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martedì 25 febbraio 2014

§ 062 250214 Plinio, Isole omeriche davanti a Capo Lacinio.



Quello seguente è il passo della ‘Storia Naturale’ di Plinio il Vecchio, in cui si tratta delle isole della Crotoniatide. L’autore di quella ‘enciclopedia’ che è la ‘Storia Naturale’ non è che fosse proprio un vecchio bacucco incartapecorito… su quei 37 libri di cui l’opera consta, tanti scienziati e studenti si sono ingobbiti e scervellati nel tempo, quindi…Lo stralcio è ricavato dalla Edizione Einaudi1982, diretta da Gian Biagio Conte, libroIII, Europa I, pag. 432-433. Ho modificato la numerazione delle note.

95.96.97 (15) Da Locri ha inizio la base meridionale dell'Italia, chiamata Magna Grecia; essa si ritrae a formare tre golfi nel mare detto Au­sonio, perché per primi ne furono padroni gli Ausoni. La base del­l'Italia, secondo Varrone[1], si estende per 86 miglia, mentre la mag­gior parte degli autori crede che essa misuri 75 miglia. Lungo la sua costa sono moltissimi fiumi, ma degno di menzione, a partire da Locri, è il Sagra; seguono i resti della città di Caulonia, Mustie, Castro Consilino e il Cocinto, che alcuni ritengono il promontorio più lungo d'Italia[2]. Poi il golfo e la città di Squillace, detta Scilaceo e Scillezio dagli Ateniesi quando la fondarono; in corrispondenza di questo luogo si trova, dall'altro lato del Bruzio, il golfo Terineo; si forma così una penisola, e sull'istmo è il porto chiamato Castra Hannibalis. In nessun punto l'Italia è più stretta la larghezza è di 40 miglia —; per questo motivo Dionisio il Grande[3] voleva aggiungere alla Sicilia la penisola di cui ho parlato, tagliandola all'altezza dell'istmo. I fiumi navigabili in questa zona sono il Carcino, il Cro­talo, il Simeri, l’Aroga, il Tacina; all'interno è la città di Petelia, e il monte Clibano; segue capo Lacinio[4], davanti al cui litorale, 10 miglia al largo, sono l'isola dei Dioscuri e l'altra, di Calipso (quel­la, si pensa, che Omero[5] chiamò Ogigia); e inoltre Tiri, Eranusa e Meloessa. Secondo Agrippa[6], capo Lacinio dista 70 miglia da Caulonia.
   Da capo Lacinio ha inizio il secondo golfo dell'Europa, che de­scrive un ampio arco ed è delimitato dagli Acrocerauni nell'Epiro, che distano 75 miglia da capo Lacinio. Cominciando a risalire questo golfo si incontrano la città di Crotone, il fiume Neto, la città di Turii, posta tra i due fiumi Crati e Sibari; presso il Sibari sorgeva la città omonima….


(15) A Locris Italiae frons incipit, Magna Graecia appellata, in tris sinus recedens Ausonii maris, quoniam Ausones tenuere primi, Patet LXXXVI (miglia), ut auctor est Varro; plerique LXXV (miglia) fecere. In ea ora flumina innumera, sed memoratu digna a Locris Sagra et vestigia oppidi Caulonis, Mustiae, Consilinum castrum, Cocynthum, quod esse longissimum Italiae promunturium aliqui existimant. Dein sinus et oppidum Scolacium, Scylaceum et Scylletium Atheniensibus, cum conderent, dictum, quem locum occurrens Terinaeus, sinus paeninsulam efficit, et in ea portus qui vocatur Castra Hannibalis, nusquam angustiore Italia: XL p. latitudo est; itaque Dionysius maior intercisam eo loco adicere Siciliae voluit. Amnes ibi navigabiles Carcinus, Crotalus, Semirus, Arogas, Thagines, oppidum intus Petelia, mons Clibanus, promunturium Lacinium, cuius ante oram insula x a terra Dioscoron, altera Calypsus, quam Ogygiam appellasse Homerus existimatur, praeterea Tyris, Eranusa, Meloessa. Ipsum a Caulone abesse LXX (miglia) prodit Agrippa.
   A Lacinio promunturio secundus Europae sinus incipit, magno ambitu flexus et Acroceraunio Epiri finitus promunturio, a quo abest LXXV (miglia). Oppidum Croto, amnis Neaethus, oppidum Thuri inter duos amnes Crathim et Sybarim, ubi fuit urbs eodem nomine.


[1] Ancora una volta Varrone è citato come fonte per le misurazioni.

[2] In realtà punta Stilo - l'antico promontorio Cocinto - non ha affatto grandi dimen­sioni.

[3] Si tratta del celebre tiranno di Siracusa {432-367 a. C.).

[4] Tuttora, sul capo Colonna, si possono vedere i ruderi del tempio di Era Lacinia, il cui nome ricorda quello antico - Lacinio — portato da capo Colonna.

[5]Cfr. Odissea VII 244; gli antichi erano molto incerti sull'ubicazione dell'isola di   Ogigia..

[6] Fr. 10 Riese; cfr. par. 8, nota 1.

lunedì 24 febbraio 2014

§ 061 240214 Luigi Siciliani, Capo Crimisa, modificato.

   Le opere di Luigi Siciliani si possono consultare e legalmente scaricare dal sito, tra gli altri, dell'Università del Connecticut: https://archive.org/details/uconn_libraries ; basta inserire 'siciliani' come parola chiave nel riquadro 'search', in alto a sinistra e poi scegliere dalle voci che appaiono quelle che interessano; le opere si possono scaricare, tra l'altro, in vari formati, nel senso di tipo di file (mi sono dilungato poiché so di una persona cara che fa a pugni col pc...).
   Non voglio dire che l'opera di Siciliani sia di imprescindibile importanza, assolutamente no, ma ritengo che abbia un suo valore non trascurabile, che non sfigura nel confronto con tantissimi altri autori 'minori' della letteratura italiana. Tra l'altro la sua opera di traduttore non è assolutamente 'minore'...

