnarsi — se è il caso — nell'attività di conoscenza e di soluzione dei suoi problemi, per gli altri, cioè per il calabrese che è lontano dalla sua terra, il problema è essenzialmente di identità e di memoria per sopravvivere. In questo, il calabrese sradicato ha bisogno, assai più di ogni altro, di una Calabria in idea (simbolo, segno, ricordo, termine di confronto, coa­cervo dì impressioni e convincimenti), che serva da underground e da background[1]. In realtà la Calabria è apparsa sempre la terra del diverso: o arcaica o tesa a un avvenire ideale in nome della sua arcaicità; selvaggia nel bene e selvaggia nel male; al limite, né peggiore né migliore di altri consorzi umani (uno stesso descrittore poteva ben bilanciare i requisiti); ma diversa sempre.
Ora, penso che possano assumersi due presupposti di fondo. In pri­mo luogo, soprattutto oggi — cioè in questi decenni che hanno visto espandersi ed approfondirsi il processo di omologazione socioeconomi­ca, socioculturale, sociolinguistica della nazione italiana — una calabresi-tà come dato antropologico-morale è ormai, essenzialmente, solo un'a­strazione, che si giustifica assai meno della connotazione della meridio-nalità: le forme della convivenza e dell'acculturazione, i comportamenti e gli universi dì discorso, tutto — e da decenni — cospira a consumare le distinzioni regionali nell'indistinto della modernità italiana. La calabre-sità come autocoscienza è, dunque, per chi viva in Calabria, un dato or­mai, se non inutile, certamente inessenziale, e certamente collaterale ri­spetto ad altri modi di essere, di sentirsi e di rapportarsi al mondo. In secondo luogo — come s'è già anticipato — la percezione della calabresità, per il calabrese emigrato e déraciné, è un prodotto della sedimentazione socioculturale, che risponde a un bisogno assai avvertito, di identificazio­ne, necessaria soprattutto nelle difficoltà dei nuovi radicamenti in un ambiente assai spesso ostile e prevenuto. Si perdonerà qualche necessa­rio schematismo: ma le due anime del flusso migratorio — da una parte la classe operaia ex contadina, dall'altra la classe burocratico-intellettuale d'estrazione piccolo-borghese — hanno mirato alla propria identifica­zione attraverso il recupero di una calabresità fino ad allora non indi­spensabile, ma grazie a itinerari esistenziali e antropologico-culturali diversi. E infatti, nel primo dei due settori, la strada attraverso la quale realizzare la reidentificazione in terra altrui è stata offerta dalla costru­zione-invenzione di coesioni di gruppi calabresi, viventi e operanti in prossimità spaziali, col sostegno della memoria riconducente agli stessi luoghi, la pratica dei canti comuni, la fabulazione aneddotica, le strate­gie matrimoniali e di convivenza, i riti, i simboli, i significati, i «valori» e i precetti e così via, quasi a riprodurre, in una terra estranea, l'antica patria o ritrovata o non dimenticata. Solo così, per migliaia e migliaia di emigranti — uomini e donne, fanciulli e vecchi, taluni disposti all'av­ventura e a dimenticare, altri sradicati con violenza da un ambito umano insostituibile il distacco della Calabria è stato reso meno lacerante; e solo ove si pensi ai costi umani — in termini di sofferenza per lo sradi­camento, di nostalgia, di sostanziale infelicità anche i toni retorici di tante opere letterarie e cinematografiche ci appaiono meno lontani dal vero, e forse inferiori, per intensità di sentimento, ai drammi spirituali di tanti calabresi trapiantati.
Il ceto burocratico-intellettuale ha avuto analoghi problemi quando, per necessità di lavoro o di carriera, ha dovuto abbandonare la Calabria, Su di esso — quasi sempre — ha infierito di meno la ghettizzazione, volon­taria o involontaria, imposta ai contemporanei emigrati delle classi su­balterne. Meno numerosa, e meno temibile per concorrenzialità, questa diversa classe d'emigrati borghesi si è dispersa in tutte le regioni d'Ita­lia, ma anch'essa s'è portato dentro il cruccio e la nostalgia. Questo diverso tipo d'emigrazione burocratico-intellettuale non è riuscito a con­fortare il proprio malessere da sradicamento con la ricostituzione di un'altra piccola patria fatta di una ritrovata coesione di gruppi regionali: figli essi stessi, già nella Calabria natale, di un isolamento dalla base popolare, questi borghesi emigrati hanno subito più cocentemente la percezione della propria solitudine, spesso risarcendola con attivismo ed efficienza sul luogo di lavoro, e hanno dovuto ricostruire quella Calabria ideale nella sfera della propria interiorità. In un contesto sociale abituato a ritenersi più elevato rispetto agli àmbiti operai, allora, all'intellettuale calabrese emigrato (impiegato o dirigente, professore universitario o professionista) è riuscito, forse, meno difficile radicarsi, ma quasi impossibile ritrovare il calore dell’ambiente di provenienza. Ha dovuto, perciò, riscattare la propria condizione di diverso, e ai suoi occhi la Calabria di oggi, di sempre si è rivestita di qualità e doti mai prima pensate, e la calabresità — sua e dei conterranei della diaspora — è apparsa, ancora una volta, la triste beffa giocata dal destino a danno di un popolo nobile e capace (la Calabria in idea, ipostasi necessaria). Se l’operaio emigrato ha mantenuto stretto, nel fatto della sua esistenza e dei suoi rapporti, il legame con la terra d'origine, l'intellettuale ha coltivato dentro di sé il vagheggiamento di una Calabria ideale, e in questo s'è as­sunto il compito di accogliere in sé, e di offrire agli altri, talora con malcelata civetteria, i topoi tradizionali della calabresità: solidità, tenacia, e finanche la suscettibilità, la ritrosia, la ombrosità. E con ciò, ha rico­struito quell'orizzonte di prosopografie e di esaltazioni della calabresità vissuto sui banchi di scuola, nelle parole degli adulti, nelle letture, chie­dendo ad esso un conforto non meglio ottenibile altrove.
