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giovedì 26 aprile 2018

§ 308 260418 Del lavoro, I carusi di Sicilia... e di Calabria.

   Accosto tristemente la storia, quasi ignota, e di certo volutamente tenuta nascosta, dello sfruttamento dei carusi delle miniere delle provincie di Agrigento (Girgenti, nel testo) e Caltanissetta a quella dei tanti braccianti e dei tanti minori loro sventuratissimi figli costretti ad attendere che un qualche galantuomo si decidesse a gettare dal balcone della casa patronale la loro paga, 'a palummedda'...
Carbonai di Calabria... anni '80! (Foto tratta da una monografia del TCI sulla Calabria).
    E' difficile credere agli stenti dei braccianti, dei muratori, dei marinari, dei 'discìpuli', per chi non li ha nemmeno visti all'opera. Il loro sudore, il loro sangue, la loro disperazione, è materia nota alle nostre terre impietrite dal dolore e dalla vergogna di tanto sfruttamento. U sàzju unn'u crida aru dijùnu, è un dìttiru molto diffuso, con le sue sfumature, in molte parlate di Calabria: il sazio non crede al digiuno, e non gli crede perché non vuole, non può e forse non deve capire. Senza forse, anzi.
    Oggi che la lotta di classe è qualcosa di patetico, di posticcio, di surrettizio, di anacronistico, possiamo dirlo che quelli calabresi e siciliani sono stati tra i peggiori padroni che gli strati e gli stati inferiori della popolazione potessero augurarsi. Non tutti, non sempre, ovviamente. 
Forse bisognerebbe rivedere certe date fondamentali della storia, almeno della nostra, e una di queste date da rivedere è quella relativa alla fine dello schiavismo, o, se il sazju non mi crede, quella della fine delle servitù, delle angarie di tipo feudale.
Certo, lavare bottiglie a piedi scalzi in una cantina, o fare 'a scippa' (sbancamento del terreno per impiantare un nuovo vigneto) senza l'ausilio di mezzi meccanici, non è lo stesso che scendere in una miniera di zolfo... come avviene ancora oggi ad altre latitudini, dove i disperati della terra, i dannati di questo mondo, sopravvivono in mezzo ai loro stenti e patimenti.
Avevo segnalato, su questo blog, la storia delle 'nostre' miniere dell'alto crotonese, e a seguire allego il link:
http://originicirotane.blogspot.it/2016/01/storia-dello-zolfo-e-dei-suoi.html.
    Tornando alla storia dei nostri 'fratelli' di Sicilia, mi pregio di esporre un testo che mi è stato gentilmente concesso dal signor Gregorio Caldara, fratello dell'autrice del brano, dottoressa Francesca Caldara, brano che è tratto dalla tesi di laurea da lei discussa presso l'ateneo palermitano nell'a.a. 1980-81. Leggendo dei carusi e delle loro miserrime condizioni di vita, tornate al link sopra riportato, e osservate le foto (una è qui allegata), provenienti dal sito del signor Gino Sulla... capirete il perché dell'accostamento tra Sicilia e Calabria. Almeno credo. 
    Buona lettura, bona lejùta.
                                                         
                                                                  **********
ESTRATTO DA FRANCESCA CALDARA, IL PROBLEMA DELLE MINIERE DI ZOLFO IN SICILIA TRA IL 1800 E IL 1910, TESI DI LAUREA PRESSO UNIPA, 1980-81.
c) I ‘carusi’.
    Se tristi erano le condizioni delle due categorie di lavoratori che abbiamo brevemente preso in esame, ben più miserande erano quelle di quei numerosissimi piccoli lavoratori che vivevano nelle viscere della terra per tanta parte della loro vita.
    Riguardo ai carusi, come pure per gli altri lavoratori sia delle miniere sia della campagna,sono state fatte varie inchieste; ma si sa bene come  in questi casi avviene che, per timore o per diffidenza, si celi sempre la verità.
    Infatti si può ben capire come le inchieste governative spaventino sempre i capi delle industrie e gli stessi operai: li mettono in guardia e, molto spesso, li inducono a nascondere il vero stato delle cose.
    Se ci fu mai lavoro difficile da ispezionare fu appunto quello delle miniere di zolfo siciliane: in quelle tane sotterranee ha sempre regnato il mistero più profondo.
    Di chi erano quei fanciulli che trasportavano lo zolfo a forza di spalla, rantolosi, macilenti, malnutriti, maltrattati? com'era organizzato il loro lavoro ? com'erano pagati? di che avevano bisogno ?
