Norman
Douglas, Vecchia Calabria (Old Calabria, Secker, London, prima ed. 1915), dal Cap. XXXVII, ‘Cotrone’, pagg. 460-465
dell’edizione Giunti-Martello, 1967, 1983, traduzione di Grazia Lanzillo e
Lidia Lax.
‘Old
Calabria’ è un libro di assoluto valore, soprattutto – come è ovvio – tra
quelli che trattano i viaggi nelle selvagge contrade del Sud d’Italia, in quei
territori, cioè, avvertiti nel resto d’Europa come una propaggine del
continente africano, senza stare troppo a sottilizzare e senza tanti fronzoli o
finte accortezze. La Calabria
rappresenta la punta più aguzza di questa pessima fama, essendo la sede
privilegiata (!) della razza maledetta che da essa nasce, la abita, se ne
allontana, a volte per scelta, il più delle volte per obbligo. Va dato atto
quindi e reso merito a quanti da viaggiatori, da ‘esploratori’, da appassionati
di geografie e popoli, o di antichità più remote – leggasi Magna Grecia – si
sono avventurati dalle ‘nostre parti’ fornendone resoconti sotto diverse forme,
dalle memorie di viaggio alle stampe che oggi chiamiamo ‘dell’epoca’… La prosa
di Norman Douglas è eccellente, lineare, e il suo pensiero è chiaro e
penetrante, e non manca di dimostrarlo in questo bel libro, degnamente
tradotto.
Le
pagine che seguono non sono le più profonde e nemmeno le più belle o
interessanti del libro, le propongo perché vi si parla anche del vino di Cirò… I
capitoli che preferisco sono quelli finali, dedicati a Petelia, cioè l’odierna Strongoli, e alla
‘Colonna’.
Leggendo ‘Vecchia Calabria’, il lettore potrà rendersi conto di
quanto poco giovevole, se non deleteria, sia quella frase ‘non facciamoci conoscere’, di fronte alla
perspicacia e all’occhio attento del viaggiatore, dello straniero che riesce a
penetrare aspetti del convivere sociale che la quotidianità, le abitudini, l’uso reiterato, fanno
entrare a far parte del modo di essere di una popolazione intera, con tutte le
conseguenze negative che possono derivarne… E’ sbagliatissimo: bisogna farsi
conoscere, bisogna uscire da quella nicchia angusta in cui per troppi secoli la
nostra terra è stata artatamente ridotta, bisogna confrontarsi, vincere,
perdere, darsele e tirare avanti, bisogna imparare… E questo cosa c’entra?
C’entra, c’entra… date retta a un fesso. E domandatevi come mai ci siano voluti
migliaia di anni, ad esempio, per riportare l’Università in questa terra che
aveva accolto Pitagora, Alcmeone, Filolao… a parte il fatto che all’università
non ci sono nemmeno andato (o meglio… l’ho abbandonata) e quindi molto meglio
di me potrebbero dirlo altri…
Aggiungo solo che mi pare di notare che molti mei corregionali vivono questa condizione dell'essere calabresi quasi come un conflitto, non tanto irrisolto, quanto non meritevole di risoluzione... Credo che non si sbaglino, ma che non abbiano ragione. Ce ne vuole per liberarsi di nostalgie, rammarico, assenze varie, sbagliando o no, questo non saprei dirlo... ce ne vuole per diventare apolidi, adespoti, anonimi, e capaci di vivere ovunque.
copertina e risvolto |
L'aria è più fresca quando mi sveglio
e, guardando fuori della finestra, mi rendo conto, dai morbidi effetti di luce, che il giorno sta calando. Verso
quest'ora del crepuscolo la cupola
ininterrotta del cielo subisce spesso una breve trasformazione. Allora si
possono vedere, concentrate in
altezza, masse di nuvole che si vanno accumulando sopra le alture della Sila e
raccolgono nuvole ausiliarie da tutte le parti; d'un subito i lampi giocano attorno ai vapori lividi e sporchi, più
oltre si ode alto il brontolio del
tuono, verso qualche scroscio dì
pioggia inzuppante. Ma sulla pianura il sole continua a brillare con una
benevolenza svuotata; nulla si avverte della
tempesta tranne nervosi aliti di vento
che sollevano mulinelli di polvere dalle strade di campagna e frustano il mare in una falsa frenesia di ondine arruffate. E’ appena l'interludio. Presto
le nubi nero-azzurre sono fuggite via dalle montagne che si stagliano,
chiare e rinfrescanti, nel crepuscolo. Il vento
si è smorzato, la tempesta è finita e Cotrone è, come al solito, assetata
di pioggia che non viene mai. Tuttavia qui
c'è il ritratto di una Madonna, una famosa Madonna «nera», dipinta da San
Luca, che «sempre procura pioggia quando la si prega».
