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venerdì 6 maggio 2022

§ 349 060522 SAN CATALDO IN ARCHIVIO PER LE TRADIZIONI POPOLARI. SALVATORE SALOMONE MARINO.


Nell'imminente ricorrenza della festività di San Cataldo, si propone qui uno scritto, solo graficamente modificato dallo scrivente, per cura di Salvatore Salomone Marino (1847-1916), apparso sul primo fascicolo (Gennaio-Marzo 1882) della rivista trimestrale dell'Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, edita in Palermo da Luigi Pedone Laurel, e diretta, oltre che da Salvatore Salomone-Marino, dal grande, grandissimo, Giuseppe Pitrè (1841-1916), la cui opera benemerita, in un campo irto di inciampi come potevano essere quello delle nascenti o balbettanti scienze umane come l'antropologia culturale o l'etnografia (diremmo oggi, allora demopsicologia o folk-lore, col trattino), non è forse adeguatamente conosciuta e lodata, fatti salvi gli addetti ai lavori e forse qualche altro sporadico estimatore. Notato che la cultura siciliana, italiana ed europea persero nello stesso hanno questi due grandi studiosi? Tornando all'Archivio, o meglio alla sua rivistaessa si pubblicò dal 1882 al 1906 e rappresenta un vero patrimonio di conoscenze e cultura, dove l'interesse per il folklore non conosce limiti spaziali o temporali e qualsiasi 'fatto' umano vi viene accolto e consegnato ai lettori e alla posterità. Cosa c'entra San Cataldo? Beh, leggete, e si vedrà di quale importanza sia investita la figura di San Cataldo in una pratica di assoluta importanza, nel mondo agricolo, come la trebbiatura fatta sull'aia, che in cirotano si chiama pisèra: al nostro compatrono si levano i voti affinché due condizioni fondamentali, il vento e il caldo, si mantengano, persistano, per sua intercessione, garantendo la buona riuscita della trebbiatura, nei tempi sperati. Il testo del Salomone-Marino, oltre alla 'chicca' relativa a San Cataldo, peraltro venerato in un buon numero di località siciliane, rimane e costituisce una buona memoria di come si svolgeva 'a pisera'. Buona lettura, se vi va.

CatàvurAmorusu.

                                        

IV. Intorno all'aja.


È il tempo della trebbiatura: andiamo a rivedere il nostro con­tadino a quel lavoro che, coronando le speranze e le fatiche di otto mesi, gli porterà finalmente in casa la grazia di Dio, che servirà all'annua provvisione (mància) e a saldare qualche debituccio con­tratto nei giorni improduttivi del maggio. È questo il lavoro a cui si può nel senso rigoroso del vocabolo applicare il versetto del Genesi: Vesceris pane tuo in sudore vultus tui. In piena canicola, con questo po' po' di raggi africani che dardeggiano la Sicilia, immagi­nate che sorta di tormento (mi servo della precisa ed efficace parola del villico) sia la trebbiatura. E pure ei la compie cantando: nella poesia, sposata alla religione, attinge lena e sollievo e il lavoro va innanzi allegramente e rapidamente.

Siamo tra le 10 e le 11 del mattino; da due ore le mannelle, tolte alla bica che sorge lì presso, sono già scomposte e sparse nell'aja, sì che il sole n' ha rasciutta la brina. L'ajata d'ordinario si batte a mule appajate: più di rado vi si cacciano i buoi o gli asini. Il numero delle coppie di mule (cucchietti) è proporzionato alla vastità dell'aja: ogni coppia ha un reggitore o guidatore (cac­cianti) che dal centro dell'aja regge le redini e mena incessante­mente la sferza di fune (capu), non tenendosi fermo, ma senza posa correndo dietro alle coppie che si fanno girar in tondo sempre di trotto. Gli altri lavoratori stanno attorno (turnanti) e col for­cone (tradenta, tridente) riaccostano all' aja le spighe che i pie' delle bestie correnti fanno saltar fuori, e insieme aggiustano il cerchio di essa (attùnnanu) che, com'è naturale, si vien guastando durante la trebbiatura. Caccianti e turnanti si dànno spesso la muta, perché sia da tutti portato il lavoro più pesante dei primi; ma di regola i soli giovani assumono la parte di guidatori, i più anziani rima­nendo sempre lavoratori col forcone. Sì i primi che i secondi in­dossano camicia e mutande di tela, e in testa un largo cappello di foglia di cerfuglione (cappeddu di curina).

Quando le spighe sono state battute una buona ora, le coppie delle mule si cavan fuori dell'aja; e mentr'esse mangiano un poco di biada, tutt' i lavoratori si dànno premurosi a rimescolare e ri­voltare l'ajata (vùtari l'ària), per far che tutta ugualmente rimanga battuta e granelli non restino entro le lolle. Questa si dice la prima battuta, la prima càccia; poi succede la seconda, poi la terza, e talora anche la quarta, secondochè porta la più o men buona qualità e grossezza delle spighe e il caldo della giornata. Dopo ciascuna càccia, si rimescola e rivolta l'ajata; eccetto nell'ultima, perché dopo essa i lavoratori, preso un boccone, si fanno del saccuni un cap­puccio (ad evitare che la loppa vada loro giù per le reni) e si mettono prontamente a spagliare prima che, col cadere del giorno, cada il vento.

