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lunedì 31 marzo 2014

§ 069 310314 DELLE STRADE FERRATE IN CALABRIA, G. Paravicini (1867).

   ''DELLE STRADE FERRATE IN CALABRIA'' è una relazione redatta da Guido Paravicini, 'dottore in matematica', apparsa sul fascicolo di maggio 1867 del  Giornale ''Il Politecnico''. Cosa dire di un lavoro, se così vogliamo chiamarlo, di tale fatta? Vi si legge un inaspettato miscuglio di sciocchezze e di note condivisibili. Se potevamo muovere degli appunti a Norman Douglas per qualche suo accenno altezzoso o schifiltoso, da snob britannico, cosa dire di uno studioso del neonato Regno d'Italia (siamo nel 1867), di un italiano - forse un convinto lombrosiano - che denigra con tanta convinzione quella parte di nuovi sudditi del Regno che abitano quelle plaghe selvagge che formano ''le Calabrie''?
   Il motivo del contendere è, come si può facilmente intendere, l'opportunità o meno di costruire linee ferroviarie nella penisola calabrese, e, in caso di risoluzione positiva, la scelta dei tracciati, con particolare riguardo agli interessi ed appetiti che gli appalti per la costruzione delle linee stesse avrebbero scatenato.
   Come si può vedere, il signor Paravicini è sulle prime totalmente contrario alla costruzione di strade ferrate in Calabria (ma anche nella desertica Sardegna e in Piemonte, relativamente alla linea da Alessandria a Savona che risultava, a suo - insindacabile? - parere, un inutile raddoppio della linea dei Giovi); successivamente egli si rassegna a sconsigliare la costruzione di una linea che congiunga Taranto a Reggio 'per Cotrone', a vantaggio della linea interna e tirrenica. Non mancano le note sensate, ma quelle stonate inficiano tutto il contesto generale: in pratica è inutile costruire una ferrovia in una zona depressa e per popolazioni che vivono praticamente allo stato selvaggio, quasi cibandosi di radici o giù di lì... altro che vie di comunicazione come volano di sviluppo! Ritengo che le idee (!) di personaggi del genere, quando operanti per conto delle istituzioni, possano essere grandemente nocive, tant'è, sempre secondo il Paravicini, che i calabresi avrebbero dovuto viaggiare e commerciare per mare, ammesso che ne avessero sentito il bisogno, ché di motivi, trattandosi di persone per natura non industriose, non sembravano sussisterne... 
   Una 'relazione' simile, prodotta nel 1862 su determinazione del Consiglio Provinciale di Calabria Citeriore si può leggere a questo indirizzo: 
Sulla Ferrovia Calabra relazione della commessione nominata dal Consiglio Provinciale della Calabria Citeriore 1862 qui però siamo di fronte a qualcosa di più serio, meditato, anche se 'di parte': i politici cosentini, cercando di affermare i propri interessi, mirano a far prevalere la tesi che prevede il passaggio della strada ferrata 'per linee interne', ciper Cosenza, dopo aver attraversato la valle del Crati e poi quella del Savuto.
   L'importanza delle ferrovie, a quell'epoca, era straordinaria, per motivi economici, di rottura dell'isolamento, di semplice prestigio, addirittura di puro diletto, come si può leggere alla fine del testo... che è lungo di per sé, e quindi non aggiungo altro, tranne che la ferrovia 'da Taranto a Reggio, per Cotrone', fu realizzata, con buona pace del Paravicini... come sia andata a finire, dopo circa un secolo e mezzo, ognuno lo può verificare da sé... Buona lettura.