   Lo sguardo profondo di Luigi Siciliani, dalla posizione dominante che al monumento al poeta è stata destinata nella piazza di Cirò, sembra scrutare lo Ionio quasi nell’attesa dell’arrivo degli Elleni colonizzatori e portatori di arti le più varie, pensiero il più profondo, e commerci i più vari.  
   Luigi Siciliani nacque a Cirò nel 1881 e morì nel 1925. Fu deputato e soprattutto grande latinista e traduttore di classici greci, poeta, saggista e anche autore di un romanzo, ‘Giovanni Fràncica’: a lui si deve la rivitalizzazione dei poeti erotici dell’antologia palatina.
   Sto scrivendo a memoria, in quanto non voglio con questo post scrivere la biografia di Luigi Siciliani, ma solo rileggere ‘Capo Crimisa’ ed esprimere qualche considerazione senza pretese.
   Uno degli aspetti più interessanti di internet, della rete,  è, per me come per tanti altri, poter reperire, con pochi clic, testi quasi introvabili, come le opere di Luigi Siciliani - peraltro in edizione originale - direttamente dagli archivi,  o da una biblioteca, spesso, come in questo caso, d’oltreoceano … i testi ai quali sto attingendo arrivano dall’università del Connecticut!
   ‘Capo Crimisa’ apparve nel 1906 nella raccolta ‘Sogni pagani’  (1899-1905), per i tipi di W. Modes, Roma, quindi ben prima della scoperta del santuario di Apollo Aleo e dei resti della sacra Krimisa (maggio 1924), dovuta all’opera del soprintendente Paolo Orsi, fortemente stimolato ed indirizzato, con caparbietà, dal Siciliani che era fermamente convinto di potersi individuare quel sito nei pressi di  Punta Alice, anche sulla scorta delle affermazioni di autori precedenti, in primis G. F. Pugliese. L’Orsi ebbe a dichiarare, senza tanti giri di parole,  che mai avrebbe immaginato che la misteriosa Krimisa potesse essere stata edificata in una palude mefitica e in posizione bassa, quindi poco visibile ai naviganti che vi si recavano in pellegrinaggio, per così dire, al santuario di Apollo Aleo.

In questo canto il Siciliani ripercorre anche la storia di Cirò e di quel borgo che si andava formando lungo il litorale, e che un giorno sarebbe diventato Cirò Marina (‘Sorto non sono cent’anni è un piccolo borgo sul mare’); le terre sono ‘piccole’ in quanto piccola è l’estensione, come Siciliani spiega nelle note, sulla quale sembra siano convissute due città, Krimisa e Chone, che l’autore colloca nella località ancora oggi detta ‘Brisi’, da Bacco Briseo.
Il poeta, seduto a poppa di una barca (nu vuzzareddu, chissà…) si fa portare, da due rematori, a visitare il Capo Crimisa, e descrive questa sua escursione nella poesia e nel mito, con toni classicheggianti e dal taglio talvolta d’annunziano, come è evidente in alcuni passaggi. Il Siciliani è mosso dal desiderio di scoprire qualche vestigio della colonia magno greca, e parla a quel capo, a quel tempio, a quella città, a quei greci, che abitano i suoi sogni, i pensieri, le istanze.
I versi di ‘Capo Crimisa’ sono più sentiti di quanto si possa credere, ed esulano dagli schemi del poeta -letterato (fine letterato, peraltro).
Esempio di questa tensione siano  i versi, di assoluto valore, che recitano: 
‘Hera ed Apollo non sono signori di templi sui flutti.
Dileguarono insieme per sempre gli umani e gli iddii.
Cupo squallore, miseria profonda ci aduggia da allora!
Noi che chiamati fummo greci, ma greci più grandi,
noi, ora siamo negletti in solitario abbandono.’
Ritengo si tratti di cinque versi che riassumono l’antico splendore della Megale Hellas e l’attuale rovina di quegli stessi territori…
Pur essendo evidenti nel testo figure retoriche e metriche che il Siciliani padroneggiava senza il minimo sforzo, lo spunto lirico, la partecipazione, l’afflato, sono insopprimibili: valga in assoluto la chiusa, quando il poeta si rivolge direttamente al tempio di Apollo, invocandone l’apparizione – non del dio, ma del tempio - su quel lido puro, ‘or ch’è colcato il tuo dio / dietro i monti, nel tempio’, ora, quindi, che il poeta ha visto il lume di quel dio e si dichiara degno di entrarvi…
 
                  CAPO CRIMISA
Sorto non sono cento anni è un piccolo borgo sul mare,
tra le piccole terre antiche di Crimisa e Chone.
Crescon su Chone i vigneti dai grappoli cupo granato,
padri del forte vino soave odorante di Brisi;
presso Crimisa l'onda ricama le labili spume,
sopra, la terra s'immelma in lutulenti pantani.
Ora dal piccolo borgo moviamo su fragile barca
due rematori abbronzati dagli agili corpi d'efebi,
io seduto alla poppa, pensando i travagli d’UIisse.
«Sopra la tolda l’eroe dormiva; gl'industri Feaci
lui riportavano stanco dal salso vagare sui flutti».

È sereno il mare, il mio bel Jonio azzurrino,
sola patria verace degli antichissimi Elleni:
erano i loro templi, le loro città lussurianti
lungo le coste sonanti l'eterna parola dei flutti.
Ecco già il borgo lontano, impiccolito sul lido.
Tra nereggianti scogliere, dove si ammassan gli echini,
lentamente s’avanza la fragile barca: più grande
ad ogni colpo di braccia il faro rotondo diventa.


Ora giungiamo all’approdo. Con gli ultimi colpi veementi
dentro la rena s’infìgge la barca. Balziamo sul lido.
Avido cerco con gli occhi d'intorno se pure un vestigio
fosse rimasto del tempio splendente d'Apolline Aleo.
Nulla. Lontano si scorge velato di nebbia il Lacinio.
Hera ed Apollo non sono signori di templi sui flutti.
Dileguarono insieme per sempre gli umani e gli iddii.
Cupo squallore, miseria profonda ci aduggia da allora!
Noi che chiamati fummo greci, ma greci più grandi,
noi, ora siamo negletti in solitario abbandono.
Densa la tenebra grava dove splendette la luce
ch’arde pel mondo, che accende dovunque fiaccole nuove;
ma scorre lungi più sempre dal suo focolare nativo.
Ricca d’armenti è la terra, ferace di grani, di viti
e dì cinerei ulivi fuggenti dai monti sul piano.
Fischiano al vento le forre donde zampillan le fonti.
Agita il faggio, il pino, l'abete, il castagno le fronde:
s'alzano i tronchi grandi di centenaria potenza.
Forti son gli uomini, saldi, acuti di mente, tenaci;
ma per il piano li sbianca la trista malarica febbre,
per le montagne li preme la necessità della vita,
ed i lor occhi non sanno la grande bellezza passata.