    Immense erano le difficoltà che si opponevano alla scoperta del vero: neanche il direttore delle miniere sapeva sempre i nomi di quei lavoratori e, molto meno di lui, li poteva sapere la Questura, perché le miniere erano poste generalmente lontano dall'abitato, isolate, con una torma di lavoratori che sciamava di continuo da un luogo ad un altro.
    Per cercare di saperne di più era opportuno che, coloro che erano incaricati di indagare sugli aspetti dell'industria zolfifera, si servissero dei mezzi più segreti e più sicuri senza dare alle loro in chieste quel carattere di ufficialità che intimoriva gli interessati.
    Un certo successo riportò il Senatore del Regno Giorgio Tamajo, prefetto di Girgenti,che riuscì, senza suscitare timori e sospetti, ad avere notizie esatte e precise sulla condizione economica, igienica e morale dei lavoratori nelle miniere di zolfo della provincia di Girgenti, ed in particolar modo sui "carusi".
    Carusu in dialetto siciliano vuoi dire ragazzo dai 9 ai 15 anni e corrisponde al guaglione napoletano e al masnà piemontese; nel linguaggio delle zolfare caruso era chiunque, giovane o adulto, fosse addetto al trasporto del minerale di zolfo in blocchi,ceste o sacchi dal fondo della miniera fino al piano di apertura.
    L'età dei carusi, comunque, variava da una miniera all'altra: l'età dei carusi nelle miniere di Licata variava dai 10 ai 18 anni; in quelle di Cianciana dai 6 ai 2O; in quelle di Palma di Montechiaro dai 7 ai 18; di Casteltermini dai 7 ai 19; di Favara dagli 8 ai 20; in molte miniere però i carusi avevano anche un'età che variava dai 7 ai 50 anni .
    I carusi costituivano la maggior parte dei lavoratori delle miniere: stando alle cifre statistiche riportate dal Tamajo, che fece ispezionare 72 miniere della provincia di Girgenti, nel 1880 su 3875 operai ben 2626 erano carusi .
    Dai dati su riportati se ne deduce che più di due terzi dell'intera popolazione zolfifera era costituita da carusi.
    Questi ragazzi, avviati precocemente ad una fatica inumana, ai quali era vietato il più ingenuo dei giuochi,venivano ceduti al picconiere il quale, anch'esso povero diavolo, per poter lavorare con gli attrezzi d'uso, doveva anche disporre dei carusi che, come animali da soma, usava per il trasporto a spalla dei sacchi ricolmi di zolfo estratto.
    Alquanto toccante ci sembra, al riguardo, ciò che scrisse la signora americana Jessie White Mario che venne nel 1890 in Sicilia per studiare le condizioni di quegl'infelici: ‘ci fermammo alla bocca di una cava attirativi da una frotta di fanciulli curvi sotto il peso di sacchi carichi sulle spalle,con lucernini in testa, faticando con le mani scarne a stringere il sacco dietro la nuca Quelli che salgono mettono gemiti che sembrano rantoli di moribondi. Sono nudi tutti, salvo una fascia intorno al corpo, sporchi, grondanti sudore, ansanti.     Appena toccano l'esterno il gemito cessa e corrono a scaricare il materiale ammonticchiato in luogo vicino Li guardai bene: i più piccini erano ragazzi come tutti i meschini che lavoravano in tenera età; magri, gracili, pallidi, tutti però con gli occhi rossi e gonfi...’  
    I carusi quando iniziavano la giornata lavorativa, prima di cominciare il trasporto del minerale, si facevano il segno della croce e poi aiutati dal picconiere, si adattavano sulle spalle il carico, baciavano la mano al picconiere stesso e via.
    Il peso del carico variava dai 40 agli 80 chilogrammi: era sempre sproporzionato alle loro forze.
    I carusi percorrevano con questi carichi di minerale sulle spalle le strette gallerie scavate a scalini nel monte, con pendenze talora ripidissime il cui angolo variava in media dai 50 agli 80 gradi .
    Di conseguenza nelle gallerie non esisteva alcuna regolarità negli scalini i quali erano generalmente più alti che larghi e ci si posava appena il piede.
    Quindi se si considera che quei meschini con questo peso sulle spalle dovevano salire delle scale talvolta ripide e spesso sdrucciolose, era logico che più degli altri dovessero riportare danni irreparabili in un organismo ancora non del tutto consolidatosi.
