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domenica 29 maggio 2022

§ 353 290522 In memoria del 'signor' Raffaele Malena, di Margherita Corrado.

In questi giorni Cirò Marina piange il suo amato artista per antonomasia, 'Elio', 'Maestro Elio'.  La mia precoce distanza dal paese che non ho più (che è concetto diverso dall'appartenenza e dalle origini) mi ha impedito di conoscere di persona il Maestro Elio, al quale, per mia timidezza o chiusura, non mi sono mai avvicinato, pur conoscendolo bene, di fama e di vista, ma riproponendomi sempre di farlo, prima o poi, di parlargli non solo per via 'telematica'... e anche a mezzo computer mi sono pregiato di parlargli e di poterne apprezzare le doti, umane e di poderosa preparazione culturale. Mi colpì, detto di passo, il suo dirmi di non preoccuparmi degli 'altri', che quello che si ha dentro, che certe persone hanno dentro, non può essere loro rubato... Non so se ciò potesse davvero valere per me, destinatario di tanta stima, ma per lui sì, a lui credo che quello che aveva dentro non potesse e non potrà essere rubato e non poteva andare eliminato 'per sottrazione', perché l'arte finisce solo nell'arte, non per asportazione con maggiore o minore destrezza. Ero poco più che un bambino nel 1971 e ricalcavo, con 'gorgia', cioè con tanta voglia, con ardore, le carte geografiche... figurarsi quella del mio paese, 'composta' dal futuro Maestro Elio, allora 'un nostro bravo giovine' che 'di ricerche archeologiche nella zona da tempo si occupa', come recitava Antonino Terminelli, 'don Nino', nella prefazione al volumetto 'Krimisa', pubblicato in quell'anno 1971 dalla tipo-lito Ferraro, e da cui ho, dopo cinquanta e passa anni, rielaborata la carta che qui allego, e che dimostra quanta e quale fosse la conoscenza del territorio e dell'archeologia del giovane Elio.

Riposi in pace nell'unanime compianto, il maestro Elio Malena, e chissà, forse non dovrei dirlo, ma chissà cosa starà pensando ora da lassù, chissà che non stia componendo versi o elaborando qualche progetto: questo mi ritrovo a domandarmi, tra quanti 'siamo rimasti a terra'.


Vorrei chiudere questo ricordo con le parole tanto precise, quanto accorate e sincere della archeologa Margherita Corrado, apparse - e profondamente condivise - su fb.

“Ti guardiamo noi/ della razza di chi rimane a terra” (E. Montale)

