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domenica 11 settembre 2022

§ 367 110922 Dal feudo alla ndrangheta.

 'Dal feudo alla ndrangheta', il titolo può sembrare peregrino o irrituale, quasi una boutade... Forse perché ormai riusciamo a dimenticare anche ciò che non abbiamo mai saputo -coscientemente saputo- che significa: indagare ciò che è entrato a far parte della nostra natura, ciò che abbiamo metabolizzato, ma non accettato o giustificato, ovviamente, fortunatamente, e... meno male!

Carlo Magno, immagine dal web.

Non sarò certo il primo, né l'ultimo, a domandarmi come mai la feudalità eretta a sistema, occhiuto, ubiquo, capillare, si sia protratta nel Sud d'Italia, isole comprese, a lungo come forse in nessuna altra parte d'Europa. A noi meridionali è toccata questa zavorra incredibile che sono le organizzazioni criminali erette a sistema. A noi e a nessun altro popolo d'Europa, perlomeno non in queste forme asfissianti, onnipotenti, è toccato convivere con un tale stato delle cose. E questo stato delle cose si è esteso, purtroppo, a macchia d'olio per il mondo: sono cose che tutti sanno o fingono di non sapere, che ignorano o fingono di ignorare, di cui non parlano o di cui fingono di non parlare... ''Orbu, surdu, e taci, campi cent'anni 'n paci'', no?

Una rovina... ''Fin a quann s'ammàzzini unu ccu l'atu'', ''fino a quando si ammazzano tra di loro'', ma non funziona così, perché non si tratta di due insiemi che non si toccano, i cammini delle mafie e della società civile sembrano viaggiare per linee asintotiche, ma è pura illusione, vana, estrema speranza residuale. Basta che elementi di questi due ''insiemi'' vengano a contatto perché ci sia la conflagrazione, l'esplosione del conflitto, il dramma e la tragedia. O la resa.

Ma cosa c'entra la feudalità con la mafia o la ndrangheta?

Il procuratore generale presso la cassazione di Napoli, Giovanni Masucci, così dice nella ''Avvertenza'' alla seconda edizione (1883) della ''Storia degli abusi feudali'' di Davide Winspeare, che era apparsa nel 1811: '' L'editore ha creduto di far cosa grata ai lettori aggiungendo all'opera di Winspeare una lunga monografia di Fustel de Coulanges, tolta dal reputatissimo periodico intitolato la Rivista dei due Mondi. Lo scrittore francese ha raccolta una larga messe di documenti e di notizie attissimi a rischiarare sempreppiù l'èra feudale; sicchè utilmente questa monografia va congiunta al lavoro, quantunque incompleto, del nostro illustre concittadino (Winspeare, n.d.r.).''

Nel prosieguo della ''Avvertenza'' il Masucci osserva che: ''È mio debito però di avvertire che tutti codesti principii lo scrittore francese li ha tolti dalle opere del nostro Giovan Battista Vico senzachè egli si fosse nemmeno degnato di nominarlo. E così suole per l'ordinario accadere. Non di rado gli stranieri saccheggiano i grandi monumenti della sapienza italica; se ne appropriano i germi; li fecondano e li svolgono coi loro studii pertinaci, e con indagini accuratissime; e poscia li mandano di qua dalle Alpi come un loro trovato ed una loro creazione. Avviene delle opere dei nostri sommi quello stesso che incontra alle nostre materie grezze, le quali trasportate oltremonti ed oltremari ci ritornano manifatturate, ripulite ed in mille guise trasformate.

Vuolsi però dar lode agli stranieri per la lena infaticabile onde essi studiano nelle opere dei nostri antichi, e ne fecondano i grandi concepimenti; mentre noi, ignavi nepoti, sovente le lasciamo negli scaffali neglette e polverose.''

E vediamo ora quali sono alcuni di ''codesti principii' che il De Coulanges espone nella monografia che l'editore ha allegato all'opera di Winspeare, vediamoli non senza il preventivo invito a riflettere su quali e quanti siano i punti in comune tra sistema feudale e sistema criminale organizzato, quasi che il secondo sia la prosecuzione naturale del primo, rammentando ciò che il Masucci afferma nel suo commento a ''Le origini del sistema feudale'' del De Coulanges: ''Più tardi, quando il corso dei secoli ebbe modificato tutta l'esistenza umana, un tal contratto sembrò ingiusto, ed è certo che non corrispondeva più allo stato politico ed economico delle società novelle, ma l'istoria deve attestare che vi è stato un tempo in cui questo contratto è stato conforme agli interessi ed ai bisogni degli uomini.''  Quasi a domandarsi, mi viene da pensare, se sia stata la feudalità, questo contratto di protezione e omaggio, a cercare i popoli, o se siano stati i popoli ad invocarla... e a farne nascere un altro di contratto, quello che viaggiava sui pizzini, un tempo non lontano. Non lontano? Viaggiava? Ma che dico?!