    Sotto i gravi pesi le loro ossa tenere cedevano, s'incurvavano cosicché queste povere creature rimanevano deformate e storpie per tutta la vita.
    Un certo dottor Giordano, medico di Lercara, così scriveva in proposito: ‘Gli ossi che più degli altri deviano dalla loro direzione e forma normale sono quelli delle spalle, le scapule e quelli della colonna vertebrale: per lo più una spalla rimane più bassa dell'altra, alcuni hanno la gobba avanti il petto, altri dietro sul dorso, tutti chi più chi meno riescono con la gabbia del torace viziata; poiché il male non si limita solamente all'esterna configurazione delle ossa: i visceri contenuti nella cavita toracica, specialmente gli organi centrali della respirazione e della circolazione sono compressi, spostati più o meno dal loro sito e impediti nella loro funzione e nel loro sviluppo’ .
    Da questa triste situazione derivavano tutte le conseguenze funeste e irreparabili di una pessima respirazione e circolazione sanguigna. Il Savorini riporta alcuni dati statistici di un certo generale Torre dove sono messe a confronto le cifre dei riformati per deformità della cassa toracica nei distretti minerari dell'isola con quelli dei distretti non minerari facendo una media tra gli anni 1874-78: i primi formavano una percentuale del 20%, mentre i secondi soltanto del 9% . 
    Desolanti sono poi i risultati delle ricerche sullo sviluppo fisico dei lavoratori delle zolfare fatte dal prof. Angelo Mosso e annotate nel suo libro "La fatica".
    Secondo il Mosso su 3672 giovani zolfatari della provincia di Caltanissetta, che nel quinquennio 1881-84 si presentarono alla leva, soli 253 furono dichiarati abili al servizio militare, cioè appena il 6,87% .
    Il Mosso fu mandato in Sicilia in qualità di medico militare e gli furono affidate le operazioni di leva dell'isola.
    Così egli scrive: ‘...io visitavo i coscritti... ed avevo intorno a me una fila di giovani nudi, anneriti, magri... Talora ci passavano dinanzi dei coscritti di comuni interi, tra i quali non poteva trovarsi un giovane che fosse abile alle armi, tanto gli stenti e la fatica avevano deformate e rese deboli quelle popolazioni. I sindaci erano umiliati di tanta degradazione. - Sono carusi, mi dicevano, cioè operai che fino da fanciulli hanno lavorato  a portare lo zolfo’ .
    L'onorevole Colajanni, trovando alquanto esagerate le conclusioni del Mosso, volle fare ulteriori ricerche comparative tra contadini e zolfatai.
    Dalla comparazione egli trovava che tra i riformati il rapporto tra contadini e zolfatari non era molto dissimile e ciò perché anche i contadini conducevano una vita di stenti.
    Il Colajanni, pur giustificando l'elevato numero di riformati di Caltanissetta e di Girgenti a causa della bassa statura, considerata questa uno dei dati antropometrici dell'elemento etnico, ammetteva che l'azione esercitata dal trasporto sulle spalle di un peso che variava dai 30 agli 80 chilogrammi, comunque sempre sproporzionato alle forze del caruso, che a quel lavoro veniva sottoposto in tenera età, era pur sempre nocivo alla sua salute ed al suo sviluppo fisico .
    Secondo le cifre riportate negli annali di Statistica e nel Bollettino del Ministero della Guerra sui riformati alla leva per deficienza di statura e per altri vizi organici(ernia, gibbosità, gracilità, ecc.), nella provincia di Caltanissetta nel quadriennio 1881-84 il numero dei riformati fu del 37,23% sul totale degli iscritti dei quali il 51,28% fu riformato per il solo difetto di statura.
    Ma se le malattie toraciche erano il principale nocumento che veniva alla costituzione fisica dei carusi, esse non erano però il solo.
    Nelle miniere si sprigionavano spesso gas irrespirabili come l'acido solforoso, l'idrogeno solforato, l'idrogeno protocarbonato, che, non di rado, provocavano la morte degli operai.
    In molte zolfare, come quelle di Palma di Montechiaro, vi si lavorava finché si poteva resistere; in altre, come a Favara, si faceva qualche apertura; in nessuna venivano adottati mezzi validi per scongiurare il pericolo: in molte zolfare non si sapeva che cosa fosse la lampada di sicurezza!
    Gli effetti deleteri dei gas si accrescevano quando i minatori erano costretti a pernottare nel l'interno delle zolfare o in grotte da loro stessi scavata a fianco della miniera.