Da “antico” (mai vecchio) ad “immortale” il passo è breve e qualcuno penserà che da ieri quel passo è compiuto semplicemente perché ha cessato di vivere, Elio Malena, e che immortale lo è davvero, ora.
Invece no. Era immortale da sempre, il signor Raffaele Malena, Elio per sua scelta, consapevole di sé al punto da darsi anche il nome in cui più si riconosceva, e non solo perché Artista (ma artista vero, com’erano prima del futurismo). In quasi 30 anni di frequentazione – un privilegio – non l’ho mai chiamato Maestro, come lo appellavano comunemente i cirotani, ma sempre signor Malena, senza mai smettere di dargli del Voi.
“Immortale” non era solo una delle sue battute, dunque, perché se è vero che l’ironia, mai come in questo caso segno d’intelligenza profonda, è stata la cifra distintiva di Elio, debordando continuamente in tutti i registri viciniori (dal comico al grottesco) – “Che pagliaccio!” gli ho detto tante volte scherzando, quando ‘esagerava’, per sentirmi rispondere invariabilmente: “Non pagliaccio, clown, prego!” -, è anche vero che non avere avuto paura di vivere, come ha ammesso più volte, l’ha reso immortale fin dall’inizio. Non solo in quanto Artista, ripeto, ma in quanto uomo, innanzi tutto, e come tale sempre curioso della realtà, indagatore di tutte le sue manifestazioni e cultore della memoria: letteralmente un umanista, perciò, e letteralmente uno scienziato.
Tra una battuta e l’altra, perché “Radio Malena” era sempre accesa e senza il pulsante di spegnimento, gli ho sentito spiegare a cena, aiutandosi con qualche schizzo sulla tovaglietta del ristorante, il significato dei due cortei del fregio del Partenone - quesito irrisolto per i luminari - con la naturalezza di chi c’era e del progetto di quell’edificio aveva ragionato con Fidia stesso, lasciando a bocca aperta il professore svizzero di chiara fama, lui, Elio, autodidatta del greco antico e di tutte le lingue morte, perché nulla è morto finché qualcuno lo ricorda e lo legge con gli strumenti dell’intelletto.
E che dire di Achei e Troiani che, dopo le domande rituali: “Chi sei? A chi appartieni?” – le stesse che ancora si fanno nella Calabria profonda – letteralmente si prendevano a pietrate?! Il tempo non esiste quando si capisce che non c’è differenza tra l’oggi e 3000 anni fa, che l’uomo è sempre uguale a se stesso, con uguali pregi e difetti, e che per questo i poemi omerici hanno già detto tutto quello che c’è da dire sugli esseri umani, la loro lotta impari contro il destino e l'effimera immortalità (unica possibile) data dalla fama raggiunta attraverso le azioni.
È stato anche 'pittore funerario', Elio Malena, per necessità e per convenienza, offrendo il contesto cirotano alla sua abilità occasione di cimentarsi nelle cappelle cimiteriali assai più spesso che negli edifici pubblici, ma l’artista è tale qualsiasi cosa faccia, che affreschi la Sistina o realizzi un gettone ricordo per la sagra della sardella. Conoscendo lui ho conosciuto Raffaello, Michelangelo, Caravaggio, e Preti, e tutti gli artisti veri dal Rinascimento in poi, ho capito la loro infinita autostima che diventa anche implacabile antagonismo, l’abilità di assecondare la committenza esprimendo, in realtà, nel registro più personale, inaccessibile alla massa, la propria visione del mondo e il fardello della verità profonde, in gran parte pre-cristiane, di cui si sentivano portatori.
La porta bronzea della Chiesa di San Cataldo è il ‘manifesto’ di Elio Malena ‘scultore magno-greco’, ma quanti l’hanno capito?
Molti l’hanno conosciuto pittore o scultore o restauratore o poeta ma Elio eccelleva in tutte le arti liberali perché era un intelletto superiore, punto, che il caso ha fatto nascere a Cirò Marina, croce e delizia della sua esistenza. Solo lì, di un uomo che è stato la prova vivente dell’intuizione di Charles Baudelaire che: “Bisogna sempre essere ubriachi… di vino di poesia o di virtù, come vi pare… per resistere al tempo”, si poteva credere che avesse scelto la prima. Osare, superare i propri limiti e quelli del tempo, gettandosi entusiasta in ogni nuovo progetto, e sentirsi in intima comunicazione con l’umanità precedente oltre che con la contemporanea è stata la sua grazia. Possono farlo sono gli immortali.
Se ne va a 50 anni dalla scoperta dei Bronzi di Riace, ironia della sorte, “e qualcuno dirà che c’è un modo migliore”.
+5

sabato 21 maggio 2022

§ 352 210522 Quintino Farsetta: mastu Peppu.

 Ripropongo questo scritto, in ricordo del compianto Quintino Farsetta, che è stato ed è preziosa memoria della materia cirotana - e marinota in particolare - sebbene egli abbia vissuto gran parte della propria esistenza in terra di Lombardia, ma sempre con l'attenzione e con l'anima rivolte agli avvenimenti e allo sviluppo dei luoghi d'origine. Non indagherò in quale data Quintino ci regalò, sul nostro gruppo FB 'Note di dialetto cirotano', del quale è stato maggior animatore, questa chicca che qui riporto e che potrebbe valere come test di conoscenza della parlata cirotana, ma ancor più come banco di prova per ricordare il vero halitus di una vita paesana che ormai è stata soppiantata da altre forme di esistenza, da altri modi di vivere e di presentarsi in società.

Il quadretto disegnato da Quintino (manco a dirlo, si dilettava di pittura, fra le altre cose) è una concisa 'acquaforte', la chiamerò così, che presenta molti spunti per considerazioni lessicali, ma non solo: il 'fattareddu' ha una sua morale perfettamente in linea con i 'cunti' classici - in genere andati perduti - dei tanti aedi calabri muniti - quanto a tecnica e mezzi - solo di memoria e voce. La considerazione finale, l'epifonema, richiama le storie, i 'fattareddi', non solo dei nostri avi, ma degli avi dell'umanità, quelli che insegnavano raccontando, ma non voglio scomodare greci e latini, mi limiterò alla tradizione nostrana dei Giufà/Jogale che in un modo o nell'altro, quasi con una agnizione finale, vengono a capo di situazioni che faticano ad affrontare e devono perciò arrangiarsi per trovare una soluzione o una giustificazione (diciva c'u vinu un s'è de mazzicari).