Sembra diffuso di sangue il cielo dintorno al tramonto.


Alto sui colli vicino un altro borgo compare:
i fondatori suoi primi, fuggendo gli avari pirati,
disertarono il piano, si ricovrarono ai colli.
Ma i lor padri antichi movevano in lunga teoria,
doni portando ad Apollo nel tempio recinto dai flutti.

Ecco che l'anima antica, l'anima della mia stirpe
oggi risento nuova dalle mie labbra spirare;
ecco l’oblio dilegua del tempo passato, risorge
tutta la Grecia vivente dentro i miei occhi stupiti.
Vengon pe’l Jonio l’ombre su cui non ha presa la morte:
han scoverchiato le tombe, e scosso l'incerto lor sonno.
Mai non dormiranno l'eterno sonno queste ombre,
fin che sui campì il sole risplenda all'umano lavoro,
fin che maturin le messi e pendano l'uve dai tralci.
Grecia, grande tu sei, qual mare mutevole e bella:
nulla per l'uomo è più dolce quanto di te nutricarsi.
Ogni gloria si onora, se è comparata alla tua;
d’ogni grandezza il fiore cogliesti fragrante e perfetto;
e la corona di tutti i canti cantati tu porti.
L'oscurità dei fati sull'acqua fluttuante dei tempi
guarda a te come un faro raggiante, a una fulgida aurora.
E tornerai sorridente; l'impero del mondo tu avrai,
con i tuoi occhi sereni ove ride una luce azzurrina,
pura, quale ebbe Athena armata del senno e dell'asta.

Tempo verrà che la vita si pieghi all'antica sua fonte,
e che ritorni l'uomo a ber la desiata frescura,
e che rinfranchi l'arso corpo dal lungo cammino.
Una terribile sete nei secoli l'ha divorato;
bere di libertà egli or vuole all'antica sorgente,
si ch’egli senta il suo sangue battergli sano nei polsi.
Ogni favola oscura onde la mente fu oppressa,
ogni timore vano d’imperscrutabili iddii,
ogni crudele brama di sottometter l'eguale
lungi si sgombrerà dall'anima fatta raggiante,
sola, bastevole a sé ne la plenitudine sua.
Quando sorvenga la morte, egli l’accolga sereno,
torni confuso nel nulla ond'ebbe principio la vita,
e la tristezza sia vinta dall'ultimo grande trapasso.
Noi saremo sapienti allora, ma tutto l'amaro
della sapienza nostra in dolce sarà tramutato.
Gli occhi rimireranno sereni la favola breve,
dove il sorriso traluce così raramente nel pianto.

Trionfatrice sarai per l'ultima volta e per sempre,
Grecia, mia patria, signora dell’ala fugace del tempo,
madre in ispirito e fede degli uomini liberi tutti,
cuore del mondo, pulsante eterno come il tuo mare,
che ti recinge tutta del fresco suo alito salso.

Tempio d’Apollo, disegna le forme tue pure sul lido,
leva le belle colonne e l’istoriate metòpe!
Degno son d’entrare, or ch’è colcato il tuo dio
dietro i monti, nel tempio, e dirgli ch’io vidi il suo lume.

§ 060 240214 Isole Sirenuse, sèguito di Isole Omeriche al largo di Capo Alecino.