    In questi casi essi si trovavano esposti per tante ore non solo ai pericoli dei gas, ma anche a quelli delle frane e dei crolli delle volte delle gallerie; a quelli degli incendi, non di rado causati dagli stessi operai per punire l'ingordigia del coltivatore e le sue angherie; ed infine ai pericoli dovuti alle infiltrazioni d'acqua.
    Secondo un'ordinanza emanata dai prefetti delle province siciliane nell'anno 1833 gli ingressi alle gallerie avrebbero dovuto essere muniti di cancelli ben solidi ed essere tenuti chiusi nelle ore in cui non si lavorava: in realtà questi accorgimenti non venivano rispettati.
    La suddetta ordinanza prefettizia prescriveva che ogni zolfara avrebbe dovuto possedere degli apparecchi di soccorso in caso di disgrazie, quali lampade di sicurezza, pompe anti-incendio, ventilatori; i noltre dava l'elenco dei medicinali e degli strumenti chirurgici da tenersi presso le zolfare, ma queste rimanevano prive tanto di mezzi di soccorso che di medicinali, senza dire poi che il medico si trovava in paese, talvolta molto lontano dalle zolfare stesse.
    La salute e la vita dell'operaio non erano quasi per niente tutelate dai molteplici pericoli che derivavano dalla mancata osservanza delle più elementari norme di sicurezza: da ciò derivava la frequenza molto alta di infortuni cui andavano incontro gli zolfatari.
    Secondo alcune cifre statistiche tolte dalla Rivista del servizio minerario del Regno negli anni che vanno dal 1889 al 1894 su una media di 30.000 operai circa si potevano contare più di cento casi di infortuni .
    La cosa più dolorosa, poi, era che il più delle volte gli operai mutilati ed agonizzanti morivano come cani, adagiati su un semplice straterello di paglia dovuto alla ‘carità’ del gabelloto, senza una voce amica che rendesse loro meno dolorosi gli spasimi della morte, lontano dalla famigliola che l'aspettava a fine di settimana e non riceveva che l'annunzio dell'infausto avvenimento.
    Alle famiglie dei morti o dei mutilati per infortuni non spettava alcun compenso; solo qualche gabelloto più umano regalava per ‘propria generosità’ qualche centinaio di lire alle vittime di una così grave perdita.
    Quando accadeva un disastro in miniera la polizia riusciva a sapere ben poco: specie se dietro l'infortunio si nascondeva un reato non c'era verso di appurare la verità, né dai carusi né dai picconieri, poiché costoro si sentivano in dovere di tacere in nome di uno strano quanto straordinario principio di solidarietà, anche quando essi stessi ne erano vittime.
    Ma oltre alle disgrazie ‘naturali’ che affliggevano i minatori altre piaghe rendevano ancor più penosa la già triste sorte dei carusi: quantunque la legge vietasse di ammettere al lavoro negli opifici industriali, nelle cave e nelle miniere i fanciulli che non avevano compiuto l'età di 10 anni , pure erano molti i ragazzi che non avevano l'età prescritta dalla legge.
    Questa veniva facilmente elusa dai genitori, che spinti dall'avidità o, più spesso, dal bisogno, ‘affittavano’ i loro figli in cambio di una somma che variava secondo l'età del caruso da 100 a 300 lire che dovevano restituire quando i carusi andavano a lavorare altrove.
    Questa somma detta ‘anticipo’ o ‘soccorso morto’ veniva sborsata dal picconiere in denaro sonante ai genitori del fanciullo che, alla stregua di un oggetto qualsiasi, veniva così venduto.
    Nelle 72 miniere esplorate dal Senatore Tamajo vigeva l'usanza del ‘soccorso morto’.
    Per mezzo di esso, il caruso era incatenato al picconiere, il quale, senza questo anticipo non avrebbe potuto che assai difficilmente procurarsi dei manovali.
    Il caruso non riceveva altro che acconti, quasi sempre in natura, che consistevano in farina di grano, in olio e, spesso, in solo pane: questi generi, sempre di pessima qualità, venivano poi conteggiati ai poveri carusi ad un prezzo superiore al loro effettivo valore.
    Così l'usura pesava sui carusi che in questo modo non sempre giungevano a liberarsi dal giogo del ‘soccorso morto’: si spiega in tal modo il fatto che nelle miniere di Aragona, di Comitini, di Castltermini e di Favara si trovassero carusi di 40 o, addirittura, di 50 anni! 