Motivi lessicali: eva (varianti del verbo essere, quali sono?); culiata; a ru paisi; a Difisa (cos'è, dov'è); minava u passu; treino (refuso: traìnu; cos'è); gamma (assimilazione/dissimilazione); focigghja; ncinagghja; puppa e pruda; romaneddu; foredda; scanghatu (origini del termine); ririva (varianti); ragumava; a ricchja manca; a trumma; si ndringava; cannatedda (cos'è, a quanto corrisponde); un s'è dde mazzicari... ci si può riflettere.

Dimenticavo: l'immagine plastica di mastu Peppu che quannu minava u passu parìva na focigghja è straordinaria!

Grazie, Quintino e scusa se non sono riuscito a fare di meglio.

CatàvirAmurùs







mercoledì 11 maggio 2022

§ 351 110522 Appello per la fontana del Principe o della Lìcia. C. A. Amoruso.

Ormai da anni inseguo il sogno di contribuire, nel mio piccolo, al recupero e messa in sicurezza, se non alla fruibilità, del patrimonio artistico, storico, culturale, linguistico della 'cosa cirotana', più specificamente 'marinota', ben consapevole dei miei limiti formativi; nonostante questi limiti, magari con un po' di atteggiamento 'garibaldino' - come si diceva un tempo -, nel 2017 sono riuscito a pubblicare a mie spese il primo 'vocabolario' della parlata di Cirò e della Marina (Repertorio Lessicale della Parlata di Cirò e della Marina, Tricase, Youcanprint, 2017), pubblicazione che mi vede indeciso tra il pentimento per la prima edizione e la soddisfazione (poca) per la seconda versione, più che raddoppiata, pronta e custodita nel cassetto delle disillusioni, più che dei sogni. Orbene, da una decina d'anni continuo a predicare, perorando, ignorato, la causa del sito di Madonna di Mare e della Fontana del Principe, e d'altro... Temo che sia stato tutto abbastanza inutile, anche se non parlo di fallimento del mio 'progetto': qualcosa rimane sempre, magari se ne avvantaggeranno altri, ma non importa.

La fontana di cui spesso si torna, quasi ciclicamente, a parlare è sempre lì, in abbandono tra una bega e l'altra, in un disinteresse generale, quasi pacioso, capace di tutto sotterrare, tutto rimandare a tempi migliori o più propizi, dei quali gli orizzonti marinoti non danno segni.

La fontana, come molti potranno intendere, è addirittura sconosciuta forse ai più, e infatti spesso mi è stato domandato dove essa si trovi... allego qui una mappa, che ho rielaborato da google maps con la mia scarsa perizia nel fotoritocco.

 Mappa del sito (rielaborazione da Google maps).

Fig. 2: 'Il canale propriamente detto della Lice, che corre senza ritegno, e sempre con un volume prodigioso...' dice G.F. Pugliese (vedi oltre): in foto, l'acqua della Lìcia, vanamente irreggimentata, giunge fino all'ex bivio della SS106 ('u bìviu 'e Reda, per gli amici).


A seguire, alcune note relative al manufatto, alla nostra 'fontana a specchio' (spero che la definizione sia quella più confacente). Tali note sono apparse a suo tempo, con qualche differenza, anche in Archivio Storico Crotone (www.archiviostoricocrotone.it).
Le foto che ho realizzato e che qui ripropongo, attestano la bellezza della fontana e l'incuria che l'assedia.
Bona lejùta,
CatàvurAmorùsu.

Un vecchio gentiluomo, testé defunto, che viveva nel suo palazzo de Alitio, tante volte ricostruito nel corso dei secoli, ci scriveva tempo dietro che la contrada, ove detto palazzo sorge, si chiama tuttora Alice, ma che nessuno mai aveva saputo nulla dell’antica cittadina che un dì sorgeva sul Promontorio dell’Alice, oggi detto della Madonna d’Itri (sic, n.d.r.)’: Pericle Maone, Contributo alla storia di Cirò, Historica, rivista bimestrale di cultura, numeri 2-3 e 4, anno XVIII, 1965.