Tyris, Eranusa, Meloessa, Ogygya, Dioscoron... le nostre isole!!!
   Nel riprendere le riflessioni sulle fantomatiche, misteriose, o semplicemente sommerse, isole nel mare del territorio crotoniade, mi domando come mai i risultati della missione ‘sottomarina’ della Soprintendenza si siano ammantati di mistero, forse inabissandosi in qualche file di ‘difficile apertura’, secondo la definizione della Soprintendente stessa.
   Ad ogni modo speriamo che l’annunciato convegno ‘sulle isole’ fornisca dati e lumi.
   Per quanto riguarda le scoperte ‘su carte’, ogni studioso, o semplice appassionato, sa bene come la geografia e la cartografia siano state a lungo discipline più letterarie che non precipuamente scientifiche, per mancanza di mezzi di indagine e non certo per mancanza di intelligenza: anche la geografia, come tutte le altre discipline, ha seguito e segue un suo lento e faticoso avanzamento, e le carte antiche sono poco o per nulla attendibili, pur mantenendo intatta la loro importanza testimoniale e documentale, anche attraverso particolari a prima vista trascurabili.
   Le isole, o scogli, di Ogigia e quelle dei Dioscuri potrebbero anche non essere esistite, certo… Premesso che l’importante è che siano esistite nell’Odissea e quindi nel mito e in quel mare profondo che sono l’anima e la fantasia umana, le suddette isole sono segnalate nelle opere a carattere geografico, e anche nelle carte che le descrivevano. Per avere una carta davvero attendibile dell’Italia meridionale bisognò attendere quella del Magini, inizi ‘600, di taglio moderno e precisa nell’impostazione, nella quale le presunte isole non appaiono più. Il fatto che quelle isole non vi compaiano significa semplicemente che all’epoca della realizzazione di quella carta non esistevano più, magari come tante altre isole o scogli soggetti a ‘subsidenza’… avviene tutt’oggi, e avvenne non molto tempo fa, come per l’Isola Ferdinandea, affiorata nel 1831 e scomparsa l’anno successivo.
  E veniamo a queste benedette isole e a colui che con precisione ne tratta, ovvero l’Abate Domenico Romanelli (1756-1819), prefetto della Biblioteca della Croce e della Biblioteca dei Ministeri, autore della ‘Antica topografia del Regno di Napoli’, Napoli, Stamperia Reale, 1815.
   Nella breve dedica introduttiva, ‘Agli amatori della storia e della geografia antica’, l’abate abruzzese spiega benissimo quali e quante difficoltà abbia dovuto affrontare per dare alla luce un tipo di opera – una antica topografia – alla quale persino Cicerone, richiesto di realizzare qualcosa di simile, aveva dovuto riuniciare ‘justa causa’. Il Romanelli non manca di sottolineare la poca attendibilità delle misure delle ‘tavole itinerarie’ e le altre varie insidie contenute nella ‘letteratura geografica’.
   Per maggiore intelligenza, eccone uno stralcio:
   ‘Altre carte appartenenti a questo Regno ci furono date dal Cluverio, dal Cellario, dal Brezio, dal Merula, e da qualche altro, e l’Ortelio riportò anche una carta, che si attribuisce a Pirro Ligorio. Noi non vogliamo fare i censori di queste carte: ma ci contentiam solamente di dire, che i luoghi in esse marcati non corrispondono affatto alla topografia, che n’assegnarono o i geografi, o gli storici, o gl’itinerarj antichi. Invano vi si cercano le vere misure, e le distanze, che sono necessarie in geografia, le strade consolari, i porti, ed i veri siti delle antiche città, e di altri luoghi. Quai lumi dunque può ritrarre la geografia da queste carte?’ Credo che più chiaro di così…
   E veniamo al paragrafo del Romanelli che ci interessa più da presso, dal titolo ‘Dioscorum et Calipsus Insulae’:
   Prima di toccarsi il Lacinio (Capo Colonna, ndr) Plinio descrisse tre isolette, che al suo tempo sporgevano ancora fuori delle onde. Egli l’appellò Tyris, Eranusa, Meloessa. Ne’ codici mss. (manoscritti, ndr) però si legge altrimenti, e specialmente in un esemplare Vaticano osservato dal Quattromani, in cui si ha Syris Seranus, Eranusa et Tyris Eranus, voci certamente da’ copisti depravate. Lo scoliaste di Licrofrone appellò queste tre isolette da' nomi delle Sirene, cioè Pisinoe, Aglaope, e Thelxiepia… Anche ne’ codici antichi di Plinio, e nelle più vetuste edizioni di questo geografo, e specialmente in quelle di Venezia per B. Benalium 1497, e di Manuzio 1559, si attribuisce a questi scogli il nome di Sirenusae. Questa istessa lezione fu adottata da Ermolao Barbaro nelle note a Plinio. In altre edizioni posteriori il nome di Sirenusae  fu tralasciato, e venne approvato dall’Arduino, senzachè ne avesse prodotta alcuna ragione. Oltre di questi tre scogli sorgeva dappresso l'isoletta de' Dioscori, che Plinio appellò Dioscoron per dieci miglia dal lido lontana, ed un’altra detta Calypsus, che Omero, secondo lo stesso geografo, appellò col nome di Ogygia. Di questa medesima isola troviamo memoria presso Scilace nella sua descrizione topo­grafica di tutti questi lidi: Locri, Caulonia, Croton, Lacinium, Iunonis templum, Calypsonis insula, in qua Ulysses habitabat apud Calypso.
I mitologi però non son d’accordo nel riconoscere il vero sito di questa isoletta, dove Calipso ricevè Ulisse, dopo i lunghi sof­ferti naufragj, e dove seco lei per sette anni si trattenne. Strabone non convenne certamente con Plinio, perché ripose l’isola dell’Ogygia Omerica nell’Oceano. A non pochi è piaciuto di vederla nell’isola di Malta (Gozo, una delle isole maltesi, ndr), o presso le coste di Egitto, e nell’isola Atlanta, o Atalanta nell’Euripo Euboico, oggi golfo di Negroponte. Da Omero istesso, che descrisse ben a lungo questo soggiorno di Ulisse, non può ritrarsi affatto la di lei topografica situazione: Tuttavia il Cluverio ha mostrato con buone ragio­ni, che di quest'isola, e non di altra, dovè parlare l'epico gre­co. La quistione però non si versa, che intorno al nome. A noi basta di risapere solamente l'antica esistenza di queste isolette non lungi dal promontorio Lacinio , che oggi son dalle acque interamente ricoperte.’
   Ricapitolando, spero di aver fornito qualche ragguaglio utile su questi scogli che saranno esistiti al largo di Capo Lacinio, almeno fino ai tempi di Plinio, di fronte ai tre Promontori Japigi, dei quali evito di parlare perché non vorrei impelagarmi – mi sembra il caso di dirlo – oltre.

venerdì 21 febbraio 2014

§ 059 210214 Roberto Spadea, Cirò.



  