IV. - DEL PATRONATO E DELLA FEDELTÀ DOPO CARLO MAGNO.

    Carlo Magno rialzò l'autorità monarchica; egli prese il titolo d'imperatore, fè rivivere le regole amministrative dell' impero romano, le sue tradizioni e fino il suo linguaggio. Nulladimeno si discostò sopra un punto dall'antica politica dell'impero; invece di proibire il patronato, lo autorizzò formalmente. Egli ne fece una istituzione regolare e legale; gli diede luogo nei suoi Capitolari. Permise agli uomini liberi di raccomandarsi, cioè a dire di mettersi in vassallaggio, di darsi ad un signore e prestargli un giuramento di fedeltà. Luigi il Buono fece come lui. Carlo il Calvo andò più lungi: pretese che ogni uomo nel suo regno avesse un signore e fosse vassallo. Non possiamo credere che questi tre principi fossero così ciechi da non vedere che questa istituzione dovea un giorno infrangere il loro potere; ma essi trovavansi alla presenza d'uno di quei fatti sociali contro i quali niuna forza può lottare. E vero che Carlo Magno metteva al di sopra dell'autorità signorile la sua propria autorità. Voleva che ogni uomo libero, prestando il giuramento di fedeltà a colui che facea suo signore, prestasse lo stesso giuramento al re; ma esisteva in ciò una contraddizione. I doveri della fedeltà erano talmente rigorosi, talmente illimitati, costituivano una subordinazione così completa di tutto l'essere umano, che era moralmente impossibile di essere ad un tempo il fedele d'un signore ed il fedele d'un principe. Occorreva scegliere.

    Non v'ha dubbio che le classi inferiori avrebbero preferito obbedire al principe, se si fossero credute abbastanza protette da lui. Esse non avrebbero subito l'autorità signorile, se l'autorità monarchica avesse potuto sostenerlo e stendere la sua mano fino ad esse. Carlo Magno lo sapeva; e così ripete cento volte nei suoi Capitolari che vuol proteggere i deboli. «Che le vedove vivano in pace, egli dice, gli orfani, tutti coloro che sono deboli vivano in pace sotto la nostr difesa, e che si rispettino i loro diritti». Impone ai commessarii imperiali di prender specialmente la difesa dei poveri; ma la frequenza stessa delle sue raccomandazioni a questo riguardo fa dubitare della loro efficacia. Istruzioni tali non si incontrano mica negli stati in cui i diritti dei deboli sono realmente ri­spettati.

    Facilmente si forma un'illusione sull'epoca di Carlo Magno. Siccome le generazioni successive furono smisuratamente infelici, si figurarono il suo regno come un tempo di pace interna, di ordine, di proprietà. Si leggano i Capitolari di questo principe, essi sono pieni di tratti che rivelano la miseria pubblica, le sofferenze ed il malcontento delle popolazioni. Egli stesso, nel suo linguaggio ufficiale, ci dice con quali disordini aveva da lottare. «Che gli uomini liberi, egli scrive, non sieno più costretti dai conti a lavorare i loro prati, a fare le loro coltivazioni o le loro messi». «Che nessuno, altrove egli dice, sia abbastanza ardito di stabilire di sua propria autorità nuovi pedaggi sui fiumi o sulle vie».

    Si producevano iniquità d'un'altra natura. «Non vogliamo, dice ancora Carlo Magno, che i piccoli proprietarii siano oppressi dai grandi; non vogliamo che oppressi dalla furberia o dalla violenza siano costretti a vendere o donare le loro terre». Nell'anno 811, numerosi reclami giunsero all'orecchio del principe da parte di quella classe di uomini che la lingua dell' epoca chiamava i poveri. Ora dobbiamo intendere che quei poveri non erano gli stessi uomini che si chiamano con tal nome nelle moderne società. Al disopra degli schiavi, dei coloni, dei livellarii, dei proletarii, si elevavano «quei poveri» che non erano altri che i piccoli proprietarii di allodii. Questi uomini, che sarebbero quasi dei ricchi nei nostri stati democratici, erano realmente poveri e deboli nella società di quei tempi. Erano essi che più soffrivano. Non aveano la sicurezza del servo che il suo potente padrone proteggeva. Erano quotidianamente minacciati nella proprietà e nella libertà. Questi poveri gridano verso di noi , dice Carlo Magno; sono spogliati delle loro proprietà; se uno di essi nega di dare la sua terra, si trovano mille mezzi per farlo condannare in giudizio, o lo si rovina gravandolo oltre misura dei pesi militari, fino a che non è obbligato a vendere di buono o cattivo grado ciò che ha o anche a darlo per niente».

    L'autorità pubblica avrebbe dovuto difendere questi uomini; ma erano al contrario i depositarii dell'autorità che li opprimevano; erano i conti, i centurioni, i vescovi, che quegli uomini accusavano di spogliarli. Car­lo Magno era ridotto ad emettere questa singolare prescrizione: «proibiamo ai nostri funzionarii di acquistare con mezzi fraudolenti le proprietà dei poveri o di rapirle per forza». Allorchè Luigi il Buono, prendendo possesso del trono, fece fare un'inchiesta generale, si assodò «che un'incredibile quantità di uomini erano stati oppressi, spogliati del loro patrimonio, privati della loro libertà». Così, quella monarchia di Carlo Magno, quantunque ci sembri possente, era stata incapace di sostenere i deboli. Sotto i suoi successori, non incontriamo le stesse doglianze, perchè non vi fu più lamento. «Tutti i disordini crebbero in quell'epoca, dice un annalista parlando del regno di Luigi il Buono; il regno era coverto dalla desolazione, e la miseria degli uomini andava crescendo di giorno in giorno». Molti cronisti aggiungono che truppe di briganti scorrevano il paese. La maggior parte di quei grandi, che figurano nella storia dei Carlovingi, erano capi di bande armate. Ognuno di essi teneva soldati, ed il re non ne aveva. Essi aveano la forza che può a suo talento opprimere o difendere, ed il re non possedeva verun mezzo per esigere l'obbedienza o dare la sua protezione. Avvenne allora quel che era avvenuto ogni volta che si verificarono le stesse circostanze. Il debole, il quale non trovava appoggio nell'autorità pubblica, implorò l'ajuto d'un potente. Ciò che Cesare diceva degli antichi Galli può ripetersi per gli uomini del IX secolo. «Ognuno si diede ad uno dei grandi per non essere in balia di tutti i grandi» .