In nota a pag. 108, il Maone ci informa inoltre che il vecchio gentiluomo era Francesco Sabatini, personaggio di notevole importanza nel panorama storico cirotano della prima metà del ‘900. Il palazzo Alitio in realtà è noto nel cirotano quasi esclusivamente come Castello (dei) Sabatini (al più come ‘Carafa’ e forse ‘Spinelli’), sempre tenendo a mente che di palazzo fortificato si tratta e non di castello. Occorre rimarcare che il lavoro del Maone è forse il primo ad occuparsi di Alichia, prima d’allora del tutto sconosciuta, come giustamente notava il Sabatini (il cui ‘castello’, però, il Pugliese chiama, infra, palazzo della Lice). Altri pregevoli lavori su Alichia si possono trovare sul sito ‘Archivio Storico Crotone’, per cura di Andrea Pesavento e Giuseppe Rende, in particolare ‘L’abitato di Alichia, la foresta regia ed il palazzo Alitio’, di A. Pesavento.

Tornando al lavoro di P. Maone ed analizzando le varie affermazioni, comprese quelle di un linguista di assoluto valore come Giovanni Alessio, i dubbi su Alice, Aligia, Alichia, Lice, Licia, Capo Lice o Punta Alice, Promontorio della Lice o Lacinio, Piana della Lice, permangono, forse inestinguibili.




Avendo lo scrivente origini veramente prossime al luogo suddetto, posso attestare che la denominazione della località sulla quale insiste, più che il castello, la fontana (e ancor più la fonte, la sorgente d’acqua) è Lice, italianizzato, o Licia, in dialetto: da bambino andavo ara Lìcia a prendere l’acqua, cioè ‘alla Lìcia’. E per quel che riguarda Punta Alice (Punta delle Alici, per qualcuno!), sono fedele a G.F. Pugliese (‘Lice e non Alice trovasi sempre nelle antiche carte’): Capo Lice o della Lice, tenendo Punta Alice come una corruzione o deformazione.

La fontana del Principe, così nota, senza ulteriori motivazioni che ne giustifichino o spieghino la denominazione, insiste nelle vicinanze del Palazzo suddetto, esattamente nel punto conosciuto come A Licia, La Lice, e doveva evidentemente sfruttare una fonte di acqua ‘perenne’ (‘Il canale propriamente detto della Lice, che corre senza ritegno, e sempre con un volume prodigioso, meriterebbe di esser celebrato da un qualche genio poetico, ed io fido sul progressivo sviluppo letterario della mia patria per lusingarmi che sorgendo tra noi un poeta venisse soddisfatto il mio desiderio’, GF Pugliese), che a tutt’oggi nessuna cementificazione è riuscita a cancellare. Le notizie relative a questo pregevole manufatto sono molto scarne, fatti salvi gli accenni del Pugliese stesso nella sua ‘Descrizione’.



La fontana è in ormai secolare stato di abbandono, forse anche protetta da una certa poca fruibilità, nascosta alla vista da canneti e sterpaglie. La sua costruzione si vuole risalga al XVII secolo, ma, stranamente, il Pugliese, così attento alla materia cirotana, non vi si dilunga, sebbene si concentri molto su altri aspetti collegati alla Lice, che ai suoi occhi doveva apparire quasi come un giardino incantato (e lo capisco, perché, per inciso, mi è successa la stessa cosa, da bambino) e un dono di Dio il suo canale, canale il cui percorso dovrebbe forse essere indagato, in quanto non mi pare ne sopravviva una precisa memoria, memoria che invece ritroviamo nella toponomastica stradale in quella via Sotto Alice rimarcata nella mappa allegata… che per personale pignoleria chiamerei via Sotto la Lice, che va a fare il paio con, manco a dirsi, via Sotto Palazzo! Quale palazzo lo lascio indovinare o supporre al lettore. Tornando al Pugliese, questi non si dilunga, dicevo, ma non tralascia di informarci ('Descrizione', II vol.) che: 'Possiede la detta Marchesal Corte la possessione det­ta l'Alice con suo giardino, passo, falangaggio, e Palaz­zo, quale sta situato nel più eminente luogo di detto giardino, seu possessione, nel quale territorio vi sono sette piante di amendole, dodici di cedrangolo, certe poche viti, piante di pruna, di pera, di mela, e di oli­ve. Il palazzo (comunemente detto 'castello di Sabatini, n.d.r.) è di figura quadra, con quattro baluardi a modo di fortezza, e prima di entrare in esso vi è un basso coperto a tetti, quale serve per uso di cucina ec. La rendita di detto giardino coacervando le particolari rendite ed affitti dal 1682 sino al 1689 è duc. 128:4:8:7.'