   Le pagine che seguono sono tratte dal saggio ‘’Archeologia e percezione dell'antico’’, di Roberto Spadea, da ‘La Calabria’, volume facente parte della ‘Storia d’Italia, Le regioni’, Einaudi 1985, pagg. 679-683.
   Emerge, insieme alla figura grandiosa di Paolo Orsi quale archeologo, il suo carattere, che si potrebbe definire, magari semplicisticamente, capriccioso, testardo, o malfidente verso personaggi non del mestiere. Fortunatamente egli ebbe a che fare con teste più dure della sua (… e volevo vedere!) Forse l’Orsi avrebbe risparmiato del tempo prezioso, se avesse dato retta alle memorie di cui si parla nel testo, cioè quelle di Giovan Francesco Pugliese, le cui cronache, come ho già sottolineato in altri post, furono stigmatizzate, evidentemente a torto, dall’archeologo trentino, e senza arrivare a costringere il poeta e deputato Luigi Siciliani (… noi che chiamati fummo greci, ma greci più grandi – vado a memoria, non seguitemi se sbaglio), a ricorrere all’uso di mezzi più convincenti, in giusta misura ‘minacciosi’, viste le resistenze dell’Orsi… un potere usato, oserei dire, a fin di bene, i cui risultati si sono visti, stante la scoperta del santuario (di quello si tratta, infine) di Apollo Aleo.
Rimane l’atteggiamento un po’ supponente di Paolo Orsi, come sembra evincersi dalle cronache… ma insomma, quest’anno ricorrono i novant’anni dalla scoperta, qualcuno se ne ricorderà?
Ma poi ricordare cosa? La parte migliore, quella eroica, di piccoli uomini che immagino dalla pelle olivastra, immersi nel fango fino alla cintola, a cercare ‘cose’ delle quali forse non potevano cogliere la portata storica ma solo il controvalore in pane per le proprie famiglie, agli ordini di un signore con cappello dalle falde larghe e con le tasche gonfie di lapis e taccuini? Oppure ricordare che su quel sacro suolo di Krimisa lo stato italiano è riuscito ad insediare proprio lì (n’avìvinu largu!) uno stabilimento industriale, cancellando qualsiasi possibilità di ulteriori rinvenimenti?
   Ed ora facciamo parlare Roberto Spadea.
                                        Cirò.
Il 5 marzo del 1924 da Siracusa Paolo Orsi telegrafava a Zanotti Bianco: «Prego impegnarmi 10 000 lire ragguardevole scoperta calabre­se». Dai lavori di bonifica effettuati dal Consorzio autonomo delle coo­perative ravennati, nei terreni paludosi tra il torrente Lipuda e Punta Alice veniva alla luce il santuario di Apollo Aleo.
Intorno al pantano della località nota come Isola di San Paolo si in­crociarono nel 1923 diversi avvenimenti, taluni di grande rilievo scien­tifico (basti pensare agli eccezionali rinvenimenti sui quali tra breve ri­torneremo), altri estremamente emblematici (il problema delle bonifi­che, che si era già intravveduto a proposito della piana lametina, quello della dispersione dei materiali attraverso i rinvenimenti fortuiti da parte delle squadre degli operai) poiché in essi è possibile esemplificare alcuni tratti di quella «percezione» dell'antico che abbiamo ritrovato altrove in Calabria. Con buone ragioni, perciò, Cirò può ritenersi un nodo fon­damentale: con esso Paolo Orsi chiudeva felicemente la sua attività ca­labrese dopo aver sottolineato che quell'intervento fu uno dei «più sin­golari» e «dopo quello di Locri [...] il più bello ch'io abbia fatto in que­sti 15 anni[1]»
Incomprensioni ed equivoci, tuttavia, segnano la nascita della ricerca a Cirò. Protagonisti e deuteragonisti erano di volta in volta Paolo Orsi, soprintendente della Calabria, le Bonifiche e con esse il Genio civile, infine Luigi Siciliani, calabrese di Cirò, che poco più tardi fu sottose­gretario alle Belle arti.
Fulcro della questione era l'identificazione del santuario di Apollo Aleo, punto d'onore ed ossessione — come scrisse Orsi[2]per Siciliani. Questi, «appoggiato a vecchie tradizioni paesane», si osti­nava a collocare il santuario a Punta Alice, località che, invece, Orsi dopo le sue esplorazioni effettuate qualche anno prima, aveva assoluta­mente escluso.
Nel mese di aprile del 1923 un fitto carteggio (brevi messaggi, tele­grammi, biglietti di servizio urgenti) intercorse tra il Genio civile di Catanzaro, Paolo Orsi e Luigi Siciliani. Nonostante l'apparente atten­zione dedicata al problema, gravi danni furono perpetrati nei confronti del patrimonio archeologico che era affiorato all'avvio dei lavori della Società cooperativa ravennate. Inspiegabilmente Orsi non intervenne, ma si limitò a richiedere generiche assicurazioni. Evidentemente il gran­de archeologo persisteva nel non ritenere possibili rinvenimenti così importanti in una palude mefitica. Più tardi, nella monografia dedicata al santuario e pubblicata per i tipi della Società Magna Grecia, nel II capi­tolo, che recherà il significativo sottotitolo Tenacia detta tradizione po­polare, l'Orsi come in una lunga palinodia, riassumendo la questione, sarà costretto ad ammettere in forma implicita i propri errori, anche se ricorderà che il non aver adempiuto alle precise disposizioni della So­printendenza da parte delle Bonifiche e dei subappaltanti locali aveva procurato danni assai gravi alle strutture del tempio.
Non è il caso di ripercorrere tutta la lunga polemica, che divide e di­stribuisce per ciascuno degli attori precise responsabilità. Ricordo solo per un particolare curioso, una lettera inviata nel 1924 da Luigi Siciliani a Paolo Orsi. I primi rinvenimenti archeologici (acroteri a testa di me­dusa e soprattutto una testa di marmo pertinente ad un acrolito, forse la statua di culto del tempio), erano depositati nell'ufficio delle Bonifiche a Cirò. Dopo aver esternato costernazione e rammarico per lo strazio di quelle venerande reliquie, il Siciliani, rivolgendosi ad Orsi, così con­clude: «la avverto che i Sabbatini proprietari del luogo, hanno ceduto per il materiale archeologico tutti i loro diritti a me» (Soprintendenza, Cirò, Lettera del 29 febbraio 1924). Si allude evidentemente alla quota parte spettante per legge al proprietario del suolo, ma ciò che mi pare significativo nell'ambito del tema che stiamo trattando, è la degenera­zione che può intervenire a stravolgere una corretta consonanza con quanto fa parte delle proprie origini. Luigi Siciliani considerava le sco­perte al tempio di Apollo Aleo come proprio personale possesso, dimo­strando per esse un attaccamento cieco e morboso, che sconfina nell'a­buso e nell'equivoco dei ruoli: non si dimentichi che Siciliani era parla­mentare a Roma, mentre recitava il ruolo di «onnipotente a Cirò». I ri­sultati nell'ultimo caso, furono tuttavia sconfortanti, se con velenosa iro­nia Orsi rimarcava come il Siciliani, pur avendo promesso premi agli operai «in sostanza recuperò cose di limitato valore, conservate ora in casa sua e disgraziatamente confuse con i materiali del serbatoio di Cirò superiore. Grande guaio questo!» (Orsi, op. cit., p. 19, nota 1).