   Il Ministro dei lavori pubblici ha presentato alla Camera dei Deputati un progetto di legge col quale domanda l'autorizzazione di stipulare colle Società delle Strade Ferrate Calabro-Sicule, Romane e Meridionali una convenzione per il riscatto delle rispettive concessioni convertendone i titoli in rendita di debito pubblico. Questa misura, che per moltissimi motivi, di cui qui non è il luogo di discorrere, ne pare molto saggia, mette lo stato nella piena ed assoluta libertà di disporre come crederà meglio rispetto a queste vie ferrate, libero cioè di rimutare le reti già stabilite od integralmente o parzialmente a seconda di quei suggerimenti che saranno forniti dalla esperienza fatta in questi ultimi anni, ed anche, diciamolo pure, da un esame più accurato ed illuminato di quello che si volle premettere alla determinazione dall'andamento di alcune delle nostre linee.
   In una occasione tanto importante e che bene usufruttata può essere origine di numerosissimi vantaggi al paese ne pare il caso di richiamare l'attenzione di esso sopra argomento cosi vitale. Nè con ciò fare crediamo menomamente di venire dicendo cose nuove e che già non siano sorte nella mente dei nostri uomini di stato, di mille gradi a noi superiori e per ingegno e per pratica in materia, ma vogliamo solo enunciare cose che non ancora si sono dette al pubblico, al quale pur alcuno deve dirle perchè si corregga di un difetto e di un errore che tornavano già in molti casi dannosi assai all'erario nazionale. Il difetto sta nell'eccessivo amor di campanile che alle volte alleandosi alle avide brame del privato interesse induce nell'erronea conseguenza che sia tutto guadagnato alla propria provincia ed al proprio villaggio quanto si fa profondere al governo sul territorio di quella o di questo, senza curarsi se la spesa sia realmente necessaria e produttiva, o se piuttosto, come innumerevoli esempj additano, non venga ad aggravare il bilancio dello stato poco o nulla giovando a quegli interessi locali che si intendevano favorire. Da questo difetto dal conseguente errore ne nacque quella ressa di domande insistenti ed indiscrete che ognuno si crede in diritto di rivolgere al governo perchè il suo comune sia dotato della tale o tal altra opera pubblica del tale o tal altro ufficio. All'indiscreto domandare troppo compiacentemente ascoltato per diversi moventi dai nostri governanti da che il regno d Italia esiste, si deve, se ben esamineremo ascrivere in parte il dissesto finanziario in cui pur troppo ora versiamo Ad esso, per citare qualche esempio a tutti noto, va attribuito quello enorme sproposito che fu la concessione di una rete di ferrovie nella poco men che deserta Sardegna e nella penisola Calabrese per nulla adatta a questo genere di opere; ad esso lo sconsigliato disegno di rivalicare di nuovo l'Appennino nella direzione di Savona poco lungi ed a scapito della già aperta via dei Giovi. Perchè questi errori si facciano meno frequenti è tempo di incominciare a segnalarne al pubblico alcuni e fatti e predisposti perchè i primi servano di esempio, i secondi in quanto si possa abbiano a correggersi. Con ciò si renderà meno difficile la giusta resistenza di chi siederà al potere offrendogli un valido appoggio nella opinione che si verrà formando nelle masse.
   Per cominciare dall'una di queste opere, che a nostro giudizio, approfittando del riscatto accennato di sopra, si deve assolutamente ommettere dal fare, parleremo della arteria Calabrese, di quella cioè che da Taranto per Cotrone mette capo a Reggio.
   Avanti tutto diremo che una strada ferrata in Calabria ne pare cosa affatto inopportuna finchè quel paese perdura nelle presenti condizioni economiche e sociali. A chi conosce la località questa verità risulta evidente senza bisogno di dimostrazione; per chi invece non ha percorso quelle provincie diremo esservi la popolazione scarsa, non ricca nè industriosa. sicchè vive stentatamente dei prodotti delle terre, cui per giunta assai male coltiva. Una popolazione di questo genere è per sua natura sedentaria, siccome mancante di quegl'impulsi al viaggiare che sono il commercio e l'industria, ed invece legata alla propria dimora delle occupazioni agricole che più di ogni altra fissano al suolo che ne forma l'oggetto. Per di più le cattive condizioni economiche di queste popolazioni, cattive condizioni che sono appunto il frutto della mancanza di industria e di operosità, ostano materialmente a che il calabrese viaggi con una frequenza anche assai limitata, visto che al viaggiare così gli manca l'impulso del bisogno come i mezzi pecuniarj per poter seguire quest'impulso pur dato che vi fosse. Aggiungete a ciò una coltura assai scarsa che gli toglie quello stimolo che mette tanta gente per le strade in altri paesi, il desiderio cioè di istruirsi, e vedrete se si può aspettarsi che in Calabria vi sia un movimento di qualche rilievo. Questa conclusione, derivante da un ragionamento che pure non potrebbe tutti convincere, ebbe una dimostrazione palmare ed irrefutabile dal fatto. Il Com.e Guicciardi, allora quando era Prefetto di Cosenza, volle aver qualche dato sul movimento che aveva luogo sulla via nazionale Calabrese, quella cioè che da Reggio per Cosenza, Lagonegro ed Eboli conduce a Salerno e Napoli, che costituisce la vera arteria della penisola e dovrebbe per conseguenza avere il maggior transito. Istituite le osservazioni dal chiaro Ing. Caimi sul tronco da Cosenza verso Catanzaro ed in prossimità alla città di Cosenza, che pur deve essere cagione di un certo movimento locale come capoluogo di provincia, ne risultò che il transito si limitava in media a sei veicoli al giorno. Questo eloquentissimo risultato non ha bisogno di commenti. La configurazione speciale poi della Penisola Calabrese mette il problema dei trasporti in una condizione affatto eccezionale e radicalmente diversa dall'ordinario Qui abbiamo una lingua di terra assai ristretta che nei punti di maggior larghezza misura appena cento chilometri dall'un mare all'altro, occupata nella sua parte centrale da montagne elevate e quasi dovunque offrente un terreno rotto e solcato da molti corsi d'acqua sicché riesce assai mal agevole lo stabilirvi una ferrovia. Egli è evidente che per le accennate condizioni topografiche non potremo situare la ferrovia che sul lido del mare dall'uno o dall'altro lato della Penisola ed anche in tale poco favorevole giacitura la spesa di costruzione non sarà punto lieve. Tanto per accedere alla via ferrata che per imbarcarsi sui navigli, le persone e le merci dovranno percorrere sulle vie ordinarie un certo tratto che sarà il più delle volte a vantaggio e raramente a danno della via marittima e quindi la prima non potrà facilitare il movimento scemando il rotaggio che per pochi e parzialissimi casi. Considerata poi la superiorità incontestabile che quest'ultima presenta per la economia dei trasporti in confronto della via ferrata, è certo che per il nostro caso speciale di Calabria la lotta fra di esse riescirebbe impossibile nelle condizioni attuali delle provincie considerate. Giacchè il viaggiare sulle rotaje non avrà che il vantaggio della sicurezza e speditezza in confronto del viaggiare in vaporiera; ora questi vantaggi non ponno essere anteposti al sensibile maggior dispendio della piazza nel vagone che da popolazioni ricche, colte ed industriose quali le Calabresi pur troppo non sono. Più avanti dimostreremo con cifre la esattezza di questa conclusione. Con ciò non crediamo sconfortare i Calabresi che crederanno, come molt'altri trovare una panacea a molti loro mali nel veder correre la locomotiva presso i loro casolari; vogliamo solo far loro apprezzare più giustamente il magnifico dono che lor fece natura collocandoli fra due mari, dono che opportunamente utilizzato saprà rimpiazzare la ferrovia senza l'enorme spesa che occorrerebbe per aprirla. Infatti ove ogni centro di popolazione o di produzione dista non più di sessanta chilometri da un punto d'imbarco a che prò la ferrovia che è dimostrata non poter lottare con vantaggio sensibile colle strade ordinarie che sopra a percorrenze forti e superiori alla massima sopra indicata? 