Ogni appello lanciato per il recupero del manufatto è rimasto inascoltato o comunque non ha sortito gli effetti sperati. Le foto illustrano le condizioni della fontana in anni diversi e sono state riprese dallo scrivente.

Per approfondimenti: Pericle Maone, citato.

Giovan Francesco Pugliese, Descrizione ed istorica narrazione della origine, e vicende politico-economiche di Cirò… Napoli, 1849.

Andrea Pesavento http://www.archiviostoricocrotone.it/ambiente-e-paesaggio/labitato-di-alichia-la-foresta-regia-ed-il-palazzo-alitio/

Cataldo Antonio Amoruso http://originicirotane.blogspot.com/2017/10/308-la-fontana-del-principe-2013-2017.html

Cataldo Antonio Amoruso http://originicirotane.blogspot.com/2013/12/fontana-della-lice-e-torre-vecchia-ciro.html

 














     Madonna d'Itria vista dalla fontana.

Installazioni...



Spero di non avere annoiato troppo e che qualcuno voglia condividere questo post, chissà che l'appello non arrivi da qualche parte, a qualche orecchio disponibile ad un intervento. 
Grazie,
Cataldo Antonio Amoruso Vitale.

martedì 10 maggio 2022

§ 350 100522 I PIAZZOLI (PCM) E ALTRE DIFESE COSTIERE IN TERRITORIO ALECINO.

I PIAZZOLI (PCM) E ALTRE DIFESE COSTIERE IN TERRITORIO ALECINO*

*Alecino: riprendo questo neologismo col quale mi piace indicare fatti e cose di storia e geografia delle due Cirò, termine che nelle mie intenzioni vorrebbe richiamare la piana della Lìce/Lìcia e Apollo Aleo.

NOTA: questo post ha trovato benevola accoglienza sul prezioso Archivio Storico Crotone dei cari Giueppe Rende, Andrea Pesavento, Antonio Cosentino e soci (http://www.archiviostoricocrotone.it)

Il post, è di tutta evidenza, è frutto di ricerche di un profano di materia militare, per cui eventuali osservazioni, correzioni, critiche, aggiunte, segnalazioni di qualsiasi tipo, sarebbero favorevolmente accolte dallo scrivente.

Bonà lejùta,

CatàvurAmorùsu.


























venerdì 6 maggio 2022

§ 349 060522 SAN CATALDO IN ARCHIVIO PER LE TRADIZIONI POPOLARI. SALVATORE SALOMONE MARINO.


Nell'imminente ricorrenza della festività di San Cataldo, si propone qui uno scritto, solo graficamente modificato dallo scrivente, per cura di Salvatore Salomone Marino (1847-1916), apparso sul primo fascicolo (Gennaio-Marzo 1882) della rivista trimestrale dell'Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, edita in Palermo da Luigi Pedone Laurel, e diretta, oltre che da Salvatore Salomone-Marino, dal grande, grandissimo, Giuseppe Pitrè (1841-1916), la cui opera benemerita, in un campo irto di inciampi come potevano essere quello delle nascenti o balbettanti scienze umane come l'antropologia culturale o l'etnografia (diremmo oggi, allora demopsicologia o folk-lore, col trattino), non è forse adeguatamente conosciuta e lodata, fatti salvi gli addetti ai lavori e forse qualche altro sporadico estimatore. Notato che la cultura siciliana, italiana ed europea persero nello stesso hanno questi due grandi studiosi? Tornando all'Archivio, o meglio alla sua rivistaessa si pubblicò dal 1882 al 1906 e rappresenta un vero patrimonio di conoscenze e cultura, dove l'interesse per il folklore non conosce limiti spaziali o temporali e qualsiasi 'fatto' umano vi viene accolto e consegnato ai lettori e alla posterità. Cosa c'entra San Cataldo? Beh, leggete, e si vedrà di quale importanza sia investita la figura di San Cataldo in una pratica di assoluta importanza, nel mondo agricolo, come la trebbiatura fatta sull'aia, che in cirotano si chiama pisèra: al nostro compatrono si levano i voti affinché due condizioni fondamentali, il vento e il caldo, si mantengano, persistano, per sua intercessione, garantendo la buona riuscita della trebbiatura, nei tempi sperati. Il testo del Salomone-Marino, oltre alla 'chicca' relativa a San Cataldo, peraltro venerato in un buon numero di località siciliane, rimane e costituisce una buona memoria di come si svolgeva 'a pisera'. Buona lettura, se vi va.