    I contratti di patronato, di raccomandazione, di fedeltà, si moltiplicarono; gli uomini si resero clienti, fedeli, vassalli per vivere in pace, e sentendosi abbandonati dalla sovranità , si diedero ad un conte, ad un vescovo, ad un barone, che si fece loro signore, cioè a dire protettore e padrone nel tempo stesso. Ecco, secondo un antico contratto, un esempio di queste convenzioni: «Gli uomini liberi del paese di Wolen, stimando che Gontrano, uomo potente e ricco, sarebbe per essi un capo buono e clemente, gli offrirono le loro terre a condizione che essi ne godrebbero come beneficiarii, ereditariamente, sotto la sua protezione, pagandogli un censo annuale». Quegli uomini cangiavano il loro allo dio in beneficio, la loro libertà in servitù , per avere un difensore.

    Poscia vennero le incursioni dei Normanni. Questi uomini, che la fame o le interne divisioni discacciavano dalla Scandinavia, non formavano che dispregevoli truppe di pirati. Si resta sorpresi del loro piccol numero e del male che fecero. Si dimanda come la società gallo-germanica avesse potuto diventare ad un tratto così debole da non saper resistere a tali nemici. Alcuni cronisti dell'epoca hanno attribuito questa incomprensibile impotenza alla battaglia di Fontanet, nella quale il sangue guerriero si sarebbe disseccato. E verosimile che ciò che vieppiù avvilì quelle generazioni , fu la perdita di ogni disciplina sociale e la divisione che ebbe luogo tra esse, sicchè furono incapaci di difendersi contro le cupidigie dei popoli poveri. Norvegiani, Danesi, Ungheresi, Saraceni, tutti coloro che erano avidissimi ed un poco arditi piombarono su di esse. A sì miserabili avversarii, quel gran corpo disorganizzato non seppe opporre nè frontiere, nè armate, nè una sola flotta. Essi attaccarono contemporaneamente da tutti i lati; erano poco numerosi, ma siccome moltiplicavansi pel movimento, venivano incontrati dovunque, ed erano creduti innumerevoli. Gli Africani saccheggiarono Roma, l'Italia e la Provenza; gli Slavi e gli Ungheresi devastarono l'Alemagna; i Norvegi ed i Danesi misero a ruba la Francia. Essi arrivavano sopra barche, risalivano il Reno, la Senna, la Loira, ardevano le città, portavan via l'oro, distruggevano le messi ed i villaggi, scannavano i contadini o li conducevano schiavi seco loro. «Si vedevano da per tutto, dice un annalista, villaggi incendiati e chiese abbattute; cadaveri di chierici e di laici, di nobili e plebei, di donne e di fanciulli; non v'era piazza, strada dove non si trovassero morti; era un gran dolore vedere come il popolo cristiano fosse esterminato.» — «Un anno, dice ancora un annalista, quegli uomini del nord lasciarono la Francia perchè non vi trovavano più come vivere».

   Le popolazioni resistevano come meglio potevano; i cronisti fanno spesso menzione degli atti di bravura, ed in tutte le classi. I re, quegli stessi re carlovingi che si dipingono come indifferenti e dimentichi dei loro doveri, sono al contrario attivissimi e pronti a combattere: la loro sola disgrazia è di non potersi trovare dovunque nello stesso tem­po. Noi li vediamo sempre in moto, correndo da una frontiera all'altra per tener fronte al nemico; essi non conoscono il riposo; Carlo il Calvo stesso tiene sempre la spada in mano. I grandi pure mostrano coraggio; si possono contare negli annali tutti coloro che cercano di loda­re, che difendono le città, che sorprendono il nemico, che lo mettono in rotta o si fanno uccidere. Fino i contadini prendono le armi e di­fendono valorosamente il loro suolo. Il coraggio non manca ed ognuno fa quel che può; ma non è pel coraggio che una società si difende con­tro le cupidigie dello straniero, sibbene per l'unione e la disciplina. Bisogna che le forze individuali sappiano aggrupparsi per formare una forza pubblica. Ora era precisamente questo che mancava alla Francia del IX secolo. La sovranità non aveva nè armate permanenti, né for­tezze sue proprie, né amministrazione regolare, nulla insomma di ciò che protegge un gran corpo sociale. Siccome non veniva più obbedita, così era incapace di difendere le popolazioni.

    Il principale risultato delle incursioni normanne fu di far palese ad ognuno quella impotenza della monarchia; esse furono la pruova dalla quale questa fu giudicata. I popoli non pensarono che erano in parte colpevoli della sua debolezza. Essi non videro che una cosa sola, cioè che la monarchia non li proteggeva.   Avrebbero voluto che come il ne­mico si mostrava dapertutto, così ella fosse dapertutto presente, ma non la vedevano in nessuna parte. Essi la rimproverarono di tradirli. Questo sentimento delle generazioni del IX e del X secolo ha lasciato tracce profonde nelle tradizioni e nei pregiudizi delle generazioni suc­cessive. Roberto Waie, nel romanzo di Rou, riproduce sona dubbio i pensieri degli uomini schiacciati e rovinati dai Normanni quando fa loro dire al re di Francia:

         Che fai, che tardi, che risolvi, che aspetti? Nè da te, nè da noi si chiede pace, nè ci difendi?

    Invano il re risponde che egli non è che un uomo:

     Non posso da me solo scacciare i Normanni, non posso io solo sfidar tutti. Che cosa può fare un uomo solo e qual vantaggio ottenere, se gli mancano gli uomini che deggiono aiutarlo?