Ma si potrebbe rispondere che le strade ordinarie non esistono ed i porti e gli imbarchi sono quali natura li creava e non più. E qui sta appunto il campo di operosità delle Calabrie e quanto giustamente ponno domandare al governo. Dall'apertura delle vie ordinarie e dal miglioramento dei porti deve solo aspettarsi quella economia e facilità dei trasporti dai quali a ragione la Calabria si aspetta il proprio rifiorimento economico e che erroneamente si volle domandare ad una ferrovia. Aprite strade inghiaiate, gettate moli e ponti sporgenti d'imbarco e farete lavoro utile non improduttivo quale quello di una ferrovia, in paese dove non si viaggia abbastanza da dar sufficiente lavoro a quell'immensa macchina che è una strada ferrata e dove già si può viaggiare assai più speditamente ed economicamente salendo sul ponte di una vaporiera. E qui, se alcuno ne opponesse che le opere pubbliche da noi propugnate costeranno quanto una ferrovia e forse più, diremo che le ordinarie fatte con senno e dirette da personale intelligente ed onesto a pari estensione, toccheranno ordinariamente il ventesimo e saliranno raramente al decimo della spesa che si deve erogare per una via ferrata e che i luoghi d'imbarco quando si adottino i ponti sporgenti in ferro di cui cosi numerosi esempj offre la costa inglese della Manica si potranno in moltissime località stabilire con non troppo grave dispendio. Tutte poi le opere che da noi si suggeriscono debbono egualmente farsi anche aperta che sia la arteria ferroviaria, perchè le strade ordinarie sono indispensabili per il movimento locale interno ed anche per accedere alle stazioni, e ciò molto più in Calabria dove le popolazioni stanno aggruppate sulle vette dei colli, ove la ferrovia non può essere avvicinata e donde ben lieve vantaggio ricaverebhero dal veder transitare i convogli nel sottoposto piano se non avessero modo di agevolmente scendere e trasportarvi le loro derrate. I porti poi necessitano per l'imbarco delle produzioni del paese che per la massima parte diretto al continente europeo ed alla Gran Bretagna non cesseranno mai dal preferire la via del mare.
Ammesso quanto abbiamo ripetuto fin qui che di strade ferrate per ora in Calabria non si debba costruirne, e lasciando a chi spetta di stabilire quale partito si debba cavare dai lavori già eseguiti che ne pare si dovrebbero adattare ad una via nazionale opportunissima sotto a tutto i rapporti, passeremo a considerare se, venuto il tempo di dotare la Calabria di una rete ferroviaria, il tracciato prescelto ora lungo il littorale del Ionio sia il più conveniente per lo scopo che si vuole raggiungere e quale per conseguenza abbia ad essere l'andamento di quella ferrovia che pur deve essere contemplata dal governo, onde preordinarvi i tronchi prossimi e gli altri lavori da eseguirsi immediatamente, benchè se ne rimetta la costruzione ad un'epoca di maggior floridezza e per la nazione e sopratutto per le Calabrie.
Forse qui si obbietterà che la via da Taranto a Reggio può avere utilità militare in caso di guerra marittima; ma esposta in quasi tutto il suo percorso al cannone di un nemico che fosse padrone del mare poco può contribuire alla difesa del nostro territorio. Per questo caso gioverà piuttosto predisporre un buon sistema di strade ordinarie che permettano di concentrarsi nell'interno e di là calare in massa a respingere chi tentasse occupare un punto qualunque del litorale.
La rete ferroviaria Calabrese quale fu stabilita nella legge di concessione, è costituita di una linea che seguendo il litorale del Ionio, va da Reggio a Taranto con una diramazione dalle foci del Crati a Cosenza. Questa rete si imbranca e forma sistema per i trasporti colla linea in progetto dalle foci del Basento a Potenza, Eboli e Napoli e coll'altra ormai compita da Taranto a Bari. Sarà, avendo di mira le linee ultime accennate colle lunghezze loro assegnate dalla Commissione parlamentare, che riferì sull'ultimo riordinamento delle ferrovie del Regno, che noi verremo trattando delle percorrenze dei trasporti. Premettiamo che gli scopi a cui si mirava colla costruzione della linea da Reggio a Taranto erano: facilitare le communicazioni delle Calabrie e della Sicilia col restante d'ltalia; favorire come sempre gli interessi delle provincie attraversate, cioè delle Calabrie. Ma sgraziatamente questi scopi non sono che imperfettissimamente raggiunti, come entriamo a dimostrare.
(omissis) dopo aver esposto gli esempi del caso ed essere pervenuto alla conclusione che ''Si può quindi conchiudere senza tema di errore che la ferrovia non trasporterà una sola tonnellata di merci da Napoli alla Sicilia, e ben pochi passaggeri ed anche questi nelle stagioni meno buone soltanto'', il Paravicini espone ''la preferenza da accordarsi ad un tracciato sul versante del Tirreno, piuttosto che su quello del mar Jonio'', basata su tre motivi così individuati - e spiegati nei tre relativi punti del testo -:
1° Maggior brevità della linea (la tirrenica);
2° Maggior densità della popolazione (dei comuni attraversati dalla ferrovia tirrenica);
3° Maggior opportunità per gli scambj col restante d'Italia all'infuori di Napoli. 
(omissis) e veniamo alle conclusioni del Paravicini, che dice:
   Riassumendo tutto quanto abbiamo detto possiamo ripetere:
a) Che per ora di ferrovie in Calabria non se ne deve fare, lavori utili e produttivi non potendo essere che le strade ordinarie ed alcuni miglioramenti ai porti di mare. I soli interessi delle somme risparmiate colla sospensione dei lavori delle strade ferrate ponno bastare a promuovere energicamente le opere da noi appoggiate, visto che questi interessi saliranno ad oltre otto milioni all'anno, rappresentano cioè cinquecento chilometri di strade ordinarie, senza tener conto dei sussidj che si ponno imporre alle provincie e ai comuni.
b) Che aperte le strade comuni e sviluppatosi un maggior movimento commerciale in paese, la ferrovia che tornerà utile alle Calabrie sarà quella che segue il littorale del Tirreno; l'altra lungo il Jonio essendo in ogni modo da abbandonarsi affatto.
  Anche la ferrovia del Tirreno gioverà farla a tronchi di mano in mano che ne risulterà dimostrata la convenienza, ma i debbono essere costrutti partendo da Eboli e procedendo verso Reggio e non già a ritroso come si è fatto fino ad oggi per errore interamente inesplicabile. Partendo da Eboli la strada è subito utilizzabile e facilmente esercitata come prolungamento di linea maggiore che parte da un grosso centro. Partendo da Reggio non può giovare a niente e rende 10 o 12 lire per chilometro alla settimana come accade sul tronco da Reggio a Lazzaro, che costerà nello stesso periodo di tempo non meno di mille in ispese d'esercizio. Il risultato pratico qui come sempre, è la più forte prova dell'errore commesso, ma nel caso nostro in tale proporzione da obbligarci veramente a stigmatizzare chi con tanta leggerezza se ne è fatto autore. Per una sciocca passione politica di popolarità, per accontentare le puerili impazienze di alcune cittaduzze che volevano avere il trastullo di veder correre una locomotiva, si sono iniziati lavori ferroviarj, gli uni staccati dagli altri, inutili tutti ed anzi peggio che inutili perchè consumano somme ragguardevolissime per essere tenuti aperti all'esercizio. Così però, Messina, Reggio, Palermo, tutte ebbero il loro piccolo tronco sul quale farsi trasportare a sollazzo nei giorni festivi. Ma questo sollazzo per sè stesso innocentissimo quanto costa alla nazione? Non mi accingo a farne i conti perchè temo spaventare il lettore; certo ben caro. Se tutti gli sforzi si fossero invece concentrati sopra a quell'unica strada che ha per la Sicilia una importanza veramente reale sotto a tutti gli aspetti e politici e militari ed economici, sulla traversa da Palermo a Catania, quanto maggior utile ne avremmo ricavato!  
Un ostacolo forte alla soppressione della linea da Taranto a Reggio sarà fatto da chi ne tiene l'appalto di costruzione, ma se il governo vuole potrà ridurne le pretese a limiti ragionevoli, giacchè la sola minaccia di obbligare la Società Concessionaria ad adempiere i proprj impegni e quindi a dichiarare quel fallimento che in oggi è interamente compiuto, basterà a far raffreddare qualunque troppo ardente cupidigia.
Il testo integrale si può leggere a questo link:
http://books.google.it/books/about/Delle_Strade_Ferrate_in_Calabria.html?id=cPvYmgEACAAJ&redir_esc=y