Or il reggitore della coppia di mule, pur correndo e frustando, canta verso a verso ed a voce altissima alcuni mottetti proprj della trebbiatura (muttetti di lu pisutu) , i quali per la loro importanza e non dubbia antichità mi paiono degni che si conoscano. Sono versi di lode e ringraziamento a Dio ed ai Santi, di incitamento alle bestie, di accenni alle fatiche stragrandi della ricolta ; e mi ri­chiamano a mente altri consimili della Corsica, riferiti dal Tommaséo (Canti pop. corsi, p. 300); ma a questi non mi fermo perchè, come il lettore avrà visto, io ometto a bello studio i numerosi confronti che de' costumi contadineschi delle varie regioni d'Italia si potrebbero instituire.

Al primo cominciare a romper l'ajata, il caccianti si segna divotamente e dice:

 

Sia lodato e ringraziatu

lu santissimu Sacramentu.

E i turnanti rispondono:

Sia lodatu e ringraziata

sempri ogn'ura, ogni momentu.

Il guidatore dà una frustata, le mule trottano. E' le comincia a chiamare per nome: O baja! O muredda! O farba ! O pu­lita! O mirrina! O valenti! — e aizzandole sempre più, vien gri­dando ad intervalli e verso a verso :

Allegramenti,

cori cuntenti !

....................

Giria e vota

   comu 'na bedda Greca batiota !

   vota e girìa

   comu 'na Greca dintra la batia !     


                                                     ...........................................

Arrispìgghiati, curuzzu,

damu volu a lu piduzzu !

damu lena ! damu ciatu !

Viva Diu Sagramintatu !                     

..................................

Viva sant' Ùrsula

cu la santa cumpagnia !    

Arrispìgghiati, vita mia !

Regolarmente, ad ogni strofa nuova cala un colpo di ferza; e tra l'una e l'altra passando un certo  spazio di tempo, si tramez­zano di tratto in tratto le parole di incitamento: Allèghira ! Occhiu vivu! Vulamu !Avanti, avanti! — e di nuovo: O baia! O muredda ! — ecc. Il caccianti va guidando le mule or verso un capo soltanto dell'aja, or al centro, ora alla periferia; egli accompagna questi atti co' versi:

 

E damu a stu cantu

cà cc'è l'Àncilu santu;

e damu a sta testa

cà cc'è l'Àncilu ch'aspetta;

   ed a lu menzu

   cà cc'è San Vicenzu.

...............................................

E dàmucci a lu fora,

cà l'armaluzza cu lu ventu vola !

e dàmucci a lu centru

cà l'armaluzzi vannu cu lu ventu !

Quando si fa alle coppie voltare spalla, cioè girare in senso opposto di prima, il guidatore, eseguita la conversione, dice :

Arrispìgghiati, curuzzu,

arriventa la spadduzza;

arriventa e cogghi ciatu,

viva Diu Sagramintatu !

E Sagramintatu sia,

viva Gesuzu, Giuseppi e Maria !

Allorché ogni càccia sta per compirsi e le coppie debbon esser tratte fuori dell'aja, il guidatore canta :

Ed arrèggiti, gran mula,

ca t' he dari 'na bona nova.

  E chi nova è chista ?

  Vai a lu ventu e t'arrifrisca.
Tu va' a lu ventu,

eu a lu turmentu:

sia lodatu lu santu Sagramentu!

...................................

Santu Nicola!

Beddu lu santu,

bedda la parola;

a la turnata l'armaluzzi fora.

............................

E unu pri tia,

e unu pri mia,

e unu pri la virgini Maria!

 

E sì dicendo si compiono tre giri, e le mule sono tratte fuori dell'aja.

Nell'ultima càccia, allorché i mannelli si vedono ridotti in paglia e il frumento già tutto sgusciato, il guidatore, dopo d'aver incitato le mule con le parole: Allèghiri, muli, ca la pàgghia è fatta!,— intona una nuova serie di mottetti co' quali dà compi­mento alla fatica delle trafelate bestie:

Ed arrèggiti, gran mula,

ca t'hè dari 'na bona nova.

E chi nova è chista ?

Va' a lu ventu e  t' arrifrisca.
Tu va' a lu ventu,

eu a lu turmentu:

lodatu lu santu Sagramentu !

.........................................

È ditta,

è ben ditta,

'n Celu si trova scritta:

l'Àncilu sia lodatu

e Diu Sagramintatu.

Vui dàtinni cuncordia,

Sìgnurì di misiricordia,

cà scatta (scoppia) lu Diàvulu.