    Non importa; a lui si attribuiscono tutti i mali che si soffrono:

     Videro le chiese arse ed il popolo ucciso per mancanza di re e per sua debolezza.

    La debolezza infatti è quel che i popoli meno perdonano ai loro principi. La disaffezione degli uomini verso i Carlovingi è derivata da ciò.

    Siccome essi non proteggevano, si cessò di temerli e di amarli.Allora tutti gli sguardi e tutte le speranze si diressero verso i si­gnori. Si era certi di trovarli nel momento del periglio; non si doveva attendere che venissero da lontano, né temere che fossero occupati altrove, perchè abitavano la provincia o il cantone minacciato. Tra il conte e la popolazione del contado, tra ogni signore e gli uomini che dipendevano da lui, era visibile il legame degli interessi. Il campo del coltivatore era la proprietà del signore; questi la difendeva dunque come suo proprio bene; per sospettosi che fossero gli uomini, non po­tevano accusare il loro signore diretto dì tradimento né d'indifferenza.

    Vincitore, non gli si risparmiava la riconoscenza; vinto, non si metteva in dubbio che soffrisse più di ogni altro. Quel signore era bene ar­mato; vegliava per tutti. Forte o debole, egli era il solo difensore e la sola speranza degli uomini. La messe, la vigna, la capanna, tutto periva con lui o era salvo con lui.

    Si fu in quell'epoca che si elevarono i castelli. Sei secoli dopo, gli uomini furono invasi da un immenso odio contro quelle fortezze signo­rili; nel momento in cui si costruirono, essi furono compresi da amo­re e riconoscenza. Quelle fortezze eran fatte non contro dì essi, ma in loro favore; desse erano il posto elevato da cui il loro difensore spiava il nemico; erano il sicuro deposito delle loro raccolte e dei lo­ro beni. In caso d'invasione, davano esse asilo alle loro donne, ai loro figli, a loro medesimi. Ogni castello era la salvezza d'un cantone.

    Le generazioni moderne non sanno più ciò che sia il periglio. Non sanno più che cosa sia tremare ogni giorno per la propria messe, pel pane dell'anno, per la capanna che si ama, per la moglie, pei figli. Non sanno più ciò che diventa l'anima sotto il peso u un tale terrore, e quando questo terrore dura ott'anni senza tregua né grazia. Igno­rano cosa sia il bisogno di esser salvati. Un tale bisogno fé tutto obbliare; non si pensò nè ai re che non si vedevano, nè alla libertà di cui non si sarebbe saputo che farne. Si obbedì a coloro dai quali si era difeso; si diede la servitù in cambio della sicurezza. Migliaia e migliaia di contratti si formarono fra ogni padrone di un campo ed il guerriero a cui si doveva la vita.

     Allora si stabilì ciò che quegli uomini chiamarono il diritto di salvamento o il diritto di custodia. I piccoli proprietarii, i lavoratori, tutti coloro che ancora erano liberi, ma che avevano bisogno di essere difesi contro l'invasore straniero o l'oppressore vicino, si rivolsero ad un guerriero e conchiusero con lui un contratto. Fu convenuto che l'uomo di guerra salverebbe e custodirebbe il lavoratore, la sua famiglia, la sua casa, i suoi mobili e il suo frumento. Dall'altra parte fu stabilito che il lavoratore pagherebbe questa protezione mercè un tributo pecuniario e l'obbedienza. Tali contratti ordinariamente erano scritti in questa forma: «Io vi ricevo, diceva il guerriero, in mia salvezza e difesa, e vi prometto in buona fede di custodir voi ed i vostri beni, come deve farlo un buon guardiano ed un signore». Il lavoratore da parte sua scriveva che riconosceva essere sotto la protezione e custodia di quel signore. In molte carte, il primo veniva indicato col nome di salvatore, il secondo con quello di salvato; la convenzione chiamavasi un salvamento, ed il censo che vi era attaccato portava lo stesso nome. La convenzione ordinariamente era fissata in modo irrevocabile col contratto medesimo. «Umberto, nobile signore, è tenuto di custodire e difendere gli uomini della castellania di San Germano, e noi, in cambio di questa buona custodia, ci obblighiamo di pagare, a lui ed ai suoi eredi, un censo annuale di cento soldi di argento.» — «Il villaggio pagherà al visconte cinque soldi a titolo di commendazione, e mediante una tal somma il visconte si obbliga di salvare sempre e dovunque gli uomini del villaggio, sia quando si trovano nelle loro case, sia quando vanno e vengono». Ciò che chiamavasi commendazione era lo stesso che salvamento o guardia. Ecco un'altra formola del contratto: «Il signore ha la custodia di tutti gli abitanti del villaggio e di ognuno di essi in particolare; sopra ogni casa che avrà l'aratro, preleverà un sestiere di biada; su quella che non ha nè aratro nè bovi, ne preleverà una quarteruola». In un altro villaggio ogni famiglia deve al salvatore un mezzo stajo di avena, due danari ed un pane.