venerdì 21 marzo 2014

§ 068 210314 MEZZOGIORNO A PETELIA. Norman Douglas, Vecchia Calabria, cap. XXXIX.



                            MEZZOGIORNO A PETELIA.
             Norman Douglas, Vecchia Calabria, cap. XXXIX.
Quello che segue è il penultimo capitolo delle peregrinazioni di Norman Douglas in Calabria, anche se, a dispetto del titolo, il viaggiatore britannico inizia il suo viaggio da Lucera, e solo dal XIV° dei quaranta capitoli che compongono il libro comincia a descrivere luoghi e realtà calabresi… un po’ come il giro d’Italia, quando parte da Parigi o dall’Olanda…
  Mi pare che Douglas colga benissimo alcune note caratteriali… a cominciare dalla ‘amica del Museo di Catanzaro’ che confonde Strongoli, l’odierna Petelia, con Stromboli – qui si sente il sarcasmo tutto britannico verso una persona che dovrebbe essere ‘introdotta' nella materia storica - e giù fino al pastore che vorrebbe approfittare (‘vurpignu’ si direbbe, ma non troppo) della presenza di quello che ritiene essere un americano per cercare di ‘imbarcarsi’, per il tramite di quest’ultimo’, in una improbabile avventura transoceanica.
   Nel paragrafo iniziale si legge la staticità che connota certe situazioni… l’attesa, il rinvio, la rinuncia, quasi fatale, a compiere anche una escursione da Cotrone a Capo Lacinio. In ‘Vecchia Calabria’, Douglas indica con ‘Cotrone’ la città attuale e con ‘Crotone’ quella magnogreca… in effetti il cambio di denominazione è avvenuto nel 1929, e qui siamo, all’epoca della pubblicazione, nel 1915: tutto normale, quindi.
   Non mancano i riferimenti alla mitica, strenua, fedeltà di Petelia a Roma, in opposizione ad Annibale, e altresì il richiamo a Teocrito che dei pastori di queste terre cantò nei suoi versi. Su un altro versante, anche il resoconto sull’operato della ‘guardia di finanza’ è molto chiaro… in definitiva, credo che Norman Douglas conoscesse molto bene la materia calabra, molto più di quanto si sia propensi a credere. O ad essere creduti…
   Un giorno dietro l'altro, continuo a contemplare quel­le sei miglia di mare che mi separano dal promonto­rio di Lacinia e dalla sua colonna. Come raggiungerlo? I barcaioli hanno voglia di compiere questo tragitto: tutto dipende però, mi dicono, dal vento.
Un giorno dietro l'altro - una calma mortale.
«Due ore... tre ore... quattro ore... secondo!» e indicano il cielo. Un po' di brezza, aggiungono, si alza qualche volta, di mattina presto; una vela si può issare.
«E per tornare a mezzogiorno?»
«Tre ore . . . quattro ore ... cinque ore ... secondo! »
La prospettiva di dondolare in una barchetta per mezza giornata, sotto un cielo ardente, non è proprio il mio ideale di passatempo, tanto più che quest'espe­rienza il sapore di novità l'ha ormai perso da molti anni. Decido di aspettare; di dedicarmi nel frattempo all'antica Petelia - la «Stromboli» della mia amica del Museo di Catanzaro ...
Da Cotrone a Strongoli, che si ritiene sorga sulle fondazioni della antica, tanto assediata città, è una facile gita di un giorno. Strongoli sorge in cima a un colle e la diligenza, che aspetta il viaggiatore alla pic­cola stazione ferroviaria, impiega due ore a raggiun­gerla, arrampicandosi per la salita in mezzo agli ulivi, con ampie curve e svolte.
Anche a così breve distanza di tempo, i miei ricordi di Strongoli sono confusi e vaghi. Il percorso nelle luci splendenti del mattino, il grande caldo dei giorni precedenti, e due o tre notti insonni a Cotrone, ave­vano molto diminuito il mio desiderio di novità. Ricordo di aver visto nella chiesa alcuni marmi romani e d'essere stato poi guidato ad un castello.
Più tardi riposai, in alto, sotto un ulivo, osservando in basso la valle del Neto, che poco lontano da qui si getta nell'Ionio. Pensavo a Teocrito, cercando di raf­figurarmi questa valle come doveva apparire agli occhi suoi e dei suoi pastori: le selve sono scomparse, e le piogge invernali, rovinando lungo i declivi di terriccio, hanno rimodellato il volto di tutto il paese.
Eppure, sia la natura come può, gli uomini torne­ranno sempre verso colui che così melodiosamente canta delle verità eterne, dei doveri e delle necessità umane, che nessun mutare di secoli può in realtà mu­tare. Come sembra poeta moderno a noi, che siamo stati messi in contatto con la sua verità spirituale da un Johnson-Cory e da un Lefroy! E quanto incredi­bilmente remoto è invece quell'ellenismo alla Bartolozzi che li precedette. Che dire, ad esempio, di quel famoso pseudo-Teocrito, Salomone Gessner, che pure nella sua Daphnis cantò questa stessa valle del Neto? Ahimè, il buon Salomone ha percorso la strada della noia; è morto, più morto del re Psammetico; e ora va facendo il moralista in qualche dignitoso paradiso, tra greggi di pecore in porcellana di Dresda e giovanetti e fanciulle sciropposi. Chi riesce più a leggere il suo tanto tradotto capolavoro, senza provare dolorose trafitture? È morto come un chiodo !
Per quel che ricordo, nella Daphnis ci sono un'in­finità di baci. Era un'epoca sentimentale e l'idillio pa­storale greco, trasferito in un ambiente svizzero del 1810, non poteva finire che in piagnisteo e smanceria. La verità è che i pastori hanno numerose occasioni di giocare con Amaryllis nell'ombra dei boschetti; occa­sioni che certo, a mia conoscenza, non trascurano. Teocrito lo sapeva benissimo, ma in generale è avaro con la preziosa merce dei baci; sembra aver concluso che in letteratura, se non nella realtà, si può essere sazi anche di una cosa piacevole. Senza contare che, essendo un meridionale, non poteva aver fiducia che i suoi giovani eroi restassero in eterno allo stadio dei ba­ci, secondo i modelli offerti dai nostri innamorati bri­tannici, tanto simili ai pesci. Una simile condotta dove­va apparirgli impossibile; e forse anche immorale...
Dal punto in cui sedevo si può scorgere la strada che sale addentrandosi verso la Sila, oltre Pallagorio. Lun­go i bordi si allineano strani monticelli rotondi, da cui esce del fumo: sono le miniere di quello zolfo scuro che avevo visto trasportare sui carri, per le vie di Cotrone. Mi hanno spiegato che vi sono otto o dicci miniere, sco­perte circa trent'anni fa - grosso errore, perché già se ne fa cenno in testi del 1571 - dove lavorano parec­chie centinaia di minatori. Avevo avuto intenzione di visitarle, ma ora, nel caldo meridiano, esitavo; la di­stanza che mi separava anche dalla più vicina, mi sembrava assurdamente grande e proprio quando avevo deciso di cercare una carrozza per farmici por­tare (che maledizione la coscienziosità!) un gentilissimo abitante della città mi invitò a pranzo. Supe­rando le mie deboli resistenze, mi condusse in uno stanzone a volta e là, tra il pasto di specialità campa­gnole e la conversazione di sua moglie, tutti i miei progetti svanirono. Invece che le statistiche sullo zolfo, appresi uno stralcio di storia locale.
«Lei si meraviglia di come siano vuote le strade di Strongoli » raccontò il mio ospite, «eppure, sino a poco tempo fa, qui non si verificava movimento di emigra­zione. Poi tutto è cambiato, e le spiego io come e perché. C'era qui una guardia di finanza, un tipo qualsiasi, che stava al dazio. Per elevare il nome della sua fami­glia prese in moglie un'ereditiera; intendiamoci, non per avere figli, ma... insomma ! E si mise a comprare terra tutt'intorno. Piano, con metodo e con prudenza, finché, a forza di minacce e di intrighi è diventato padrone di quasi tutto il paese. Metro per metro, se lo è preso tutto, con i soldi della moglie. Secondo lui, quello è il modo di perpetuare il proprio nome. Tutti i piccoli proprietari, privati delle loro terre, se ne sono andati in America per non morire di fame e adesso enormi tratti di terra ben coltivata sono quasi abban­donati. Guardi in che condizioni è la campagna! Ma un giorno o l'altro riceverà anche lui il suo compenso. Sotto le costole, sa!»
Con quella meditata restaurazione di un feudalesi­mo all'antica, quel tizio era riuscito a diventare l'uo­mo più odiato della regione.
Ma venne ben presto il momento di lasciare i miei cordiali ospiti per andare a visitare, nel sole cocente, le altre antichità di Petelia. Non mi sono mai sentito così poco attirato dal fascino dell'antiquariato e del­l'archeologia. Sarebbero state tanto più piacevoli quel­le ore in qualche fresca osteria! Tuttavia ripresi il cam­mino, per scoprire con gioia che non vi era quasi più nessun «pezzo» antico, tranne delle mura presso un convento in rovina, in blocchi di pietra e mattoni del­l'epoca romana. Il Comune condusse degli scavi in questo punto fino a pochi anni fa, recuperando qual­che pezzo che andò subito disperso. Forse qualcuno di essi è fra quelli del museo di Catanzaro. Avuta notizia degli scavi, il provvido e paternalistico Stato si impa­dronì del luogo e vi si adagiò sopra; i ruderi già scavati furono di nuovo coperti di terra.
Mentre, come era mio dovere, mi aggiravo lì in­torno, saltò fuori dalla terra stessa un capraio, un ometto triste, che si offrì di farmi da guida non solo a Strongoli, ma per tutta la Calabria. Il suo segreto desiderio divenne presto evidente: voleva scappare dal suo paese e trovare la strada per l'America sotto la protezione mia e del mio passaporto. Era la sua grande occasione: uno straniero (americano) che prima o poi sarebbe tornato in patria! Con ingenuo fervore egli insistette sull'argomento; invano cercavo di spie­gargli che esistevano anche altri paesi nel mondo, che io  non sarei andato in America. Lui scuoteva il capo e infine saggiamente osservò: «Ho capito. Lei crede che
il mio viaggio costerebbe troppo. Invece deve capire anche lei: una volta trovato lavoro, io le restituirò fino all'ultimo soldo.»
Gli offrii delle sigarette per consolarlo. Ne accettò una, riflettendo, ancora non rassegnato.
I caprai non soffrivano di così acuti desideri, ai tempi di Teocrito.