    Il caruso, divenuto adulto, se veniva a sapere che in un'altra miniera avrebbe ricevuto un migliore trattamento economico, cercava di emanciparsi: restituiva l'’anticipo’ al picconiere e l'abbandonava.
    Ma pare che, talvolta, se il caruso era nullatenente o ‘poco onesto’ un bel giorno lasciava con un palmo di naso il suo picconiere e andava a lavorare presso di un'altro, intascando così un altro anticipo: operazione che ripeteva più volte .
    Se il caruso scappava dalla zolfara in cui lavorava e andava a trovare lavoro in un altro campo minerario, invano il picconiere così frodato si appellava ai sindaci e alla polizia: la legge non riconosceva questo debito, ‘...e il picconiere restava scornato e deriso e non potendo trar vendetta sul caruso disertore sfogava il suo livore con i carusi che gli eran rimasti’.  
    A ragione la signora White Mario, parlando del ‘soccorso morto’ lo definisce ‘affittanza di carne umana’. 
    Eppure il Colajanni considera esagerate certe crudeltà che si raccontavano sul conto dei carusi che certuni dipingevano come se fossero stati assolutamente schiavi dei loro picconieri: per lui i rapporti tra picconieri e carusi erano improntati generalmente a quel carattere di durezza che prevaleva nelle classi inferiori della Sicilia: come il contadino si credeva in diritto di bastonare la moglie e i figli, così lo stesso diritto credeva di avere il picconiere verso il caruso .
    Quindi abbiamo visto come la presenza del caruso fosse una componente essenziale per l'industria zolfifera, che non di rado determinava discussioni e litigi tra i picconieri che cercavano di accaparrarseli in tutti i modi: talora da questi litigi poteva scapparci il morto.
    Emblematico, al riguardo, appare un fatto di cronaca nera verificatosi a Comitini il 24-10-1907: a seguito di un ‘ragionamento’ che riguardava appunto un caruso passato alle dipendenze di un altro il discorso degenerò al punto tale che le parti si affrontarono a rivoltellate lasciando sul terreno tre persone uccise: Alfonso Alessi da una parte e i fratelli Lorenzo e Salvatore Conte dall'altra .
    Tale stato di cose, comune a tutti i centri minerari, non poteva essere accettato da tutti e da qualche parte, per eliminare un tale sconcio, si pensò di creare una banca che potesse sovvenzionare le famiglie in bisogno onde evitare la cessione dei figli.
    Col passare degli anni da qualche parte si pensò di alleviare le sofferenze dei lavoratori con l'applicazione delle macchine per l'estrazione dello zolfo, ma una tale idea non trovò pratica attuazione per ragioni economiche poiché dovunque fosse stato installato l'impianto meccanico si sarebbe di fatto verificata una diminuzione di manodopera e, quindi, di guadagno.
    Un discorso simile si potrebbe fare a proposito della necessità di una qualche legge che regolasse il lavoro minorile.
    Il Colajanni, il Sonnino ed altri proposero dei provvedimenti in tal senso ed un maggior rigore nel fare rispettare la normativa esistente.
    Lo Stato aveva il dovere di assicurare un ‘minimum’ di alimentazione a quei carusi ai quali impediva di guadagnarsi il pane con il loro lavoro; inoltre avrebbe dovuto regolare le ore di lavoro e fissare l'età minima per il lavoro nelle miniere di zolfo.
    Purtroppo questi provvedimenti restarono nell'ambito delle buone intenzioni a causa delle particolari condizioni dell'organizzazione capitalistica di fine '800 dell'industria zolfifera che aveva le sue ragioni di vita nello sfruttamento ad oltranza dei fanciulli.

d) Le donne in miniera.
    Nell'ambito del nostro lavoro merita di essere presa in considerazione anche la condizione della donna che lavorava nelle miniere di zolfo in Sicilia.
    Già la condizione stessa della donna in Sicilia, nel secolo scorso, era decisamente differente da quella del resto d'Italia.
    La donna meridionale in genere, fino a poco tempo fa, appariva troppo lontana dalla vita europea, priva di istruzione, in virtù di una concezione culturale di tipo orientale,impacciata nelle sue modeste pratiche domestiche,chiusa tra le quattro mura della casa,quasi come una serva dell'uomo.
    D'altra parte il siciliano, forse per uno spirito di cavalleria di tipo medioevale o per un certo orientalismo ereditario, non permetteva alla sua donna di occuparsi di lavori esterni alla casa; egli si sentiva capace di mantenere da sé solo la famiglia e non permetteva, geloso com'era, che la sua donna si mostrasse in pubblico mettendo a repentaglio la sua onorabilità.