    D'altronde gli uomini debbono fare per lui tre giornate di lavoro ogni anno. Nei paesi vignajuoli, l'uomo di guerra si obbliga di custodire le vigne, ed ogni vignajuolo gli fornisce una misura di vino. Talvolta ancora egli si obbliga di proteggere sulle strade maestre i vetturali che trasportano il vino, e questi gli pagano un diritto di protezione. In alcune provincie, il canone del salvamento si chiamava la ventina; essa consisteva nella ventesima parte dei covoni o nella ventesima parte delle frutta e del vino. Codesto diritto signorile è stato stabilito in origine mercè una serie di convenzioni particolari tra ogni signore e gli abitanti della terra, ed era il prezzo con cui costoro pagavano la protezione che quegli si obbligava di assicurar loro. Talvolta il contratto stipulava che il prodotto del ventesimo sarebbe interamente impiegato a fortificare il castello che era la sicurezza del villaggio. Si aggiungeva ancora che i contadini dovrebbero due giorni di servitù ogni anno per lavorare alle fortificazioni. Questo salvamento è stato, non la sola origine, ma una delle origini principali della feudalità. La protezione ha trascinato seco l'assoggettamento. Il salvato si è fatto servitore, ed il salvatore è stato inevitabilmente un padrone. Custodia e comando si sono confusi. Gli uomini soffrivano e tremavano troppo per pensare alla loro libertà; tra il vassallaggio e la rovina non hanno esitato. Si sono sottomessi per esser difesi. Il giogo non è stato loro imposto per forza; essi lo hanno accettato mercè un formale contratto. Non sono stati presi violentemente dall'autorità signorile; le sono andati incontro. Siccome vivevasi d'altronde in un tempo in cui il debole teneva più alla protezione che il forte non tenesse all'autorità, consentirono a pagare il prezzo di questa protezione, e sembrò loro naturale d'indennizzare il signore delle sue cure e della sua pena. Più tardi, quando il corso dei secoli ebbe modificato tutta l'esistenza umana, un tal contratto sembrò ingiusto, ed è certo che non corrispondeva più allo stato politico ed economico delle società novelle, ma l'istoria deve attestare che vi è stato un tempo in cui questo contratto è stato conforme agli interessi ed ai bisogni degli uomini.

 


martedì 23 agosto 2022

§ 366 230822 Saverio Napolitano, Giuseppe Gangale e la questione meridionale.

 Su segnalazione dell'amico Secondo Carlino, mi permetto di proporre anche qui questo interessante e importante contributo di Saverio Napolitano alla conoscenza del nostro grande compaesano Giuseppe Gangale, del quale, in ordine sparso, ho cercato, seppure nel mio piccolo, di parlare in questo blog, segnalandone ciò che ho potuto raccogliere. Che faccio, vi ricordo ancora la bellissima 'Preghiera della sera'? C'è la stele a ricordarla, nel cimitero di Cirò Marina, spero che qualcuno si soffermi a leggerla, e a trarne motivi di meditazione.

Ovviamente, ringrazio virtualmente l'autore dello studio, Saverio Napolitano, sperando di fare comunque cosa buona e -perché no- gradita. L'articolo suddetto è tratto da 'Rivista storica calabrese, n. s. XXXVII (2016), pagg. 7-22. Ancora più ovviamente, in caso di opposizione, il post verrà immediatamente rimosso... ma è qui, questo articolo, e siamo qui noi (io e altri tre o quattro lettori) solo per leggere, per raccogliere informazioni e la conoscenza che ne deriva.

Naturalmente, fui contento quando finalmente riuscii ad avere una mia copia di Revival, pubblicata da Sellerio.

Catàvuru.


















































domenica 21 agosto 2022

§ 365 210822 Pietro Giannone, Le quattro lettere arbitrarie.

Nessuna premessa, non sono all'altezza, del resto se qualcuno dovesse imbattersi in questo post sarà senz'altro un cultore della materia, quindi più preparato di me (cosa più che normale e facile). Mi limito a proporre la trascrizione del capitolo dedicato da Pietro Giannone (Ischitella 1676 - Torino 1748) alle 'Quattro lettere arbitrarie', in Istoria Civile del Regno di Napoli, volume II libro XXII cap. V, 1723, opera che al Giannone costò la scomunica e l'esilio, oltre alle critiche di Manzoni che lo accusò di ripetuti plagi.

Catavuru.

(Immagine da Wikipedia)

PIETRO GIANNONE ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI, 1723.

VOLUME II, LIBRO XXII, CAPITOLO V: DELLE QUATTRO LETTERE ARBITRARIE

    Fra' capitoli del Re Roberto, non sono meno celebri i Conservatori regj, che le quattro Lettere Arbitrarie: riconoscono per Autore anch'elle questo savio Principe, il quale usando ora rigore, ora clemenza, secondochè la quiete e la tranquillità del suo Regno richiedevano, le drizzava alli Giustizieri delle province. Ne leggiamo ancora un'altra diretta a Giovanni di Haya Maestro Giustiziero e Reggente della Corte della Vicaria, la quale in alcuni esemplari va sotto la rubrica: Litera arbitralis; in altri sotto il titolo: De Praeminentia M. C. Vicariae, e comincia: Si cum sceleratis. Quest'ultima, come quella che contiene le grandi prerogative che furono solamente concedute al Gran Giustiziero e suo Tribunale, e non gli altri Giustizieri delle province, come di procedere contro i disrobatori di strade, omicidi, ladri famosi, ladroni ed altri, per loro gravi ed infami delitti, senza accusa e senz'ordine; e di poter procedere col solo processo informativo alla tortura de' rei (prerogativa, che unicamente s'appartiene al Tribunal della Vicaria): ciò che non essendo stato ad altri conceduto, siccome furono le altre quattro lettere arbitrali drizzate a' Giustizieri della province, quindi avvenne, che questa non si annoverasse tra le quattro, ma le facessero passare sotto il titolo de Praeminentia M. C. Vicariae. Girolamo Calà (a)[1] nel Trattato che compilò sopra questo oggetto, credette che tal prerogativa non dal Re Roberto fosse stata data a questo Tribunale, ma che prima l'avea già avuta da Carlo II suo padre per lo capitolo in accusatis; e che per questo capitolo si cum sceleratis, da Roberto le fosse stata tolta più tosto che conceduta, vedendosi essere stato quello drizzato a Giovanni di Haya, a cui unicamente fu conceduto tal arbitrio per le sue particolari ed eminenti virtù di fede , di giustizia e di zelo, e d'odio contro gli scellerati: dice però che da Roberto fu restituita tal preminenza a questo Tribunale per lo Capitolo juris censura, e per l'altro provisa juris sanctio. Ma non bisogna allontanarsi da quel che sentirono gli altri nostri Scrittori regnicoli , essere stata tal autorità ad arbitrio conceduto da Roberto a Giovanni, non già per le sue particolari virtù, ma come Gran Giustiziero della G. C. della Vicaria, per cui venne comunicata al suo Tribunale. Assai più s'ingannò quest' Autore, quando scrisse, che da Roberto le fosse stata restituita tal preminenza per li Capitoli juris censura, e provisa juris sanctio, come se quelle lettere fossero state drizzate al Gran Giustiziero di quel Tribunale. Il Capitolo juris censura, come si vedrà più innanzi, fu drizzato al Capitano di Napoli, Ufficiale, come si è detto, ch' era allora affatto diverso, e distinto dal Giustiziere della Vicaria: e l'altro conviene a tutti i Giustizieri delle province, non già unicamente al Giustiziere della G. C.