CatàvurAmorusu.

                                        

IV. Intorno all'aja.


È il tempo della trebbiatura: andiamo a rivedere il nostro con­tadino a quel lavoro che, coronando le speranze e le fatiche di otto mesi, gli porterà finalmente in casa la grazia di Dio, che servirà all'annua provvisione (mància) e a saldare qualche debituccio con­tratto nei giorni improduttivi del maggio. È questo il lavoro a cui si può nel senso rigoroso del vocabolo applicare il versetto del Genesi: Vesceris pane tuo in sudore vultus tui. In piena canicola, con questo po' po' di raggi africani che dardeggiano la Sicilia, immagi­nate che sorta di tormento (mi servo della precisa ed efficace parola del villico) sia la trebbiatura. E pure ei la compie cantando: nella poesia, sposata alla religione, attinge lena e sollievo e il lavoro va innanzi allegramente e rapidamente.

Siamo tra le 10 e le 11 del mattino; da due ore le mannelle, tolte alla bica che sorge lì presso, sono già scomposte e sparse nell'aja, sì che il sole n' ha rasciutta la brina. L'ajata d'ordinario si batte a mule appajate: più di rado vi si cacciano i buoi o gli asini. Il numero delle coppie di mule (cucchietti) è proporzionato alla vastità dell'aja: ogni coppia ha un reggitore o guidatore (cac­cianti) che dal centro dell'aja regge le redini e mena incessante­mente la sferza di fune (capu), non tenendosi fermo, ma senza posa correndo dietro alle coppie che si fanno girar in tondo sempre di trotto. Gli altri lavoratori stanno attorno (turnanti) e col for­cone (tradenta, tridente) riaccostano all' aja le spighe che i pie' delle bestie correnti fanno saltar fuori, e insieme aggiustano il cerchio di essa (attùnnanu) che, com'è naturale, si vien guastando durante la trebbiatura. Caccianti e turnanti si dànno spesso la muta, perché sia da tutti portato il lavoro più pesante dei primi; ma di regola i soli giovani assumono la parte di guidatori, i più anziani rima­nendo sempre lavoratori col forcone. Sì i primi che i secondi in­dossano camicia e mutande di tela, e in testa un largo cappello di foglia di cerfuglione (cappeddu di curina).

Quando le spighe sono state battute una buona ora, le coppie delle mule si cavan fuori dell'aja; e mentr'esse mangiano un poco di biada, tutt' i lavoratori si dànno premurosi a rimescolare e ri­voltare l'ajata (vùtari l'ària), per far che tutta ugualmente rimanga battuta e granelli non restino entro le lolle. Questa si dice la prima battuta, la prima càccia; poi succede la seconda, poi la terza, e talora anche la quarta, secondochè porta la più o men buona qualità e grossezza delle spighe e il caldo della giornata. Dopo ciascuna càccia, si rimescola e rivolta l'ajata; eccetto nell'ultima, perché dopo essa i lavoratori, preso un boccone, si fanno del saccuni un cap­puccio (ad evitare che la loppa vada loro giù per le reni) e si mettono prontamente a spagliare prima che, col cadere del giorno, cada il vento.

Or il reggitore della coppia di mule, pur correndo e frustando, canta verso a verso ed a voce altissima alcuni mottetti proprj della trebbiatura (muttetti di lu pisutu) , i quali per la loro importanza e non dubbia antichità mi paiono degni che si conoscano. Sono versi di lode e ringraziamento a Dio ed ai Santi, di incitamento alle bestie, di accenni alle fatiche stragrandi della ricolta ; e mi ri­chiamano a mente altri consimili della Corsica, riferiti dal Tommaséo (Canti pop. corsi, p. 300); ma a questi non mi fermo perchè, come il lettore avrà visto, io ometto a bello studio i numerosi confronti che de' costumi contadineschi delle varie regioni d'Italia si potrebbero instituire.