martedì 18 marzo 2014

§ 067 180314 A. Piromalli, Gian Teseo Casopero.



   Un nome alquanto irrituale, 'Gian Teseo', al punto che è diventato, in cirotano, 'Centessèi', come la strada che passa per Cirò Marina... e hai voglia di scervellarmi, quando ero bambino, su come mai ci fosse qualcuno che portava lo stesso nome di una strada statale... e lo stesso cognome di un umanista, ma questo l'ho scoperto dopo. 
   Trattandosi di una storia della letteratura le notizie relative al Casopero sono alquanto ristrette, ma comunque interessanti. Cosa aggiungere? Che l'umanista cirotano discendeva da famiglia salentina, se può interessare, ben radicata a Cirò e anche a Cirò Marina, con una e soprattutto due 'pi', Casòppero, e che esiste anche, secondo tradizione ormai in disarmo, anche un 'chiru 'e Casòppiru'... ma di queste indicazioni localistiche mi riprometto di parlarne un'altra volta...
 
   Prima di passare alle pagine del Piromalli, occorrerà forse ricordare - o premettere - che l'ambiente letterario della prima metà del cinquecento, in Calabria - a Cosenza, per meglio dire - è assolutamente degno di nota, grazie all'impegno e all'opera di letterati quali Aulo Giano Parrasio, fondatore dell'Accademia Cosentina, Antonio e Bernardino Telesio, Quattromani, Franchini... intellettuali che già allora si sparsero per varie parti d'Italia - Milano, Parma, Venezia, Roma, e ovviamente Napoli - per esercitare il loro apprezzato magistero.
   Quelle che seguono sono le note relative a G. T. Casopero, tratte da 'La letteratura calabrese' di Antonio Piromalli, Guida editori, Napoli 1977.   
  
 
   Al discepolato ideale del Parrasio appartiene Giano Teseo Casopero, nato a Cirò il 10 aprile 1509. Studiò a Rovito, sotto la guida di Niccolò Salerni che dopo avere insegnato a Roma, Pavia, Napoli, era ritornato in patria. Il Salerni insegnò il latino a Casopero il quale fu avviato dai familiari allo studio del diritto. Sul Casopero  ha  scritto una  equilibrata,  monografia  Gregorio Cianflone*, il quale ci informa dell'amore di Casopero per Fastia, una  donna sposata, dell'amicizia  con Antonio Telesio e Luigi Giglio. Nel 1532 il Casopero si reca a Napoli dove incontra i co­sentini umanisti colà dimoranti, Franchini, Telesio, i Martirano, quindi, imbarcandosi a Crotone, va a Padova per studiare legge. A Padova ebbe come maestri Mariano Socino e Giovanni Antonio De' Rossi, ma continuò a coltivare gli studi umanistici te­nendosi stretto, nelle sue prose, a Cicerone, intorno alla cui prosa fervevano in quel tempo vaste controversie. A Padova conobbe anche Paolo da Montalto, calabrese di Squillace, che sarà il suo primo biografo, in quella città sì laureò nel 1537 ma dopo tale data mancano altre notizie di Casopero né sappiamo quando e dove sia morto.
Il Casopero scrisse gli Amores per Fastia (1535), Sylvae (1535) contenenti elegie, epigrammi, compose anche epistole, orazioni e due carmi politici. Virgilio e Tibullo si avvertono dietro il giro  ritmico delle Sylvae, talvolta Ovidio. Indubbiamente gli aggettivi  esornativi sono convenzionali e letterari, si avverte che i com- ponimenti appartengono alla letteratura e non alla poesia ma  l'esercizio letterario è dignitoso, fa parte di un devoto amore  verso l'umanesimo come eleganza di atteggiamento spirituale di  fronte alla vita. Nella letteratura umanistica è difficile ritrovare  profondità di visioni e ricchezza di idee; l'umanista pare appa­garsi della bellezza formale che alita sui versi, di solito c'è nel  poeta la capacità di comporre un quadro sereno, di effondere  sentimenti lievi e misurati. Ma l'imitazione formale restringeva  in confini limitati la libertà espressiva. Si osservi lo sguardo di contemplazione del Casopero che descrive la pace raggiunta dopo il trattato di Cambrai:
Vir mulierque canat, sensibus sociata juventus 
argutum pulset festivo sedula plectro
barbitum, ad astra poli numeros jactetque canoros,
perque domos et templa deum predivite luxu
fulgida sternantur rutilis aulaea figuris.
Casopero negli Amores canta una figura di donna inquadrata in un piccolo mondo paesano, una figura di donna bella per i capelli biondi e gli occhi neri, le labbra rosse. Da Fastia sembra prendere luce ogni cosa:
Panditur et mundi facies, oscuraque cedunt  
nubila, quumque profers, Fastia, poste caput;
clauditur atque atra nitidum caligine coelum 
tecta refers intra cum tua mox faciem.
A Fastia che si reca al santuario di Loreto per implorare la guarigione del padre il poeta invia gli auguri di un felice viaggio, certamente difficile mentre i Turchi infestano le coste della Calabria.
Nei libri degli Amores Casopero sa esprimere in semplici versi sentimenti di amore appassionato ma anche contenuto e riesce a rendere situazioni concrete e vicende minute in modo da comporre un canzoniere garbato e non indegno di avere un suo piccolo posto fra quelli dei contemporanei.
*G. Cianflone, Casopero e gli umanisti calabresi e veneti, II ed. Napoli 1955.

lunedì 17 marzo 2014

§ 066 170314 'Calabria Sconosciuta', G. Pisano: Antón Calabrés, un (forse) cirotano in America.