    Furono chiamate Lettere Arbitrarie, non solo perchè Roberto le concedè rivocabili a suo volere e beneplacito; ma anche perchè si commetteva all'arbitrio degli Ufficiali di procedere ne' delitti in ogni tempo, o con tortura o senza, o con accusa, o per inquisizione, ovvero con composizione, usando clemenza, o con imporre le pene stabilite dalle leggi, usando rigore. Una di queste lettere porta perciò il titolo: De Arbitrio concesso Officialibus. L'altra, de Componendo, et Commutatione poenarum. La terza, Quod latrones , disrobatores stratarum, et piratae omni tempore torqueri possunt; e l'altra, de non procedendo ex officio, nisi in certis casibus, et ad tempus. Quella che fu drizzata a Giovanni di Haya pure fu detta Lettera Arbitrale; perchè nella fine si leggono queste parole: In his enim tibi plenam potestatem meri, et mixti Imperii, ac arbitrium competens duximus concedendum. È da credere che fosse stata dettata da Bartolommeo di Capua, come quella, che porta la data del 1313, quinto anno del Regno di Roberto.

    Fabio Montelione da Girace in quel suo ridicolo Commento, che fece nell'anno 1555 sopra queste quattro Lettere Arbitrarie, dedicato da lui a Carlo Spinelli I, Duca di Seminara, portò opinione, che la prima lettera arbitrale fosse quella, che tra ' capitoli del Regno leggiamo sotto la rubrica De non procedendo ex officio, ec. la qual comincia : Ne tuorum : ma se deve attendersi l'ordine de' tempi, dovrà quella riputarsi l'ultima, non la prima. Fu questa istromentata per Giovanni Grillo Viceprotonotario del Regno, dopo la morte di Bartolommeo di Capua, nel 1329 ventesimo primo anno del Regno di Roberto, come porta la sua data; la quale deve correggersi , ed in vece di Regnorum nostrorum anno 20 deve leggersi anno 21. In questa si dà arbitrio e potestà a ' Presidi e Capitani di poter procedere ex officio in alcuni delitti, senza querela, o accusazione, cioè in tutti quelli, dove dalle leggi vien imposta pena di morte civile o naturale, ovvero troncamento di membra: ove si tratti d'ingiuria inferita a persone ecclesiastiche, pupille e vedove: e finalmente negli omicidj clandestini, ove non appaja accusatore alcuno.

     Più antica certamente fu quella, che leggiamo sotto la rubrica de Arbitrio concesso Officialibus; che comincia: Juris censura. Quella fu dettata da Bartolommeo di Capua nel 1313 quinto anno del Regno di Roberto, come è chiaro dalla sua data somministrataci da Jacopo Anello de Bottis nelle sue addizioni a questo capitolo. A chi fosse stata drizzata, ce ne mette in dubbio l'edizione vulgata, nella quale si legge: Magistris Rationalibus, etc. e Bottis, il quale riferisce in altre edizioni leggersi indrizzata Iustitiario Basilicatae. Ma dal corpo della lettera è facile conoscere, che quella fosse stata drizzata al Capitano di Napoli, poichè si commette al suo arbitrio, e potestà, per li frequenti eccessi, che si commettevano nella città di Napolo e di Pozzuoli, e ne' loro distretti, dove erano insorti famosi ladroni, disrobatori di strade, incendiari, rattori violenti, ed altri autori d'enormi scelleraggini, e d'infami delitti, che procedesse in quelli con ogni severità e rigore, postergato ogni ordine, non osservate le regole comuni prescritte ne' Capitoli del Regno; ma attendendo solamente alla pura e semplice sostanza della verità, col consiglio del suo Giudice, sterpi, e svella da que' luoghi questi reprobi, ed uomini sì rei, affinchè ritorni in quelli la quiete, nocendi, facultas abeat, et pacis optata amoenitas suavius raviviscat. È noto, che al Capitano di Napoli s'apparteneva in quei tempi anche il governo di Pozzuoli e suo distretto, come fu chiaramente dimostrato da Camillo Tutini nel Teatro de' Gran Giustizieri del Regno, e da noi altrove fu rapportato.