    A testimonianza dell'innata e profonda gelosia dell'uomo siciliano, il Pitrè riporta un canto popolare:
    ‘Cull'acqua stissa tu non t'ha lavari, Ca puramenti mi nni gilusìu, Quannu ssa bedda facci t'ha lavari, Ti l'ha lavari cu lu sangu miu!’ 
    Pertanto il popolano di Sicilia voleva che la sua donna sapesse essere solo buona moglie per lui e buona madre per i suoi figli.
    Tanto è vero che le donne come operaie nell'industria mineraria erano numericamente scarse: esse lavoravano soltanto in certi mesi dell'anno,in estate, di solito all'aperto poiché trasportavano generalmente il minerale dalla bocca della miniera fino alla catasta.
    Risulta,poi, che non in tutte le zolfare si trovassero donne come lavoranti; al riguardo così si legge in Caruso-Rasà: ‘Solo nelle zolfare di Cianciana, Casteltermini, Lercara è esercitato il lavoro delle donne: in questi tre gruppi di miniere le operaie non hanno mai superato il numero di 150.’ 
    Stando ai dati riportati dal Senatore Tamajo sulle 72 miniere da lui ispezionate, nel 188O le donne sarebbero state 114 e distribuite nelle zolfare di Cianciana (90), di Favara (13), e di Casteltermini (11).
    Anche le cifre riportate dalla signora White Mario non si discostano molto dai suddetti dati: nell'anno 1890 solo nella provincia di Girgenti si trovavano 55 fanciulle sotto i 15 anni che lavoravano all'interno insieme ai carusi; 53 fanciulle,sempre al di sotto dei 15 anni,che lavoravano all'esterno; ed infine 20 donne adulte che lavoravano fuori .
    In totale, quindi, le donne, in prevalenza fanciulle, sarebbero state 128: da ciò se ne deduce che il numero di queste lavoranti fosse alquanto stabile.
Anche se il numero delle donne che lavoravano in miniera non era molto numeroso, tuttavia anch'esse costituivano un'altra piaga del lavoro minerario, non tanto per la pesantezza del loro compito quanto per ragioni di ordine morale.
    Abbiamo già detto come la maggior parte di esse lavorasse in estate e fosse impiegata al trasporto dello zolfo dalla bocca della zolfara alla catasta del minerale: quantunque non fossero occupate in lavori sotterranei, esse si trovavano sempre a contatto con uomini semi-nudi,spesso dormivano nelle miniere perdendo così fin l'ultima ombra di pudore.
    Tali donne erano generalmente giovinette dai 9 ai 16 anni,come nelle miniere di Cianciana.
    Giunte le fanciulle ai 16 o ai 17 anni veniva no per lo più ritirate dalle famiglie; ma ormai il maggior danno era loro venuto,poiché per la disistima in cui erano poi tenute,erano portate a darsi alla prostituzione . 
    Non mancavano esempi di zolfare in cui le donne lavoravano insieme ai carusi all'interno: la signora White Mario riportava la cifra di 55 fanciulle che lavoravano dentro la miniera:ivi per la temperatura assai elevata non si osservava affatto la decenza; non solo gli uomini andavano quasi ignudi ma anche le donne erano coperte di cenci svolazzanti.
    La media del salario giornaliero delle donne che lavoravano nelle miniere dell'agrigentino, nel 1880 si aggirava sui 70-85 centesimi corrispondenti all'incirca alla paga dei carusi minori di 10 anni. 
    Anche in raffineria le donne venivano occupate in attività secondarie: a differenza di quelle che lavoravano in miniera il loro numero era considerevole in rapporto a quello dei lavoranti uomini.
    Nella Reale Raffineria del Molo di Girgenti su 29 lavoratori ben 12 erano donne: costoro erano pagate esattamente la metà degli uomini .


venerdì 20 aprile 2018

§ 307 200418 Giuseppe Barberio: U trisoru da timpa du Pignataru.

Ritorno con questo scritto, dopo una lunga assenza da questo blog dovuta soprattutto ad un tristissimo evento familiare, oltre che ai tanti impegni, non ultimo quello della revisione e correzione del 'Repertorio lessicale della parlata di Cirò e della Marina', che - devo ammetterlo - sta crescendo molto, spero anche in qualità, grazie all'impegno di quanti, sulla pagina fb 'Note di dialetto cirotano' si stanno prodigando nell'offrire detti e parole della nostra parlata, a volte sottoponendosi ad un lavoro mnemonico non indifferente, che va al di là dei risultati ottenuti. Va da sé che li ringrazio tutti come dal primo giorno ho sempre fatto.