E viva la Madonna dì la Grazia !

......................................

L'ura vinni,

la grazia scinni,

e scatta lu Diàvulu.

E viva la Madonna di la Grazia !

.....................................

 

Ed ogni ura, ogni mumentu

sia lodatu e rìngraziatu

lu santìssimu e divinìssimu Sagramentu !

 

E qui tutti gli altri lavoratori ripetono anch' essi questi tre versi a voce più bassa. Indi il guidatore recita il Credo, pronun­ziando a chiara voce solo le prime parole ; similmente vien poi recitando molti Pater per molti Santi, protettori delle loro fatiche e delle loro bestie. Così se n'ha uno per San Catàuru (Cataldo), chi mantegna lu ventu e lu càudu, tanto necessarj a quegli infelici perché si sbrighino presto del compito del dì; uno per Sant'Aloi, chi proteggi l'armali ora e poi; uno per San Marcu glurienti, chi nni li manna pròspiri li venti, ecc. ecc. In fine, mentre le coppie delle mule fanno gli ultimi giri nell'aja, il guidatore canta gli ultimi versi:

 

Torna, ben torna:

viva san Giusippuzzu e la Madonna !

la Madonna e lu Signuri,

e viva lu santissimi! Salvaturi !

..................................

Santu Nicola !

beddu lu Santu e bedda la parola:

e a la turnata l'armaluzzi fora.

.......................

Santa Anna !

Sant'Anna ch' è la mtiri d' 'a Madonna,

viva la pruvidènzia chi nni manna !

...........................

San Cucuddu !

Quannu chi manciu eu nun vegna nuddu.

E finuti di manciarì

ni nni jamu tutti a spagghi'ari.

...................................

San Lorenzu !

San Vicenzu !

La pàgghia è fatta, e li muli 'n menzu.

..........................

San Simuni !

Porta l'acqua e l'acitu, e lu mazzuni.

...........................

San Pricopu !

Acchiana, scinni, e pìgghiati lu locu !

Quest'ultimo verso viene ripetuto in tre tempi; e le mule non appena sentono l'ultima parola che per pratica intendono, scap­pano allegramente saltando fuori dell'aja. Il guidatore allora, preso il mazzuni (mazzetto di fili di sparto o altra erba) ch'egli ha chie­sto nel mottetto penultimo e inzuppatolo nell'acqua e aceto, lava alle mule le feritucce che con la sferza ha prodotte; e quindi ab­beveratele, le conduce alla pastura.

Di prima sera, finiti di spagliare (nisciuta la pàgghia), e men­tre attendono che la minestra venga a rinfrancarli, i nostri contadini rimangono tutti sull'aja : qualcuno siede sul pagliolo o vi appoggia il dorso; i più si stendono su' vigliacci, quasi sempre bocconi, per dar riposo alle reni intormentite, com' essi si esprimono. Il vento è caduto, luccicano le stelle o splende la luna, la cam­pestre quiete è solo interrotta dal monotono stridere delle cicale. Così scorre qualche quarto d'ora; poi la minestra viene, in certi catinetti di terra cotta di forma e misura invariabili, che si addimandano limmunedda, e si mangia allegramente e si dànno fre­quenti baciozzi al fiasco.

Da questo momento cambia la scena. Nell'aja si inizia un ci­caleccio animatissimo, sorgono i motti pungenti, le frasi equivoche e a doppio senso, gli scherzi, le barzellette, i giochi, le sfide. I più maturi duellano con la lingua e gareggiano di spirito; i più vigorosi fanno prove di forza ed esercizj di lotta; i più gio­vani, capitomboli o giochi infantili, che sull'aja non si disdegnano da chi non è più fanciullo. Se c' è un poeta nella brigata, il che non è raro, egli improvvisa canzumi d'ogni fatta, rispondendo pronto e arguto agl' inviti, ai frizzi, alle ingiurie che gli si volgono a bella posta per eccitarlo di più: ogni canzuna ha un séguito di applausi con voci alte e battimani, e talora anche qualche altro suono di labbra imitante quello del Barbariccia dantesco, per provocare una archilochea risposta del poeta a protrarre così il canto improvviso a cui tutti pigliano gusto infinito. Nè difettano mai gli strambotti tradizionali ed i fiori o stornelli, i quali vengono cantati solita­mente da' giovani con accompagnamento di scacciapensieri (mariolu, 'nganna-larruni) o di zufolo (friscalettu), strumenti ch' essi abitual­mente sogliono recar in tasca. Così lietamente si spassano una o due ore, finché grado a grado la brigatella si dirada, essendoché Marcu è venuto alla chetichella con la sua rete a inviluppare l'un dopo l'altro quella bonissima gente. Marcu è un pescatore cosmo­polita, che piglia tutti, anche quelli che lo sentono nominare ora la prima volta: è il sonno!

                                                                                                    salvatore salomone-marino.


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