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martedì 18 febbraio 2014

§ 057 180214 Antonio Piromalli, Prefazione a 'La letteratura calabrese'.

   In questo post, la Prefazione a ‘La letteratura calabrese’ (2a edizione, Guida, Napoli 1977), di Antonio Piromalli (Maropati 1920- Polistena 2003), un breve saggio, che vorrei definire un gioiellino, un concentrato di conoscenze storiche, culturali, letterarie della Calabria e dei calabresi; sono parole sulle quali riflettere, parole per capire, di un uomo profondamente colto, sono parole che riassumono l’essenza del mancato sviluppo, della formazione negata di una anima o di una maniera di sentire che potesse unire una intera popolazione, per 'regionale' che fosse, parole che mirano a segnalare le radici del sottosviluppo di una regione il cui destino è stato scientificamente segnato dai gruppi di potere, nazionali e locali.  
E’ difficile essere calabresi, almeno quanto è attraente, e comodo, cercare di non esserlo. Si rimane quello che si è nati, ovunque, certamente in misura variabile, ma in proporzioni e misure, a volte, nemmeno immaginate.
Chiedo solo, a qualche eventuale, sporadico lettore, o passante per così dire, di leggere le parole che seguono con un minimo di attenzione… ne trarrà beneficio, conforto alle proprie idee,  ai propri pensieri.
Per quanto mi riguarda ho comprato con gioia enorme questo libro il 17 marzo 1978, a Crotone, quando ero studente, non so nemmeno come, non avendo una lira in tasca, ma del resto, forse nelle tasche avevo troppi sogni, e non mi rimaneva posto per nient’altro…Lo leggo ora, o forse lo rileggo.

PREFAZIONE
Questa letteratura calabrese è una storia della cultura e non delle sole forme letterarie; pertanto essa si unisce alla storia delle idee, alla storia civile e politica e dei gruppi intellettuali. La let­teratura conferma la sua specificità nel confronto con tempi, luoghi, persone, geografia, storia in una regione che per il pas­sato è stata scarsamente regione e sempre non solo geografi­camente gruppo di subregioni, di isole partimentate, auto­nome, diasporiche (proiettate verso Napoli, Roma, Palermo, Mi­lano, Torino, le Americhe, l'Australia, l'Europa transalpina) ma non comunicanti tra di esse; popolazioni e individui costretti alla fuga hanno dovuto frantumare la possibilità di unità regio­nale, di coagulazione, hanno dovuto sostenere come conseguenza la debolezza del potenziale produttivo, devalorizzare il proprio lavoro bracciantile, operaio, intellettuale che è stato sempre pagato a bassa quotazione; non hanno potuto creare strutture ur­bane di livello elevato; le economie subregionali non si sono inte­grate ed è mancata la loro connessione in un tessuto moderno, civile, della regione: ogni villaggio calabrese è stato per secoli un mondo a sé, per incomunicabilità fisica col resto del mondo. Anche, perciò, lo spirito pubblico dal quale si formano i gruppi intellettuali non si è venuto formando e le stesse masse di contadini sono state costrette per secoli all'integrazione in un blocco agrario mantenuto compatto anche da intellettuali dirigenti fedeli al ruolo storico di difensori degli interessi, delle concezioni delle classi dominanti. Anche quando l'intellettuale dirigente in­travede la realtà dopo secoli di platonismi, idealismi, nomi­nalismi la tiene appesa al gancio della metafisica; quando scopre che le riforme sono necessarie le demanda alla superiore concezione di vita dell'aristocrazia perché il popolo ha bisogno di essere educato; la letteratura, quindi, non può passare, per noi, sopra i grandi problemi economici, agricoli, demografici, politici, della Calabria, non può non risentire della mancanza dei centri di aggregazione culturale; mirabile, piuttosto, è la formazione di gruppi intellettuali, in tali condizioni, ad Aprigliano, a Cosenza, ad Acri ecc. Anche in Calabria i nuovi gruppi di intellettuali (scrittori dialettali, filosofi, illuministi, patrioti ecc.) si sono tro­vati contro altri intellettuali religiosi o laici che ritenevano di rappresentare la continuità storica o di avere una funzione auto­noma e superiore. In queste pagine siamo venuti indicando le illusioni ideologiche degli intellettuali che non si riconoscevano, non avendo preso coscienza del loro stato, come espressione ri­flessa dell'egemonia economico-politica esercitata dai ceti domi­nanti o, in certe occasioni, quali commessi dei gruppi dominanti, deputati a svolgere le funzioni subalterne dell'egemonia sociale. Né la nostra è la storia di una calabresità la quale, in ultima analisi, sarebbe una categoria privilegiante gli eroi piuttosto che una storia letteraria che reca con sé i conflitti di classe, gli scontri ideologici e socio-politici. La storia letteraria ha le sue radici nella realtà popolare della Calabria, nei valori civili e culturali che pro­vengono dal popolo. Nella disgregata storia e geografia umana dei villaggi montani calabresi il medioevo fu lunghissimo. Ti­rannie senza splendori, senza umanesimo furono quelle dei baroni e dei reguli locali o napoletani in Calabria a cui si aggiunse una feroce Inquisizione. Chi legga la cronaca di Pietro Antonio Fru­gale, canonico della cattedrale di Cosenza, vede nelle esecuzioni cosentine dei primi anni del Seicento la continuazione delle stragi dei Valdesi di quarantanni prima. Nella cronaca si vede quanto operassero in Cosenza la rota, la tinaglia, la forca per motivi re­ligiosi contro presunti eretici e magare che prima venivano stra­scinati e frustati in pubblico. Spagna e chiesa cattolica tormen­tarono e giustiziarono nella piccola città centinaia di persone, molti per sfuggire alla forca si diedero al banditismo armato. [«A 9 agosto 1603, per ordine dell'Eccellentissimo D. Lelio Or­sini si giustiziarono ventuno homini, tra i quali uno fu tenagliato, quattro alla rota, dieci furono strascinati ed il resto afforcati (...). A 23 agosto furono giustiziati 13, di cui otto alla rota e cinque afforcati, ma tutti furono strascinati (...). A 24 detto (settembre) molti carcerati, per la morte dell'Orsini, avevano fatto molti luminari la sera ad ore tre di notte; ne furono sei martirizzati alla corda e tirati dalli stessi servi di Orsini, con mille altri tormenti d'empietà e più di 25 sono al trapasso »].
In questa nuova edizione abbiamo cercato di collegare la cul­tura letteraria con le altre manifestazioni della regione, delle altre regioni e con la società. Abbiamo mirato a mettere in luce lo stato degli intellettuali in rapporto con le altre categorie e classi, a spiegare i fenomeni ricorrenti della diaspora, a individuare gli aspetti specifici della cultura. L'intellettuale calabrese ha le sue radici nel mondo contadino oppresso; quando ha coscienza delle proprie origini si adopera per spiegare anche culturalmente i rap­porti sociali ed elabora originalmente il proprio pensiero, crea mondi artistici in cui è il riflesso di ribellioni e di aspirazioni umane. Per questa impostazione ci è sembrato di dovere dare una nervatura più continua alla polemica contro l'aristotelismo com­piuta da letterati e scienziati che si sentivano nuovi, moderni, contro i sistemi culturali che giustificavano autoritarismi e ti­rannie; quegli intellettuali erano attratti dalla ragione, da Cartesio, dai lumi. La poesia in latino comincia a perdere qualcosa del suo splendore antologico o lirico nella tensione di oggi verso il concreto e l'autentico; la sua funzione raramente è critica. Cri­tica è la letteratura dialettale, quasi sempre animata da una ten­sione verso la verità; nel dialetto è il desiderio di conoscere, spe­rimentare, confermare, di diversificarsi dalle forme ufficiali, è la proiezione di aspirazioni comuni, di moti repressi, di sogni proi­biti, è la satira della tradizione, dell'autoritarismo. Il solo Cam­panella poteva esprimere in lingua, con alto tono drammatico, le stesse cose: altri, molti altri, usavano in lingua pensieri altrui e forme obsolete.
Abbiamo mantenuto, in questa revisione dell'opera, l'impo­stazione critica che era stata per il Galati la nota distintiva del nostro lavoro, unita alla necessità di adeguare il giudizio al livello della storiografia letteraria nazionale più moderna. Ricostruzioni più complete potranno essere fatte con gli studi particolari ma la nostra ambizione era quella di togliere «dall'incertezza critica ciò che si chiama letteratura calabrese» e indicare «altri tenitori del pensiero e, in genere, della cultura calabra, come la scienza, il diritto, la filosofia» (Vito G. Galati, Prefazione alla prima edi­zione) . Oltre ad avere tenuto conto di proposte e suggerimenti di studiosi e amici abbiamo avuto la possibilità di verificare in questi ultimi cinque anni in dibattiti, corsi, seminari, tesi di laurea, i problemi della cultura calabrese in rapporto alla società e in tal modo confrontato e rettificato prospettive anche in rela­zione allo sviluppo di nuove discipline e nuovi metodi.
Roma, dicembre 1975 
Fin qui Piromalli...