Una rivista interessante, dal taglio classico, nel senso che sotto la bella patina delle pagine si coglie un'altra patina, quella del tempo in cui le riviste si dedicavano effettivamente alla scoperta del patrimonio storico, geografico, demologico delle regioni d'Italia e non solo.
Questa bella rivista, fondata da Giuseppe Polimeni e diretta da Carmelina Sicari, si pubblica in Reggio Calabria ed è arrivata al suo XXXVI anno di vita, vissuta, immagino, in mezzo alle mille difficoltà che dalle nostre parti non solo non mancano mai, ma risultano amplificate dalle condizioni che potremmo definire, tutto sommato, sociali e ambientali. Ne consegue un dispendio di energie, da parte dei curatori della rivista, senz'altro notevole: spero che questo loro impegno non sia vano e che venga in qualche modo premiato... 
Sul numero di gennaio-marzo 2014 dovrebbe apparire un articolo del nostro Francesco Vizza sulla figura di Giano Lacinio, l'alchimista al cui studio il 'Prof' sta dedicando tanta attenzione.
'Rubo' uno stralcio dell'articolo, a firma Giuseppe Pisano, che parla del misterioso marinaio calabrese imbarcato nel primo viaggio di Cristoforo Colombo sulla rotta delle Indie, che potrebbe essere anche originario di Cirò/Ypsicrò, secondo una tesi esposta nell'articolo stesso. Altri lo vogliono, questo Antón Calabrés, proveniente da Amantea o Seminara... In mancanza di fonti certe, siamo alle solite: 'tutti afferricàti aru salàtu'... Il povero Calabrés, a ben guardare, oltre ad essere il primo calabrese a metter piede sul suolo americano, fu anche il primo nostro corregionale a rimetterci la vita da quelle parti, ad opera degli indigeni... Calabrés è quasi certamente non un cognome, ma quella 'denominazione d'origine' a volte - nel bene e nel male - ineliminabile: il cavaliere calabrese Mattia Preti, il calabrese Leonzio Pilato, il calabrese Barlaam, fino al ragazzo di Calabria, per non parlare di tutti i calabresi 'quegli altri'... non se ne esce.
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                               Antón Calabrés: il marinaio calabrese di Cristoforo Colombo

                                                               Giuseppe Pisano

   Fu il primo calabrese a varcare l'Ocea­no e a mettere piede in quel Nuovo Mondo in cui, nei secoli successivi tanti suoi conterranei lo avrebbero seguito. Si chiamava Antón Calabrés, marinaio, l'uomo che assieme ad altri seguì Cristoforo Colombo nel primo viaggio alla sco­perta del Nuovo Mondo a bordo della Pinta. Di lui si sa poco o niente e fino ad ora il suo nome è passato inosservato, nascosto fra le pieghe della storia, di­menticato fra le pagine dei documenti dell'epoca, confuso fra quelli dei tanti che parteciparono a quell'impresa, più di 500 anni fa. Solo nel 1982 il nome dì Antón Calabrés venne strappato per un attimo alle nebbie della dimenticanza quando António Quinto Pisano, all'epo­ca consigliere comunale di Soverato, pro­pose ed ottenne di dedicare una strada al misterioso navigatore, del quale aveva trovato menzione in antichi testi mari­nari. Poi più nulla! Ma chi era e da dove veniva Antón Calabrés? Su quest'ul­timo punto le nostre ricerche ci portano a formulare l'ipotesi che sia di Amantea, antico centro demaniale marinaro il cui porto, nel XV secolo, era il più attivo della costa tirrenica della Calabria centro-settentrionale e l'unico capace di ospitare imbarcazioni molto pesanti . Inoltre, si è potuto riscontrare che in Amantea - dove peraltro la presenza ge­novese a quel tempo era molto intensa - esiste una tradizione orale, in particolare tra gli abitanti più anziani del centro storico, che parla di un'antica commemorazione che si svolse in onore del marinaio amanteano il quale seguì Colombo nel primo viaggio di scoperta del nuovo continente e di lì a poco venne costruita, nella zona vecchia, una chiesetta denominata della Pinta.
   E proprio nella zona più antica di Amantea esiste un vico la Pinta e una fontanella del '500 detta della Pinta. Vi sono però pareri discordanti sulla figura e sulle origini di Antón Calabrés. Secondo lo studioso Gianni Aiello le ori­gini natie del marinaio calabrese di Colombo "potrebbero ricollegarsi in quel di Seminara, lo stesso luogo da dove proveniva Giovanni Calabrese, luogotenente di Carlo V e che guidò l'assedio di Tunisi". Per Bruno Aloi, membro del "Co­mitato Nazionale per Colombo" di Genova, si tratterebbe invece di "António Calabrese di Cirò, quando il paese si chiamava Ypskron". Di Calabrés, come dicevamo, si sa poco o niente. Il suo nome, infatti, compare per la prima volta proprio nei documenti riguardanti il primo viaggio di Colombo attraverso l'Oceano. Prima di quell'im­presa di lui non si hanno notizie, né si sa di suoi precedenti viaggi per mare; il suo nome indica una sicura origine ca­labrese, ma nulla sappiamo della sua famiglia né di suoi eventuali discen­denti. Antón Calabrés, dunque, entrò a far parte dell'equipaggio di Cristoforo Colombo nel luglio del 1492, assieme ad altri due italiani: il genovese Jacome el Rico ed il veneziano Juan Vegano. Per il resto l'equipaggio (90 persone comples­sivamente) era formato per la quasi to­talità da spagnoli (84), ad eccezione del portoghese Juan Arias e del negro delle Canarie Juan Portugués. Non era stato facile reclutare gli uomini. La storiogra­fia ufficiale dice che nessuno, nemmeno i più audaci o i più disperati, erano di­sposti a rischiare la vita in un'impresa che Juan Rodriguez de Mafra aveva de­finito "cosa vana e stolta", profetizzando per gli sventurati che vi avessero preso parte "pericoli orribili". Quando già Co­lombo era riuscito ad ottenere le tre navi (due caravelle, la Pinta di Gomez Rascón e Cristóbal Quintero e la Niña di Juan Niño, ed una caracca, la Gallega del bi­scaglino Juan de la Cosa, poi ribattezzata Santa María) solo quattro uomini, con­dannati alla pena capitale e ricercati dal­le guardie, avevano chiesto di essere ar­ruolati. I sovrani don Ferdinando e Isa­bella, infatti, per facilitare l'allestimento della spedizione, avevano promesso di accordare la grazia più ampia a quanti, già colpiti da pena di carcere o di morte, si fossero arruolati negli equipaggi co­lombiani. Così Alonso Clavijo di Vejer, Juan de Moguer e Bartolomè Torres di Palos e Pedro Yzquierdo di Lepe chiesero di essere ammessi all'equipaggio. Il Tor­res aveva ucciso, nel novembre del 1491, un certo Juan Martin, banditore di Pa­los, forse per una questione di donne. Imprigionato e condannato a morte, era evaso dalla piccola e incustodita prigione locale, grazie all'aiuto di tre suoi amici. Datisi alla macchia, i quattro erano riu­sciti fino a quel momento a farla franca e forse non avremmo mai saputo nulla di loro se la notizia della possibile grazia non li avesse spinti ad entrare nell'equi­paggio di Cristoforo Colombo e nella sto­ria. Ma per convincere gli altri ci voleva il carisma di un uomo di mare conosciu­to e stimato da tutti. Padre Marchena, fedele sostenitore ed alleato di Colombo, pensò allora di coinvolgere nell'impresa Martin Alonso Pinzón, pilota e capitano di mare, navigatore esperto e ricco pro­prietario di una nave con la quale aveva partecipato alla campagna contro i por­toghesi e si era recato anche a Roma, do­ve aveva potuto consultare negli archivi vaticani alcune carte nautiche che aval­lavano sorprendentemente le ipotesi di Colombo. Quando incontra Colombo, Pinzón ha cinquant'anni ed ha navigato tutto quello che c'era allora di navigabile. Gli bastano poche battute per compren­dere di trovarsi di fronte ad un uomo esperto di problemi marinari e dotato della luce del genio. Accetta di prendere parte all'impresa come comandante del­la Pinta ed annette subito anche suo fratello,Vicente Yánez, che sarà messo al comando della Niña. A quel punto, spin­ti dal carisma e dall'esperienza dei Pin­zón, furono in molti, nel giro di qualche settimana, a sottoscrivere il contratto di ingaggio. Fra di loro anche il nostro Antón Calabrés che probabilmente giunse al porto nella tenuta tipica dei marinai, con il berretto rosso conico e la cappa grigia. Per un anno, tanto è prevista la durata della navigazione, riceverà come gli altri dodicimila maravedìs ed ha dirit­to ogni giorno a circa 350 grammi di bi­scotto, ad un azcumbre di vino ed a 250 grammi di carne secca o di pesce. Assie­me a lui, sulla stessa caravella, anche il veneziano Juan Vegano.