Anche il professore Giuseppe Barberio (Crucoli, 1954) è iscritto a quella pagina fb, sulla quale ho potuto notare la compostezza dei suoi interventi, sempre misurati e improntati a grande cordialità, e con 'cordialità' voglio significare l'assoluta assenza di quella supponenza che troppo spesso si può avvertire in tanti che non sono capaci di governare la propria preparazione. Trovo, e aggiungo, che il professor Barberio ha quella umanità 'buona' che sprona altri ad osare, a scrivere comunque, pur di lasciare un segno della vita e della storia delle origini, della provenienza, della comune appartenenza: l'ho notato in qualche commento dove, in fondo, lascia intendere che, al punto in cui siamo, è più importante tracciare un segno, offrire un appiglio, segnare una forma di ricordo, di rimembranza, un oggetto di studio, piuttosto che rinunciare, magari a causa di incertezze su come si debba scrivere in dialetto. Gli do ragione senza alcun dubbio, sebbene da anni, nel mio piccolo, mi stia ingegnando su come si possa trascrivere la nostra parlata... ma, vivaddio non si può solo aspettare e rimandare, anche a costo di scrivere male: qualcuno capisce, e aiutiamo questo qualcuno, magari ancora di là da venire, ad avere elementi validi di studio.
Il componimento che segue è apparso in forma pubblica su fb, per cui spero di fare cosa non sgradita al professor Barberio (che ovviamente ringrazio) se la riporto su questo blog.
Per ora la forma grafica è quella proposta dal Barberio, differente da quella che uso io nel 'Repertorio' e che magari, per curiosità o sano confronto, provvederò a giustapporre alla mia, anche se vi sono differenze fonetiche (non troppe, in realtà) tra il parlare crucolese e quello marinoto.
Beh, mo' avàsta, bona lejùta... e bona traduzziona.
Catàvuru.

U TRISORU DA TIMPA DU PIGNATARU
Vuji tutti chi lejiti shtat’attenti
ca chiru chi vi voju mo’ cuntari
vi caccia s’u criditi d’i pezzenti
vi fa mangiari viviri e cantari
e’ ‘na shtoria chi vena di vecchjani
cuntata ‘nzem’a pinni e calamari
cusennu pezz’a sacchi a subba mani
davant’a vamp’e shtizzi 'e foculari
c’è ‘nu trisoru rannu a ssu’ pajisu
chù rannu 'e tutt’i gutti e cerri chjini
‘e tutt’i terzaluri sutta pisu
‘e sardi ‘e pipi ‘e carna e robbi fini
‘un c’è olivu ranu panu e vinu
né pashta shcattariata ccu’ sardeddra
‘unn’è chjù virda ‘a terra du vicinu
ca ogne ‘e cosa è brutta ‘a chjù beddra
‘mbruntata a ssu’ trisoru all’ammucciata
jettatu ‘nda ‘na serchja ‘e timpa forta
du capu ‘mbriacatu ‘e ‘n’accroshcata
‘e banditi e brigant’a mana morta
mo’ c’è rimasht’a sul’a ‘a purverata
abbannunnata all’acqua e ra ru ventu
subb’a timpa senza scalinata
ricota tutt’i jurni ‘mparramentu
ccu’ pasiri e nidi ‘e crishtareddri
‘ndi buchi chi canuscinu mill’anni
e sanu tempi brutti e tempi beddri
da grutta ch’è de ‘mpedi e nun fa danni
ssa’ timpa ‘nguacciu ‘a coddra ‘e fortarizza
chi guarda seria ancora verz’a Sila
s’avanta ppe’ ‘nu munnu c’assanizza
‘e chini chi chjù cunta minta ‘nfila
crishtareddra chi scinni ‘nda ssa vaddra
e canti ‘nzemi a tutti l’atri oceddri
‘i matti ‘i voshchi tutt’u munnu abbaddra
a frishchi shtridi e gridi tantu beddri
e avita po’ t’azi ‘nda ssu celu
portata d’i currenti ‘e n’aria fina
e va luntana e vuli subba Lelu