Al primo cominciare a romper l'ajata, il caccianti si segna divotamente e dice:

 

Sia lodato e ringraziatu

lu santissimu Sacramentu.

E i turnanti rispondono:

Sia lodatu e ringraziata

sempri ogn'ura, ogni momentu.

Il guidatore dà una frustata, le mule trottano. E' le comincia a chiamare per nome: O baja! O muredda! O farba ! O pu­lita! O mirrina! O valenti! — e aizzandole sempre più, vien gri­dando ad intervalli e verso a verso :

Allegramenti,

cori cuntenti !

....................

Giria e vota

   comu 'na bedda Greca batiota !

   vota e girìa

   comu 'na Greca dintra la batia !     


                                                     ...........................................

Arrispìgghiati, curuzzu,

damu volu a lu piduzzu !

damu lena ! damu ciatu !

Viva Diu Sagramintatu !                     

..................................

Viva sant' Ùrsula

cu la santa cumpagnia !    

Arrispìgghiati, vita mia !

Regolarmente, ad ogni strofa nuova cala un colpo di ferza; e tra l'una e l'altra passando un certo  spazio di tempo, si tramez­zano di tratto in tratto le parole di incitamento: Allèghira ! Occhiu vivu! Vulamu !Avanti, avanti! — e di nuovo: O baia! O muredda ! — ecc. Il caccianti va guidando le mule or verso un capo soltanto dell'aja, or al centro, ora alla periferia; egli accompagna questi atti co' versi:

 

E damu a stu cantu

cà cc'è l'Àncilu santu;

e damu a sta testa

cà cc'è l'Àncilu ch'aspetta;

   ed a lu menzu

   cà cc'è San Vicenzu.

...............................................

E dàmucci a lu fora,

cà l'armaluzza cu lu ventu vola !

e dàmucci a lu centru

cà l'armaluzzi vannu cu lu ventu !

Quando si fa alle coppie voltare spalla, cioè girare in senso opposto di prima, il guidatore, eseguita la conversione, dice :

Arrispìgghiati, curuzzu,

arriventa la spadduzza;

arriventa e cogghi ciatu,

viva Diu Sagramintatu !

E Sagramintatu sia,

viva Gesuzu, Giuseppi e Maria !

Allorché ogni càccia sta per compirsi e le coppie debbon esser tratte fuori dell'aja, il guidatore canta :

Ed arrèggiti, gran mula,

ca t' he dari 'na bona nova.

  E chi nova è chista ?

  Vai a lu ventu e t'arrifrisca.
Tu va' a lu ventu,

eu a lu turmentu:

sia lodatu lu santu Sagramentu!

...................................

Santu Nicola!

Beddu lu santu,

bedda la parola;

a la turnata l'armaluzzi fora.

............................

E unu pri tia,

e unu pri mia,

e unu pri la virgini Maria!

 

E sì dicendo si compiono tre giri, e le mule sono tratte fuori dell'aja.

Nell'ultima càccia, allorché i mannelli si vedono ridotti in paglia e il frumento già tutto sgusciato, il guidatore, dopo d'aver incitato le mule con le parole: Allèghiri, muli, ca la pàgghia è fatta!,— intona una nuova serie di mottetti co' quali dà compi­mento alla fatica delle trafelate bestie:

Ed arrèggiti, gran mula,

ca t'hè dari 'na bona nova.

E chi nova è chista ?

Va' a lu ventu e  t' arrifrisca.
Tu va' a lu ventu,

eu a lu turmentu:

lodatu lu santu Sagramentu !

.........................................

È ditta,

è ben ditta,

'n Celu si trova scritta:

l'Àncilu sia lodatu

e Diu Sagramintatu.

Vui dàtinni cuncordia,

Sìgnurì di misiricordia,

cà scatta (scoppia) lu Diàvulu.

E viva la Madonna dì la Grazia !

......................................

L'ura vinni,

la grazia scinni,

e scatta lu Diàvulu.

E viva la Madonna di la Grazia !

.....................................

 

Ed ogni ura, ogni mumentu

sia lodatu e rìngraziatu

lu santìssimu e divinìssimu Sagramentu !