Al veleno dell'archeologo si consenta la possibilità di una replica per salvare, se non altro, il genuino entusiasmo del Siciliani: il tempio di Apollo Aleo era là, dove egli e ancor prima altri uomini, che avevano rac­colto più antiche memorie, dicevano esistere.
Illustrando lo scavo di punta Alice Paolo Orsi descrive in modo esemplare, quasi abbellendolo, quel paesaggio triste e malsano:
‘una costa piatta con dune impercettibili verso il mare, in parte coperte di mac­chia, in parte nude, piana monotona ed antipatica, che oggi la mano ìndustre del villico viene trasformando in vigne redditizie, superando aspre lotte contro i venti marini e l'arsura solare.’ (Orsi, op. cit. p. 8).
Il lavoro svolto dalle Bonifiche prima e dalla missione di scavo poi, avveniva in condizioni praticamente impossibili. I miasmi paludosi e il calore consigliarono più di una volta il lavoro durante la notte « col ple­nilunio per evitare l'arsura intollerabile di quella piana percossa da un sole quasi africano e non offrente il riparo di un solo albero». Con gran­de velocità si sbancavano le dune sabbiose, aiutandosi con i carrelli di una ferrovia «Decauville», nei quali era trasportata la sabbia dei «mam­melloni» spianati affinché essa fosse sparsa riempiendo le bassure acqui­trinose. Non a caso Punta Alice fu definita un campo di battaglia da Paolo Orsi, che vi rimase due settimane, dirigendo «la lunga e ostinata impresa che ci diede finalmente la vittoria».
Nonostante le negative premesse fu infatti possibile mettere in luce lo stilobate dell'edificio e comprenderne la pianta. Dell'elevato si recu­perarono i capitelli d'ordine dorico e, in frammenti, parte della decora­zione architettonica in lastre e cassette policrome con forme peculiari dell'area crotoniate, cui Cirò in antico appartenne.
Completarono la ricerca il parziale scavo delle cosiddette Case dei sacerdoti, ma ancor più il felice recupero - anch'esso non totale per i motivi sopra accennati - della stipe votiva in cui, oltre agli oggetti cul­tuali in bronzo, terracotta e ceramica, fu davvero rimarchevole la sco­perta di statuette d'oro e di argento, di frammenti di diademi aurei, fo­glie d'alloro in bronzo, e di materiale in marmo scolpito, valutato senza eccesso (come fece rilevare Paolo Orsi autore della stima) L. 12060, delle quali spettarono alla famiglia Sabbatini, proprietaria del terreno L. 3000, quella quota parte che Luigi Siciliani credeva gli potesse essere ceduta in oggetti.
Quanto non fu recuperato nel corso dello scavo, si ritrovò rinvangando più volte le colmate della Bonifica, percorse instancabilmente dal­l'Orsi e dai suoi collaboratori alla ricerca, talora fortunata, di ciò che era sfuggito. Il lavoro era quasi impossibile: la fanghiglia rivoltata permet­teva la risalita dell'acqua, impedendo in tal modo il sereno e distaccato contatto dell'archeologo con il terreno. Oltre che dalle sabbie mobili, materiale archeologico fu strappato abilmente dalle mani dei contadini e degli operai, che al solito avevano trafugato quanto era più appariscen­te nella speranza del lucro o per farne «trastullo dei propri bambini» (Orsi, op. cit., p. 18). Lo Stato, tramite il restauratore Damico si sostituiva ora agli antiquari, recuperando per poche lire testimonianze preziose e di fatto prendendo atto di una situazione alla quale era inutile opporre l'intervento delle forze di polizia. In perfetta coerenza con questa linea d'azione è quanto avvenne la sera del 14 maggio 1924:
dopo un violento temporale che aveva ridotto a fanghiglia le sabbie rinvangate, fu raccolto il prezioso idolo di Apollo in argento [...] esso venne raccolto da un operaio mentre le squadre si ritiravano in paese; per quanto avvolto di fango venne tosto riconosciuto dall'operaio scopritore (un albanese) per quello che era; avendolo immediatamente consegnato senza tentarne il trafugamento, ven­ne generosamente compensato. È questo il pezzo più bello ricuperato dalle rinvanga ture. (Orsi, op. cit. p. 37).
Da qualche mese Paolo Orsi aveva lasciato definitivamente la Cala­bria trenta anni dopo il suo primo intervento a Locri. Una riforma aveva unificato Calabria e Lucania in un unico Istituto di tutela per scavi, gal­lerie e monumenti, e a guidarlo era stato chiamato Edoardo Galli, cala­brese che alla Calabria ritornava dopo lunghi soggiorni a Roma e in To­scana.
Uomo di carattere fermo e gran temperamento, il Galli si trovò a ri­cevere e affrontare l'enorme eredità dell'Orsi, fatta non solo dei frutti della sua intensa ed esaustiva ricerca, quanto dominata dalla gigantesca personalità dell'uomo geniale e acuto conoscitore dei luoghi e della gen­te calabrese. Dal confronto inevitabile sarebbe riuscito fatalmente per­dente il Galli, che doveva anche affrontare i problemi di un nuovo uffi­cio ingrandito a dismisura nel territorio e gravato dai nuovi e non pochi problemi dei settori artistico e monumentale. È da dire però che Edoar­do Galli seppe ben rispondere ai problemi e agli interrogativi di cui ab­biamo detto, sopperendovi con attività infaticabile, testimoniata dall'e­norme quantità degli interventi e delle pratiche trattate con minuzia e rapidità di decisione. La battaglia per il Museo nazionale di Reggio Cala­bria divenne uno dei punti più qualificanti del suo programma. Racco­gliendo le idee di Paolo Orsi, il Galli fu convinto assertore della fusione delle collezioni del Museo civico con quelle dello Stato divenute all'epo­ca più che considerevoli.
 Il grande Museo di Reggio - scriveva - dovrà rappresentare la sintesi del­l'arte regionale dal periodo preistorico fino all'età moderna; mentre le raccolte locali, piccole o grandi, organizzate però sempre seguendo il medesimo schema topografico e cronologico dell'Istituto centrale, sono chiamate ad una funzione diversa, cioè ad offrire analiticamente agli studiosi la visione d'età passate, ri­flessa in ogni genere di manufatti umili o ricchi che siano (E. Galli, in «Bruttium», 1925, n. 1, p. 1).
A tutti, ai calabresi in particolare, Galli richiedeva un impegno co­stante. Questo dimostrava il continuo contatto con gli Ispettori onorari, che furono tanti in quegli anni, e per i quali erano state stampate — quasi un decalogo — norme di comportamento rigide e severe.
Il contatto con la Società Magna Grecia che aveva sempre in Zanotti Bianco il suo infaticabile sostenitore, divenne in quegli anni più fitto e proficuo. Si preparava cosi il grande ritorno a Sibari, problema che Paolo Orsi, ormai avanzato negli anni, non aveva potuto impostare, né tanto-meno risolvere, pur sempre desiderandolo.