  Devo alla cortesia di Giovanna Barca, Parma, il testo che aggiungo, meritevolissimo di riflessioni:

Da “La Calabria” libro sussidiario per la cultura regionale e le nozioni varie di Ettore Gliozzi, Società Editrice Internazionale, 1924.


Rimproveri meritati.

Al popolo calabrese si riconoscono tante virtù, ma nello stesso tempo si rimproverano l’analfabetismo, la superstizione, la testardaggine, la mancanza di spirito d’iniziativa, il facile entusiasmo e il più facile scoramento. Sono rimproveri meritati. Bisogna liberarsi da questi mancamenti, bisogna aver fede nelle proprie forze e associare tutte le energie, con volontà ferma e tenace, per il bene commune. La vittoria è di chi vuole e sa affrontare con coraggio le lotte della vita.
La vergogna dell’analfabetismo è grande, è umiliante per la nostra Calabria. Se tutti i calabresi asseconderanno l’opera del Governo e quello della benemerita Associazione nazionale per gl’interessi del Mezzogiorno d’Italia, questo marchio d’inferiorità sarà presto cancellato per sempre.
Lo spirito d’iniziativa manca veramente. I calabresi non hanno ancora smesso la triste abitudine, ereditata dai governi dispotici, di attendere ogni cosa dallo Stato. Certamente, nelle pubbliche necessità, che son molte e gravi, lo Stato interviene, deve intervenire. Ma se i calabresi si persuaderanno che lo Stato non può provvedere a tutto, non può sopperire a tutto, allora non mancherà la cooperazione commune, lo sforzo associato di tutti i buoni, di tutti quelli che amano la nostra terra, per farla risorgere a nuova vita, per farla tornare all’antica grandezza.

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