Così, nozione un tempo fortemente attiva, e percepita quale simbolo quasi aggressivo di identità proclamata, la calabresità è ora divenuta strumento meramente difensivo, di autoconservazione. Se la Calabria è poco più che una realtà politico-amministrativa per chi vi risiede, essa diviene, invece, un indispensabile grumo di sentimenti e di risentimenti per chi ne sta lontano: e allora le brumose atmosfere del Nord sembra­no non offrire all'occhio i torrenti di luce e di colori della Calabria lonta­na, e i cibi non sono più gli stessi, e il vestire, l'operare, il pensare, così scopertamente diversi, fanno riandare con l'anima alla dimensione per­duta: la Calabria non è mai così prepotentemente se stessa come nel pensiero di chi l'ha lasciata.
Chiamato a misurarsi con altre identità, e a identificarsi con il nuovo ambiente di lavoro, il calabrese della diaspora deve, per sopravvivere, accettare la lacerazione, tra ciò che egli non può più essere e ciò che egli non è ancora, calabrese di sempre e italiano (o europeo) di oggi. È in que­sto momento delicatissimo, di transizione, che il calabrese sente di ri­schiare lo smarrimento della sua identità, e ad essa si afferra con la cor­posità dei simboli, della memoria, del linguaggio, delle credenze. Nella coralità calda dei gruppi, o nel vagheggiamento culto della riflessione isolata, l'essere calabrese diviene un mito da non perdere, da dichiarare, da proclamare: che sia fatta di tenere memorie familiari o che sia il pro­dotto stratificato dell'immaginario, la Calabria è soprattutto nell'animo di chi se n'è andato. Concetto o pseudoconcetto, astrazione o ipostasi, quella Calabria in idea ha, ancora una volta (almeno fino ad oggi), una sua funzione.
Poi, lentamente, il processo di assimilazione al nuovo ambiente si fa più lineare ed evidente; e va sempre meglio interiorizzandosi quella ca­labresità, che, come punto dolente e momento difensivo, doveva essere, agl'inizi, quotidianamente riconquistata attraverso segni, riti, parole; e il buon calabrese, finalmente, «s'inserisce», senza con ciò dimenticare d'essere — o, più malinconicamente, d'essere stato — calabrese. La Cala­bria, alla fine, si consolida come immaginario collettivo, ma senza lace­razioni drammatiche con l'attualità.
Certo, la nostalgia resta. E tuttavia, non sempre, poi, quell'idea di Calabria — il calore degli affetti, l'orgoglio della tradizione — regge al confronto con la Calabria reale: l'emigrato che temporaneamente ritorna porta ora, dentro di sé, una calabresità di tipo nuovo, interiorizzata certamente, ma colorata di un odi et amo imprevedibile: la sua vecchia patria gli si presenta con difetti non immaginati. Forse è la consolazione, di cui si ha bisogno, per poter credere d'avere scelto bene allorché si è scelta la strada dell'emigrazione; forse è la costatazione che, fuori della Calabria, i processi dì modernizzazione sono più radicati e più effettuali; forse è la considerazione amara che, in Calabria, il clientelismo terziarizzante ha spesso agevolato l'espulsione degli elementi migliori, garantendosi l'acquiescente consenso dei meno dotati e gestendo una vita politica ridotta in ambiti angusti. È certo, comunque, che, nella coscienza di quegli stessi calabresi che di più hanno amato la loro terra, la stessa nostalgia diventa conflittuale; dì questo fatto, comunemente avvertito, esistono cause ben precise e le responsabilità sono ormai ben individuate. Il problema, come sempre, è politico.



[1] Ha osservato Luigi Maria Lombardi Satriani: «Sulla Calabria si sono addensati nel corso dei secoli una serie di pregiudizi che, pur diversamente articolati, convergono nel sottolinearne l'arcai­cità e il carattere selvaggio: sono immagini esterne, che utilizzano la Calabria come polo dialettico, per riconfermare la superiorità del proprio mondo culturale. La Calabria costituisce quindi la zona oscura della coscienza civile europea e, in quanto tale, deve essere continuamente percorsa e negata» (L. M. Lombardi Satriani e M. Meligrana, Un villaggio nella memora, Roma - Reggio Calabria 1983, p. 5). Si può anche obiettare che non sempre il giudizio del forestiero (dello straniero, so­prattutto) è stato, in sé, negativo; ma sulla funzione dialettica della Calabria, in contrapposizione alla modernità volta per volta attuale nei diversi contesti culturali, sì deve essere d'accordo.

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