[1] Umberto Zanotti Bianco, Paolo Orsi e la Società Magna Grecia, in Paolo Orsi (a cura dell’Archivio Storico per la Calabria e la Lucania), Roma 1935.
[2] Paolo Orsi, Templum Apollinis Alaei ad Krimissam promontorium, estratto da Atti e Memorie Società magna Grecia, edito a cura della Società Magna Grecia nella Coll. Merid., Roma 1933, p. 10).

giovedì 20 febbraio 2014

§ 058 200214 Augusto Placanica, La Calabria in idea.



Capire, capire, capire… non mandare inevasi i propri conti, con sé stessi e con le proprie radici. Non scrivo per nostalgia, è questo un sentimento che ho represso attentamente, scientemente, da tanto, forse troppo, tempo. Presento qui, allo sporadico lettore, questo eccellente brano del non abbastanza compianto professor Augusto Placanica (1932-2002); è tratto dal saggio ‘Calabria in idea’, pagine 646-650, della Storia d’Italia, Le regioni dall’Unità a oggi, ‘’La Calabria’’, a cura di P. Bevilacqua e A. Placanica, Einaudi 1985.
A mio modestissimo parere, le parole del Placanica sono tra le più lucide che si possano leggere, ancor più se si considera che il tema trattato è tra quelli più sentiti, che lo si voglia o no, dai ‘calabresi’, che, volendo dirla tutta, sono visti come dei diversi anche dal resto delle popolazioni meridionali. 
A margine del post, aggiungerei che la 'calabresità', tanto dolente quanto irrealizzata, ad un certo punto esorbita dallo schema iniziale, per farsi paradigma più radicale e personale: la mancanza, l'abbandono, l'assenza, sono tutte forme opposte ed oppositive, sono il negativo, il contrario, della parte positiva, quasi come essere calabresi e quindi portatori di una mancanza o di una essenza in negativo, costringa a confrontarsi con l'altra parte, quella in luce, la componente socialmente positiva.
Difficile spiegare le mie sensazioni, specie in tempi di malinteso ecumenismo e 'universalesimo': nessuno avrà mai ciò che ha perso o gli è stato negato, i ritardi che derivano da questo meccanismo di esclusione e inclusione, a livello planetario, sono ferrei e, temo, indipendenti dalle aspirazioni dei popoli. Almeno fino a quando le culture e i poteri dominanti non cominceranno a cedere veramente terreno e spazi. Immagino differenti livelli di segregazione regionale, sovraregionale, nazionale, sovrannazionale..., o meglio: dalla persona, dalla famiglia, dal gruppo sociale fino all'universo mondo, ma questi pensieri sono quelli di un ozioso 'stròlicu'... Però ricordo direttamente un sacco di eventi e condizioni che mi fanno ritenere per impeccabile il testo placanichiano.
Ecco il testo:
Forse è più facile rispondere alla domanda: come si pone, com'è percepito — oggi — l'essere calabrese? Intanto, non va dimenticato che, per un un complesso di motivi che sarebbe lungo elencare ma che sono fin troppo ovvi, l'attività mitopoietica e fabulante, a livello consapevole o inconscio, ha come protagonisti soprattutto coloro che vivono la Calabria, la propria Calabria, ab extra. Se, per i calabresi residenti, essere calabresi significa essenzialmente vivere in quella regione, operarvi ed impe­gnarsi — se è il caso — nell'attività di conoscenza e di soluzione dei suoi problemi, per gli altri, cioè per il calabrese che è lontano dalla sua terra, il problema è essenzialmente di identità e di memoria per sopravvivere. In questo, il calabrese sradicato ha bisogno, assai più di ogni altro, di una Calabria in idea (simbolo, segno, ricordo, termine di confronto, coa­cervo dì impressioni e convincimenti), che serva da underground e da background[1]. In realtà la Calabria è apparsa sempre la terra del diverso: o arcaica o tesa a un avvenire ideale in nome della sua arcaicità; selvaggia nel bene e selvaggia nel male; al limite, né peggiore né migliore di altri consorzi umani (uno stesso descrittore poteva ben bilanciare i requisiti); ma diversa sempre.
Ora, penso che possano assumersi due presupposti di fondo. In pri­mo luogo, soprattutto oggi — cioè in questi decenni che hanno visto espandersi ed approfondirsi il processo di omologazione socioeconomi­ca, socioculturale, sociolinguistica della nazione italiana — una calabresi-tà come dato antropologico-morale è ormai, essenzialmente, solo un'a­strazione, che si giustifica assai meno della connotazione della meridio-nalità: le forme della convivenza e dell'acculturazione, i comportamenti e gli universi dì discorso, tutto — e da decenni — cospira a consumare le distinzioni regionali nell'indistinto della modernità italiana. La calabre-sità come autocoscienza è, dunque, per chi viva in Calabria, un dato or­mai, se non inutile, certamente inessenziale, e certamente collaterale ri­spetto ad altri modi di essere, di sentirsi e di rapportarsi al mondo. In secondo luogo — come s'è già anticipato — la percezione della calabresità, per il calabrese emigrato e déraciné, è un prodotto della sedimentazione socioculturale, che risponde a un bisogno assai avvertito, di identificazio­ne, necessaria soprattutto nelle difficoltà dei nuovi radicamenti in un ambiente assai spesso ostile e prevenuto. Si perdonerà qualche necessa­rio schematismo: ma le due anime del flusso migratorio — da una parte la classe operaia ex contadina, dall'altra la classe burocratico-intellettuale d'estrazione piccolo-borghese — hanno mirato alla propria identifica­zione attraverso il recupero di una calabresità fino ad allora non indi­spensabile, ma grazie a itinerari esistenziali e antropologico-culturali diversi. E infatti, nel primo dei due settori, la strada attraverso la quale realizzare la reidentificazione in terra altrui è stata offerta dalla costru­zione-invenzione di coesioni di gruppi calabresi, viventi e operanti in prossimità spaziali, col sostegno della memoria riconducente agli stessi luoghi, la pratica dei canti comuni, la fabulazione aneddotica, le strate­gie matrimoniali e di convivenza, i riti, i simboli, i significati, i «valori» e i precetti e così via, quasi a riprodurre, in una terra estranea, l'antica patria o ritrovata o non dimenticata. Solo così, per migliaia e migliaia di emigranti — uomini e donne, fanciulli e vecchi, taluni disposti all'av­ventura e a dimenticare, altri sradicati con violenza da un ambito umano insostituibile il distacco della Calabria è stato reso meno lacerante; e solo ove si pensi ai costi umani — in termini di sofferenza per lo sradi­camento, di nostalgia, di sostanziale infelicità anche i toni retorici di tante opere letterarie e cinematografiche ci appaiono meno lontani dal vero, e forse inferiori, per intensità di sentimento, ai drammi spirituali di tanti calabresi trapiantati.