    L'altra lettera arbitrale, che leggiamo sotto la rubrica: Quod latrones, disrobatores, etc., e che comincia: Provisa juris sanctio, non vi è dubbio, che pure fosse stata da Roberto scritta per mano di Bartolommeo di Capua, poichè sopra della medesima abbiamo di questo Giureconsulto alcune note. Si dà facoltà per la medesima a' Giustizieri del Regno, che contro gl'insigni ladroni, che nelle strade, nelle case ed in mare rubano, e contro altri malfattori notati di maggiori scelleraggini, possano procedere in ogni tempo a tormentargli, eziandio in giorno di Pasqua, senza accusatore, senza ricercar plegierie, a loro arbitrio e facoltà.

    L'ultima si legge sotto il titolo, de Componendo et Commutatione poenarum, e comincia: Exercere volentes benigne. In questa Roberto, temperando il molto rigore finora praticato, permette a' suoi Ufficiali, e dà loro potestà di poter componere, e commutare con multe pecuniarie le pene stabilite dalle leggi in questi delitti, cioè d'asportazione d'armi, per gli omicidj clandestini; commutar le pene che gli Ufficiali medesimi avranno imposte ne' loro banni o che imponeranno nell'avvenire all'università o persone particolari le pene delle difese, de parendo juri, e nell'altre arbitrarie, e nelle multe. In tutti questi casi loro si permette, avuto riguardo alla povertà, in certa quantitate pecuniae componere pro curiae nostrae parte.

    Fu per questa lettera arbitrale Roberto biasimato d'avarizia de' suoi detrattori, e che avesse perciò oscurata la fama delle altre virtù sue; e Scipione Ammirato ne' suoi Ritratti rapporta, che questo savio Re fosse stato perciò biasimato d'avarizia, e creduto essere stato cagione delle molte discordie e divisioni, che nacquero in molte città del Regno tra' lor Cittadini per le composizioni, ch'egli traea dagli misfatti dei suoi sudditi, più in danari che in sangue; e ch'egli era solito scusarsi con dire, che tutto ciò gli conveniva di fare per aver onde nudrire cotante armate, che quasi ogni anno era costretto di mettere in punto per la ricovrazione del Regno di Sicilia. Ma chiunque considereà, che Roberto queste composizioni le ristrinse a certi non gravi delitti con tanta riserva e moderazione, ed avuto ogni riguardo alla condizione delle persone, ed a molte altre circostanze, secondo l'arbitrio d'un uomo prudente e da bene, non lo condannerà certamente per sordido ed avaro.

    Queste sono le cotanto presso di noi celebri e famose Lettere Arbitrarie, sopra le quali sin da' tempi della Regina Giovanna I, il Viceprotonotario Sergio Donnorso fece un Commento, del quale fa egli menzione nelle note a' Capitoli del Regno (a)[2], e di cui fu anche ricordevole Pier Vincenti nel suo Teatro dei Protonotari del Regno (b)[3]; le quali nell'investiture dei Feudi furon da poi concedute a' Baroni insieme col mero e misto imperio; non che Roberto avesse quelle a loro concedute, poichè esse furono drizzate a' Giustizieri, non a ' Baroni, i quali allora non aveano giurisdizion criminale, nė il mero e misto imperio, siccome aveano I Giustizieri delle province. I Baroni insino al Regno d'Alfonso I d'Aragona, ovvero, come credettero alcuni, di Giovanna II, non aveano nelle loro terre e castella, che la giurisdizion civile. Non potevano prima d'Alfonso i Feudatari, che possedevano terre con Vassalli, esercitar altra giurisdizione, se non quella infima e bassa, indrizzata unicamente a sedar le liti e le discordie, che sogliono nascere tra gli abitatori de' luoghi, creando a questo fine alcuni Ufficiali annuali chiamati Camerlenghi, i quali non avean altra giurisdizione, che di conoscere e giudicare d'alcune cause minime e sommarie.

    I Giustizieri delle province ed il Tribunal della Gran corte erano quelli Magistrati, che esercitavano l'alta e piena giurisdizione sopra tutti i castelli e luoghi del Regno (c)[4]. Non altrimenti che praticavasi a' tempi de' Romani, i quali nelle loro città e terre aveano minori Magistrati, che s'eleggevano dal Corpo delle medesime chiamati Defensores, dai quali s'esercitava una bassa, ed infima giurisdizione , consistente nella cognizione delle cause minime, e sommarie civili.

    In luogo di questi Difensori, secondo avvertì a proposito Andrea d'Isernia (a)[5], succederono poi nel nostro Regno i Baglivi de' luoghi, i quali conoscevano delle cose civili, de' furti minimi, de' danni dati, dei pesi e misure, e d'altre cause leggieri, e di picciolo momento (b)[6]. Ma le cose più gravi e massimamente quelle, che riguardavano il mero imperio, e la giurisdizione criminale, secondo le leggi de' Romani, appartenevano a' Presidi delle province, in vece de' quali da poi nel nostro Regno furono costituiti i Giustizieri delle Regioni (c)[7]. E però non è maraviglia, che le concessioni delle Terre con vassalli, portassero con esso loro quell'infima giurisdizione, come a loro coerente, e da esse inseparabile, e non il mero imperio e la giurisdizion criminale, che non poteva dirsi alla medesima coerente, siccome quella, che non da' proprj Magistrati, ma da' Presidi prima soleva esercitarsi, e da poi non da' Baglivi dei luoghi, ma da' Giustizieri delle regioni.