 

E qui tutti gli altri lavoratori ripetono anch' essi questi tre versi a voce più bassa. Indi il guidatore recita il Credo, pronun­ziando a chiara voce solo le prime parole ; similmente vien poi recitando molti Pater per molti Santi, protettori delle loro fatiche e delle loro bestie. Così se n'ha uno per San Catàuru (Cataldo), chi mantegna lu ventu e lu càudu, tanto necessarj a quegli infelici perché si sbrighino presto del compito del dì; uno per Sant'Aloi, chi proteggi l'armali ora e poi; uno per San Marcu glurienti, chi nni li manna pròspiri li venti, ecc. ecc. In fine, mentre le coppie delle mule fanno gli ultimi giri nell'aja, il guidatore canta gli ultimi versi:

 

Torna, ben torna:

viva san Giusippuzzu e la Madonna !

la Madonna e lu Signuri,

e viva lu santissimi! Salvaturi !

..................................

Santu Nicola !

beddu lu Santu e bedda la parola:

e a la turnata l'armaluzzi fora.

.......................

Santa Anna !

Sant'Anna ch' è la mtiri d' 'a Madonna,

viva la pruvidènzia chi nni manna !

...........................

San Cucuddu !

Quannu chi manciu eu nun vegna nuddu.

E finuti di manciarì

ni nni jamu tutti a spagghi'ari.

...................................

San Lorenzu !

San Vicenzu !

La pàgghia è fatta, e li muli 'n menzu.

..........................

San Simuni !

Porta l'acqua e l'acitu, e lu mazzuni.

...........................

San Pricopu !

Acchiana, scinni, e pìgghiati lu locu !

Quest'ultimo verso viene ripetuto in tre tempi; e le mule non appena sentono l'ultima parola che per pratica intendono, scap­pano allegramente saltando fuori dell'aja. Il guidatore allora, preso il mazzuni (mazzetto di fili di sparto o altra erba) ch'egli ha chie­sto nel mottetto penultimo e inzuppatolo nell'acqua e aceto, lava alle mule le feritucce che con la sferza ha prodotte; e quindi ab­beveratele, le conduce alla pastura.

Di prima sera, finiti di spagliare (nisciuta la pàgghia), e men­tre attendono che la minestra venga a rinfrancarli, i nostri contadini rimangono tutti sull'aja : qualcuno siede sul pagliolo o vi appoggia il dorso; i più si stendono su' vigliacci, quasi sempre bocconi, per dar riposo alle reni intormentite, com' essi si esprimono. Il vento è caduto, luccicano le stelle o splende la luna, la cam­pestre quiete è solo interrotta dal monotono stridere delle cicale. Così scorre qualche quarto d'ora; poi la minestra viene, in certi catinetti di terra cotta di forma e misura invariabili, che si addimandano limmunedda, e si mangia allegramente e si dànno fre­quenti baciozzi al fiasco.

Da questo momento cambia la scena. Nell'aja si inizia un ci­caleccio animatissimo, sorgono i motti pungenti, le frasi equivoche e a doppio senso, gli scherzi, le barzellette, i giochi, le sfide. I più maturi duellano con la lingua e gareggiano di spirito; i più vigorosi fanno prove di forza ed esercizj di lotta; i più gio­vani, capitomboli o giochi infantili, che sull'aja non si disdegnano da chi non è più fanciullo. Se c' è un poeta nella brigata, il che non è raro, egli improvvisa canzumi d'ogni fatta, rispondendo pronto e arguto agl' inviti, ai frizzi, alle ingiurie che gli si volgono a bella posta per eccitarlo di più: ogni canzuna ha un séguito di applausi con voci alte e battimani, e talora anche qualche altro suono di labbra imitante quello del Barbariccia dantesco, per provocare una archilochea risposta del poeta a protrarre così il canto improvviso a cui tutti pigliano gusto infinito. Nè difettano mai gli strambotti tradizionali ed i fiori o stornelli, i quali vengono cantati solita­mente da' giovani con accompagnamento di scacciapensieri (mariolu, 'nganna-larruni) o di zufolo (friscalettu), strumenti ch' essi abitual­mente sogliono recar in tasca. Così lietamente si spassano una o due ore, finché grado a grado la brigatella si dirada, essendoché Marcu è venuto alla chetichella con la sua rete a inviluppare l'un dopo l'altro quella bonissima gente. Marcu è un pescatore cosmo­polita, che piglia tutti, anche quelli che lo sentono nominare ora la prima volta: è il sonno!

                                                                                                    salvatore salomone-marino.