Il ceto burocratico-intellettuale ha avuto analoghi problemi quando, per necessità di lavoro o di carriera, ha dovuto abbandonare la Calabria, Su di esso — quasi sempre — ha infierito di meno la ghettizzazione, volon­taria o involontaria, imposta ai contemporanei emigrati delle classi su­balterne. Meno numerosa, e meno temibile per concorrenzialità, questa diversa classe d'emigrati borghesi si è dispersa in tutte le regioni d'Ita­lia, ma anch'essa s'è portato dentro il cruccio e la nostalgia. Questo diverso tipo d'emigrazione burocratico-intellettuale non è riuscito a con­fortare il proprio malessere da sradicamento con la ricostituzione di un'altra piccola patria fatta di una ritrovata coesione di gruppi regionali: figli essi stessi, già nella Calabria natale, di un isolamento dalla base popolare, questi borghesi emigrati hanno subito più cocentemente la percezione della propria solitudine, spesso risarcendola con attivismo ed efficienza sul luogo di lavoro, e hanno dovuto ricostruire quella Calabria ideale nella sfera della propria interiorità. In un contesto sociale abituato a ritenersi più elevato rispetto agli àmbiti operai, allora, all'intellettuale calabrese emigrato (impiegato o dirigente, professore universitario o professionista) è riuscito, forse, meno difficile radicarsi, ma quasi impossibile ritrovare il calore dell’ambiente di provenienza. Ha dovuto, perciò, riscattare la propria condizione di diverso, e ai suoi occhi la Calabria di oggi, di sempre si è rivestita di qualità e doti mai prima pensate, e la calabresità — sua e dei conterranei della diaspora — è apparsa, ancora una volta, la triste beffa giocata dal destino a danno di un popolo nobile e capace (la Calabria in idea, ipostasi necessaria). Se l’operaio emigrato ha mantenuto stretto, nel fatto della sua esistenza e dei suoi rapporti, il legame con la terra d'origine, l'intellettuale ha coltivato dentro di sé il vagheggiamento di una Calabria ideale, e in questo s'è as­sunto il compito di accogliere in sé, e di offrire agli altri, talora con malcelata civetteria, i topoi tradizionali della calabresità: solidità, tenacia, e finanche la suscettibilità, la ritrosia, la ombrosità. E con ciò, ha rico­struito quell'orizzonte di prosopografie e di esaltazioni della calabresità vissuto sui banchi di scuola, nelle parole degli adulti, nelle letture, chie­dendo ad esso un conforto non meglio ottenibile altrove.
Così, nozione un tempo fortemente attiva, e percepita quale simbolo quasi aggressivo di identità proclamata, la calabresità è ora divenuta strumento meramente difensivo, di autoconservazione. Se la Calabria è poco più che una realtà politico-amministrativa per chi vi risiede, essa diviene, invece, un indispensabile grumo di sentimenti e di risentimenti per chi ne sta lontano: e allora le brumose atmosfere del Nord sembra­no non offrire all'occhio i torrenti di luce e di colori della Calabria lonta­na, e i cibi non sono più gli stessi, e il vestire, l'operare, il pensare, così scopertamente diversi, fanno riandare con l'anima alla dimensione per­duta: la Calabria non è mai così prepotentemente se stessa come nel pensiero di chi l'ha lasciata.
Chiamato a misurarsi con altre identità, e a identificarsi con il nuovo ambiente di lavoro, il calabrese della diaspora deve, per sopravvivere, accettare la lacerazione, tra ciò che egli non può più essere e ciò che egli non è ancora, calabrese di sempre e italiano (o europeo) di oggi. È in que­sto momento delicatissimo, di transizione, che il calabrese sente di ri­schiare lo smarrimento della sua identità, e ad essa si afferra con la cor­posità dei simboli, della memoria, del linguaggio, delle credenze. Nella coralità calda dei gruppi, o nel vagheggiamento culto della riflessione isolata, l'essere calabrese diviene un mito da non perdere, da dichiarare, da proclamare: che sia fatta di tenere memorie familiari o che sia il pro­dotto stratificato dell'immaginario, la Calabria è soprattutto nell'animo di chi se n'è andato. Concetto o pseudoconcetto, astrazione o ipostasi, quella Calabria in idea ha, ancora una volta (almeno fino ad oggi), una sua funzione.
Poi, lentamente, il processo di assimilazione al nuovo ambiente si fa più lineare ed evidente; e va sempre meglio interiorizzandosi quella ca­labresità, che, come punto dolente e momento difensivo, doveva essere, agl'inizi, quotidianamente riconquistata attraverso segni, riti, parole; e il buon calabrese, finalmente, «s'inserisce», senza con ciò dimenticare d'essere — o, più malinconicamente, d'essere stato — calabrese. La Cala­bria, alla fine, si consolida come immaginario collettivo, ma senza lace­razioni drammatiche con l'attualità.
Certo, la nostalgia resta. E tuttavia, non sempre, poi, quell'idea di Calabria — il calore degli affetti, l'orgoglio della tradizione — regge al confronto con la Calabria reale: l'emigrato che temporaneamente ritorna porta ora, dentro di sé, una calabresità di tipo nuovo, interiorizzata certamente, ma colorata di un odi et amo imprevedibile: la sua vecchia patria gli si presenta con difetti non immaginati. Forse è la consolazione, di cui si ha bisogno, per poter credere d'avere scelto bene allorché si è scelta la strada dell'emigrazione; forse è la costatazione che, fuori della Calabria, i processi dì modernizzazione sono più radicati e più effettuali; forse è la considerazione amara che, in Calabria, il clientelismo terziarizzante ha spesso agevolato l'espulsione degli elementi migliori, garantendosi l'acquiescente consenso dei meno dotati e gestendo una vita politica ridotta in ambiti angusti. È certo, comunque, che, nella coscienza di quegli stessi calabresi che di più hanno amato la loro terra, la stessa nostalgia diventa conflittuale; dì questo fatto, comunemente avvertito, esistono cause ben precise e le responsabilità sono ormai ben individuate. Il problema, come sempre, è politico.



[1] Ha osservato Luigi Maria Lombardi Satriani: «Sulla Calabria si sono addensati nel corso dei secoli una serie di pregiudizi che, pur diversamente articolati, convergono nel sottolinearne l'arcai­cità e il carattere selvaggio: sono immagini esterne, che utilizzano la Calabria come polo dialettico, per riconfermare la superiorità del proprio mondo culturale. La Calabria costituisce quindi la zona oscura della coscienza civile europea e, in quanto tale, deve essere continuamente percorsa e negata» (L. M. Lombardi Satriani e M. Meligrana, Un villaggio nella memora, Roma - Reggio Calabria 1983, p. 5). Si può anche obiettare che non sempre il giudizio del forestiero (dello straniero, so­prattutto) è stato, in sé, negativo; ma sulla funzione dialettica della Calabria, in contrapposizione alla modernità volta per volta attuale nei diversi contesti culturali, sì deve essere d'accordo.