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sabato 15 marzo 2014

§ 065 150314 Norman Douglas, Old Calabria, il Cirò e Cotrone.



Norman Douglas, Vecchia Calabria (Old Calabria, Secker, London, prima ed. 1915),  dal Cap. XXXVII, ‘Cotrone’, pagg. 460-465 dell’edizione Giunti-Martello, 1967, 1983, traduzione di Grazia Lanzillo e Lidia Lax.
‘Old Calabria’ è un libro di assoluto valore, soprattutto – come è ovvio – tra quelli che trattano i viaggi nelle selvagge contrade del Sud d’Italia, in quei territori, cioè, avvertiti nel resto d’Europa come una propaggine del continente africano, senza stare troppo a sottilizzare e senza tanti fronzoli o finte accortezze. La Calabria rappresenta la punta più aguzza di questa pessima fama, essendo la sede privilegiata (!) della razza maledetta che da essa nasce, la abita, se ne allontana, a volte per scelta, il più delle volte per obbligo. Va dato atto quindi e reso merito a quanti da viaggiatori, da ‘esploratori’, da appassionati di geografie e popoli, o di antichità più remote – leggasi Magna Grecia – si sono avventurati dalle ‘nostre parti’ fornendone resoconti sotto diverse forme, dalle memorie di viaggio alle stampe che oggi chiamiamo ‘dell’epoca’… La prosa di Norman Douglas è eccellente, lineare, e il suo pensiero è chiaro e penetrante, e non manca di dimostrarlo in questo bel libro, degnamente tradotto.
Le pagine che seguono non sono le più profonde e nemmeno le più belle o interessanti del libro, le propongo perché vi si parla anche del vino di Cirò… I capitoli che preferisco sono quelli finali, dedicati a  Petelia, cioè l’odierna Strongoli, e alla ‘Colonna’. 
Leggendo ‘Vecchia Calabria’, il lettore potrà rendersi conto di quanto poco giovevole, se non deleteria, sia quella frase ‘non facciamoci conoscere’, di fronte alla perspicacia e all’occhio attento del viaggiatore, dello straniero che riesce a penetrare aspetti del convivere sociale che la quotidianità, le abitudini, l’uso reiterato, fanno entrare a far parte del modo di essere di una popolazione intera, con tutte le conseguenze negative che possono derivarne… E’ sbagliatissimo: bisogna farsi conoscere, bisogna uscire da quella nicchia angusta in cui per troppi secoli la nostra terra è stata artatamente ridotta, bisogna confrontarsi, vincere, perdere, darsele e tirare avanti, bisogna imparare… E questo cosa c’entra? C’entra, c’entra… date retta a un fesso. E domandatevi come mai ci siano voluti migliaia di anni, ad esempio, per riportare l’Università in questa terra che aveva accolto Pitagora, Alcmeone, Filolao… a parte il fatto che all’università non ci sono nemmeno andato (o meglio… l’ho abbandonata) e quindi molto meglio di me potrebbero dirlo altri…
Aggiungo solo che mi pare di notare che molti mei corregionali vivono questa condizione dell'essere calabresi quasi come un conflitto, non tanto irrisolto, quanto non meritevole di risoluzione...  Credo che non si sbaglino, ma che non abbiano ragione. Ce ne vuole per liberarsi di nostalgie, rammarico, assenze varie, sbagliando o no, questo non saprei dirlo... ce ne vuole per diventare apolidi, adespoti, anonimi, e capaci di vivere ovunque. 
copertina e risvolto