    Marino Freccia (d)[8] testifica perciò , che avendo egli letto il privilegio che fece Carlo I d'Angiò, quando donò al suo figliuolo unigenito la città di Salerno col titolo di Principato, con altre terre e città, come Ravello, Amalfi , Sorrento, Nocera e Sarno, gli concedè solamente in questi luoghi la giurisdizione civile, e fu notato per cosa rara, che nella città di Salerno gli concedesse ancora la giurisdizion criminale, circoscritta però dal circuito delle mura, e dentro quelle ristretta, e non oltre ; ma ciò fu propter titulum suae dignitatis , come dice questo Scrittore, poichè in questi tempi i Baroni non aveano giurisdizion criminale . Chi cominciasse a concederla, vario e discorde è il parere dei nostri autori. Matteo d'Afflitto (e)[9], Grammatico (f)[10], Caravita (g)[11], il presidente De Franchis (h)[12], ed altri sostennero, che il primo fosse stato il Re Alfonso I d'Aragona; e quest'ultimo Scrittore dice non essersi ciò posto in uso, se non da' Re Aragonesi. Altri, come Francesco d'Amico (i)[13], il reggente Capecelatro (k)[14] e Capobianco (l)[15], la riportano un poco più in dietro, cioè a' tempi della Regina Giovanna II; ma se dobbiamo credere a quel gravissimo istorico, Angelo di Costanzo (a)[16], bisognerà dire, che il nostro Re Roberto fosse stato il primo. Favellando questo Scrittore della liberalità di questo Principe, narra, che per infiniti privilegi conceduti a' Baroni, a Cavalieri particolari, tanto Napoletani quanto dell'altre terre del Regno, si vedea quanto fosse stato verso i medesimi liberalissimo, a' quali donò Titoli, Castella, e Feudi con giurisdizioni criminali, essendo fin a quel tempo costume, che rarissimi de' Conti del Regno avessero la giurisdizione criminale nelle lor terre; e questo Istorico medesimo rapporta ancora, che il Re Ladislao concede la giurisdizione criminale ad Antonello di Costanzo sopra Tevarola, dov'egli ed i suoi per ottanta anni non avevano avuto altro che la civile (b)[17].

    Che che ne sia, se Roberto o altri suoi successori a qualche suo benemerito avesse usata questa insolita liberalità , egli è certo, che da Alfonso I e dagli altri Re aragonesi suoi successori, furon poste in uso; e con maggior frequenza fu , nelle concessioni fatte ai Baroni, data la giurisdizione criminale , o nell'investiture fu conceduto loro anche la potestà, ed arbitrio contenuto in queste quattro Lettere Arbitrarie, ed oggi si è ridotto a stile, e quasi formolario di tutte l'investiture , che si danno, di mettervi anche questa facoltà per clausola.

    Da ciò, n'è nato, che siccome prima queste lettere erano a beneplacito ed arbitrio del Principe, rivocabili e ristrette a certi confini ; così per quel che riguarda le persone de ' Baroni, per le concessioni, che ne tengono nelle loro investiture, sono irrevocabili; e maggiore si vide in ciò essere stata l'autorità, ed arbitrio dei medesimi, che degli Ufficiali regi, a' quali (come al Reggente e suoi Giudici della G. C. della Vicaria, a' governadori delle province, Capitani delle terre ed altri Ufficiali del Regno) fu prescritto dall'Imperador Carlo V per mezzo di sue prammatiche (c)[18] il modo di componere i delitti e commutar le pene corporali in pecuniarie, e vietato di farlo senza suo consenso o del Vicerè del Regno, e senza rimession della parte offesa, o ne' casi che si dovesse imporre pena di morte naturale , o di troncamento di membra. E poichè a' Baroni si trovavano concedute quelle lettere , affinchè il loro arbitrio stasse ristretto fra' termini del dovere e di giustizia; quindi l'istesso Imperador Carlo V con altra sua particolar prammatica (d)[19] stabilita per li Baroni e loro Ufficiali ordinò che non dovessero abusarsi della facoltà, che tenevano nella commutazion delle pene, ma servirsene fra' termini del giusto e con ragionevol modo: minacciandogli in caso d'abuso della privazione dei loro privilegj.



[1] (a) Calà de Praemin. M. C. V. cap. 2.

[2] (a) Tit. de tormentis, fol. 27.

[3] (b) P. Vinc. ann. 1352 p. 90.

[4] (c) Constitut. Ea quae ad speciale decus Franc. de Amic. de his qui feud. dar. poss. in c. sumus modo, fol. 43 numer. 2. Rosa in prelud. feud. lect. 11 numer. 10.

[5] (a) Andr. in Constit. locor. Bajuli.

[6] (b) Constitut. locor. Bajuli, et ad officium bajuli.

[7] (c) Constit. Justitiarii nome, et normam Consit. Justitiarii per Provincias. Constitut. Praesides, et Constit. Capitaneorum.

[8] (d) Freccia de subfeud. l. 2 auth. 2 num. 21.

[9] (e) Affl. in Constitut. contingit. 3 notab. et in Constit. ea quae ad speciale decus 4 notab.

[10] (f) Gramat. volo 28.

[11] (g) Caravita ritu 49.

[12] (h) Franchis decis. 510 nu. 4 et decis. 370 num. 2.

[13] (i) Franc. de Amic. ad tit. de his, qui feud dar. pos. fol. 43 n. 8.

[14] (k) Capecelatr. cons. 41 num. 10.

[15] (l) Capibl. de Baron. prag. 8 par. 1 n. 63 e 84.

[16] (a) Costanzo lib. 6.

[17] (b) Id. Hist. lib. 12 in fin.

[18] (c) Pragm. la sperata delictorum venia pragm. Et quia, etc.

[19] (d) Id. mandamus etiam.