e voti e ti fa sempi chjù vicina
chjaniji po’ leggera ad ali aperti
‘e musica tu righi tutt’u celu
‘a menta si fa queta a soni shperti
e duciu fa ru coru com’u melu
po’ ti shta ferma e jett’a calamita
ca vipiri e lucertuli tu vidi
e scinni ‘nterra a n’attimu ccu’ sita
ccu’ l’ugni tu l’agguanti e ‘un ti fidi
e tutti quant’i porti ‘nda ssu nidu
c’ashpetti ccu’ ‘na fama nova ‘e jurni
a ttija je ssu’ munnu pur’affidu
ppe’ tutti vena sempi menzijurnu
ccu’ sulu lampi e nenti subb’a banca
nenti chi po’ mindiri ‘nda vucca
e chini vula tantu nun si shtanca
e porta ‘ncuna cosa chi ti ‘mmucca
ohi! timpa chi sa essiri ricchizza
shpuntata subb’a scioddra ‘e petrusinu
chi shta a guardiana ‘e Lelu e da cannizza
e gavit’e luntanu ogghju e vinu
m’ha’ vishtu guagnuneddru ‘mmenz’a crita
ccu’ archi e frecci a caccia ‘e lucertuni
‘nda capanneddri ‘e fraschi e sciall’e sita
ccu’ cati ‘e cervinari e mericuni
o ccu’ palloni ‘e pezzi ‘nda ‘na porta
fatta ccu’ duji petri misi ‘nterra
o ccu’ curriji a pali menzi shtorti
ca si jocava ‘mpacia e senza guerra
mo’ dicimi s’addaveru tu manteni
‘ndu coru ‘e petra l’oru chi ci lucia
ca trovamu ccu’ ssi righi chi ‘ndi veni
ci tena sangu russu a vucca ducia
allura shtatt’attentu ca ti portu
a ru trisoru veru ppe’ derittu
t’avertu ca è essiri chjù fortu
a shtari a vucca chjusa chjina e cittu
t’e reshpigghjari all’ura ‘e menzanotta
e culinulu ‘e jiri a ru canalu
avant’a gghjesa ‘e l’acqua bona’e gotta
chi cura de l’anima e du coru ogn’e malu
‘e linchjiri valentu ‘nu bummunu
e po’ a vucca chjina ‘e mmenz’a gghjazza
va pija ‘a via chi parta du comunu
va verz’a Nuzziata senza frazza
ca shconti a chini vo’ parrari
e ‘mbeci vo’a ca sulu rap’a vucca
o a chini ti vo’ shpingiri a cantari
o a chini parra parra ca t’allucca
shconti pur’a chini cunta fatti
ca ti vo’ fari ririri chjù fortu
ricorditi ca tu à fatt’i patti
tenìri ‘a vucca chjina o viaggiu mortu
ti serva subb’a timpa tutta l’acqua
ca ddrà ‘e jiri verz’u Pignataru
e a shpruzzu l’e jettari ca v’adacqua
l’eriva ‘e ‘nda serchja a poshtu shparu
“rapiti sesimu” grida tu chjù fortu
a vucia chiara e netta ca ti senta
s’allarga si shpalanca ‘na gran porta
c’a vita natural porti a menta
e scinn’a shcala ‘e marmu ca ti porta
druv’è ‘nu gran trisoru chi t’ashpetta
‘na cosa ducia ducia chjù ‘e ‘na torta
‘na shtoria c’unn’ha’vishtu e cunn’ha’ lettu
davanti a ttijia c’è e tutta ‘e oru
‘na jocca ranna ccu’ ri puricini
su’ dudici e ‘nu zumpu fa ru coru
comincia mo’ ‘a mmidia di vicinu
si ‘mbeci ‘a timpa shcruda nun si rapa
amu shbagjiat’a lingua ca ddrà ssutta
chi parra crucuddrisu nun ci capa
su’ tutti forishteri ‘nda ssa grutta.

 
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Il prof. Barberio così introduceva questo suo componimento su fb:
Questa è ancora più lunga e difficile da leggere, ma mi auguro che ci sia qualche volenteroso crucolese che accetti la sfida e provi a leggerla tutta; mi farebbe tanto piacere. La poesia ha il merito di recuperare il fascino di un'antica leggenda paesana. Merita di essere ricordata se non fosse anche per il fatto che la 'timpa' più grande di Crucoli resta ancora lì da sempre a sfidare i secoli futuri. Perciò, scherzosamente, crediamoci ancora in questa fascinosa leggenda. Mai dire mai!