L'aria è più fresca quando mi sveglio e, guardando fuori della finestra, mi rendo conto, dai morbidi effetti di luce, che il giorno sta calando. Verso quest'ora del crepuscolo la cupola ininterrotta del cielo subisce spes­so una breve trasformazione. Allora si possono vedere, concentrate in altezza, masse di nuvole che si vanno accumulando sopra le alture della Sila e raccolgono nuvole ausiliarie da tutte le parti; d'un subito i lampi giocano attorno ai vapori lividi e sporchi, più oltre si ode alto il brontolio del tuono, verso qualche scroscio dì pioggia inzuppante. Ma sulla pianura il sole continua a brillare con una benevolenza svuotata; nul­la si avverte della tempesta tranne nervosi aliti di vento che sollevano mulinelli di polvere dalle strade di campagna e frustano il mare in una falsa frenesia di ondine arruffate. E’ appena l'interludio. Presto le nubi nero-azzurre sono fuggite via dalle montagne che si stagliano, chiare e rinfrescanti, nel crepuscolo. Il ven­to si è smorzato, la tempesta è finita e Cotrone è, come al solito, assetata di pioggia che non viene mai. Tuttavia qui c'è il ritratto di una Madonna, una fa­mosa Madonna «nera», dipinta da San Luca, che «sempre procura pioggia quando la si prega».
Una volta, veramente, la coda di un temporale deve essere passata sopra le nostre teste, perché sono cadu­te poche e malinconiche gocce di pioggia. Mi affrettai a correr fuori, insieme con diversi altri cittadini, per osservare il fenomeno. Non vi erano dubbi al riguardo; era pioggia vera, le gocce si posavano a rispettabili in­tervalli sulla bianca polvere della svolta che porta al­la stazione. Un ragazzo, che passava di lì con una carretta, osservò che se fosse stato possibile raccogliere quella pioggia in un piattino o in qualche altro piccolo recipiente, sarebbe stata appena sufficiente a calmare la sete di un cucciolo di cane.
Di solito faccio un ultimo tuffo in mare, a quest'ora della sera. Dopo, è consigliabile incamerarsi uno o due gelati - sono eccellenti a Cotrone - e un bicchie­rino di Strega, per eliminare gli effetti dell'eccesso di lavoro. Poi, una breve passeggiata attraverso le strade pulite, ben illuminate e ora affollate, o lungo il viale Margherita, per vedere i militari e gli elegantoni pren­der aria vicino alle onde mormoranti, sotto i bastioni, simili a scogliere, del castello di Carlo V, e infine di lì si va a cena.
Questo pasto segna la fine dei miei compiti quoti­diani; non è permesso a nulla di serio di attirare la mia attenzione, quando il pasto è finito; chiedo una sedia e mi accomodo a uno di quei tavolini dal ripia­no di marmo, all'aperto sulla via, e osservo la folla che fluttua attorno a me, mentre mi fumo un sigaro na­poletano e trangugio alternativamente gelati e caffè finché, verso la mezzanotte, viene stappata una con­clusiva bottiglia di vino di Cirò - sigillo adatto alle fa­tiche diurne.
Si potrebbe dir molto in lode del vino calabrese.
Il suolo è pieno di piacevoli sorprese per l'enofilo, e un giorno o l'altro spero di dar corpo alle mie espe­rienze pubblicando una mappa dei vini della provincia con un testo descrittivo a lato. Coloro che la compre­ranno - se pur saranno pochi - saranno certamente del tipo giusto.
Il buon dottor Barth - e gliene sia resa lode! - ha già fatto qualcosa del genere per alcune parti d’Italia ma non cita neanche di sfuggita la Calabria. E tuttavia qui quasi ogni villaggio ha il proprio tipo di vino e ogni famiglia che si rispetti ha il proprio metodo particolare di preparazione, per quanto poco noti sia­no questi vini fuori del luogo di produzione, a causa delle leggi daziarie che soffocano il commercio in­terno ed eliminano ogni incentivo a fabbricare un buon articolo per l'esportazione. Questo vino dì Cirò, ad esempio, è il nettare più puro, e così è quello che si coltiva anche più vicino, nella classica valletta del Neto e che, molto tempo fa, fu decantato dal vecchio Plinio; e così sono almeno altre due dozzine. Perché, giusta­mente dice Gregorovius, come anche la più piccola comunità italiana possiede il proprio antiquario debi­tamente aggiornato, se si riesce a pescarlo, così, mi si permetta di aggiungere, ogni piccolo luogo in questi dintorni può vantarsi di avere almeno un individuo che vi fornirà del buon vino, se... se voi vi mette­te coscienziosamente al lavoro per scovarlo.
Ora, per quanto in gioventù il Bacco calabrese ab­bia una selvaggia beauté du diable che stuzzica l'espan­sività della gente, già comincia a barcollare a sette anni in una vecchiaia acida, decrepita. Balzargli ad­dosso nel momento psicologicamente più adatto, sco­prire in quali cantine fresche e ricoperte di ragnatele egli stia sognando l'estate dorata della sua virilità - questa è cosa che un forestiero non potrà mai, mai sperar di ottenere senza un competente aiuto locale.
A questo scopo, di solito, mi rivolgo ai preti. Non perché essi siano i più poderosi ubriaconi (lungi da quest'idea; sono bonariamente epicurei, o persino aste­mi), ma a causa della loro insuperabile conoscenza delle persone. Sanno esattamente chi ha potuto con­servare il suo vino dell'anno tale e tal altro, e chi è stato costretto a venderlo o adulterarlo parzialmente; sanno, dalle confessioni che ricevono dalle mogli, il perché e il per come di tutti questi affari di famiglia e condividono, con il farmacista, la capacità di vedere nel più profondo dell'intricata rete della vita familiare. Sono «gialosi», tuttavia, di queste loro cono­scenze e bisogna avvicinarli nello spirito giusto: uno spirito di umiltà. Ma se li portate con tatto sull'argomento, accennando alle innumerevoli difficoltà del viaggiare in terre straniere, alla vita scomoda nelle lo­cande, al cibo che lascia tanto a desiderare e, sopra tutto, al rozzo vino che sta già, temete grandemente, rovinando la vostra sensibile milza (un organo im­portante in Calabria), invocando una tendenza ipo­condriaca che porta a vedere tutte le bellezze di questa splendida terra in una luce odiosa e cupa - trasforman­do i vostri giorni in notti, cioè - deve trattarsi di uno strano prete davvero, se non è compassionevolmente spinto a impartire l'informazione desiderata circa l'u­bicazione del miglior vino di famiglia ottenibile in quel momento. In fin dei conti, non gli costa nulla fare un doppio favore: uno a voi e uno al proprietario del vino, indubbiamente suo vecchio amico, che potrà vendere il suo prodotto a uno straniero con il venti per cento in più del prezzo praticato a uno del posto.
E, in mancanza dei preti, vado da uno dei tipi più anziani di quella tribù di conoscitori dal naso rosso, i cocchieri, anime sempre assetate e mercenarie, e questi, per una piccola attenzione, è capace di svelare non solo il suo segreto ma anche altri, assai più mi­steriosi.
Quanto al padrone della vostra locanda, egli non solleva la minima obiezione al fatto che voi portiate vino d'altri in casa sua. Il suo stesso vino, vi dice, è del raccolto dell'anno precedente e piuttosto aspro (leggermente annacquato, potrebbe aggiungere) - e per­che no? I clienti ordinari sono commercianti che non badano minimamente a ciò che mangiano e bevono, pur che ve ne sia a sufficienza. Non fa alcuna orribile allusione in merito allo sturamento: al contrario, egli assaggia il vostro vino, fa schioccare le labbra e vi ringrazia per avergli fatto fare una pregevole scoperta. Pensa che ne acquisterà egli stesso qualche bottiglia per sé e per qualche intimo amico . . .
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La mezzanotte è venuta e andata. La strada si va vuotando. I passi dei pedoni cominciano a riecheggiare sordamente. Mi alzo per la mia solita passeggiata in di­rezione del cimitero, per intonarmi al riposo, scotendo di dosso le banali e instancabili immagini dell'umanità che potrebbero, altrimenti, perseguitare i miei sogni. Le visioni cittadine sono presto lasciate alle spalle; qui c'è molta tranquillità, sotto il cielo caldo, illuminato dalle stelle; nulla parla di uomini, salvo il faro che ammicca a intermittenze con attività fantomatica - no, è una luce fissa - sul lontano Promontorio della Co­lonna. E nulla rompe la calma salvo il ritmico re­spiro delle onde e un grillo solitario che non ha ancora terminato la sua razione giornaliera di musica stru­mentale, lontano, in qualche fenditura calda delle col­line. Una fragranza soave si leva dalla macchia stretta degli uliveti e dai fichi carichi di frutti e dai vigneti in maturazione che costeggiano il sentiero lungo la spiaggia. «L'albero di fico produce i suoi fichi verdi, e le vigne coi grappoli teneri mandano un buon profu­mo.»
Così procedo attraverso la sabbia, nel buio, circon­dato dalle tepide esalazioni della terra e del mare.
Un nuovo spirito è sceso su di me, uno spirito di bi­blica calma. Qui, allora, sorgeva «la città gaudente, che viveva spensieratamente, che diceva nel proprio cuore: io sono, e non c'è altri accanto a me; com'è divenuta desolata!» E’ difficile in verità persuadersi che su que­sta superficie sorgeva una città popolosa. Eppure è così. Ogni passo è un ricordo. Lungo questo stesso per­corso camminavano le sfarzose dame di Crotone, di­rette a deporre i loro vani gioielli dinanzi alla dea Hera, a un cenno di Pitagora. In questo punto, forse, sorgeva quell'aula pubblica edificata appositamente perché egli potesse pronunciare le sue lezioni.
Indubbiamente, la gente del luogo era stata affon­data nell'apatia del lusso: i tempi erano maturi per il Messia.
Ed ecco! Egli apparve.