Una volta, veramente, la coda di un
temporale deve essere passata sopra le nostre teste, perché sono cadute poche
e malinconiche gocce di pioggia. Mi affrettai a
correr fuori, insieme con diversi altri cittadini, per osservare il fenomeno. Non vi erano dubbi al
riguardo; era pioggia vera, le gocce
si posavano a rispettabili intervalli
sulla bianca polvere della svolta che porta alla stazione. Un ragazzo, che passava di lì con una carretta,
osservò che se fosse stato possibile raccogliere quella pioggia in un piattino
o in qualche altro piccolo recipiente,
sarebbe stata appena sufficiente a calmare la sete di un cucciolo di cane.
Di solito faccio un
ultimo tuffo in mare, a quest'ora della sera. Dopo, è consigliabile incamerarsi
uno o due
gelati - sono eccellenti a Cotrone - e un bicchierino di Strega, per eliminare
gli effetti dell'eccesso di lavoro. Poi, una breve passeggiata attraverso le
strade pulite,
ben illuminate e ora affollate, o lungo il viale Margherita, per vedere i militari e gli elegantoni prender aria vicino alle onde mormoranti, sotto i
bastioni, simili a scogliere, del
castello di Carlo V, e infine di lì si
va a cena.
Questo pasto segna la
fine dei miei compiti quotidiani; non è permesso a nulla di serio di attirare la mia attenzione, quando
il pasto è finito; chiedo una sedia e mi accomodo a uno di quei tavolini dal ripiano di marmo,
all'aperto sulla via, e osservo la folla che fluttua attorno a me, mentre mi fumo un
sigaro napoletano
e trangugio alternativamente gelati e caffè finché, verso la mezzanotte, viene stappata
una conclusiva
bottiglia di vino di Cirò - sigillo adatto alle fatiche diurne.
Si potrebbe dir molto in lode del vino calabrese.
Il suolo è pieno di
piacevoli sorprese per l'enofilo, e un giorno o l'altro spero di dar corpo alle
mie esperienze pubblicando
una mappa dei vini della provincia con un
testo descrittivo a lato. Coloro che la compreranno - se pur saranno pochi - saranno certamente del tipo giusto.
Il buon dottor Barth
- e gliene sia resa lode! - ha già fatto qualcosa del genere per alcune parti d’Italia ma non cita neanche
di sfuggita la Calabria. E
tuttavia
qui quasi ogni villaggio ha il proprio tipo di vino e ogni famiglia che si
rispetti ha il proprio metodo particolare di preparazione, per quanto poco noti siano questi vini fuori del luogo di
produzione, a causa delle leggi daziarie che
soffocano il commercio interno ed
eliminano ogni incentivo a fabbricare un buon articolo per
l'esportazione. Questo vino dì Cirò, ad
esempio, è il nettare più puro, e così è quello che si coltiva anche più vicino, nella classica valletta
del Neto e che, molto tempo fa, fu decantato dal vecchio Plinio; e così
sono almeno altre due dozzine. Perché, giustamente
dice Gregorovius, come anche la più piccola comunità italiana possiede
il proprio antiquario debitamente
aggiornato, se si riesce a pescarlo, così, mi si permetta di aggiungere,
ogni piccolo luogo in questi dintorni può
vantarsi di avere almeno un individuo che
vi fornirà del buon vino, se... se voi vi mettete coscienziosamente al lavoro per scovarlo.
Ora, per quanto in
gioventù il Bacco calabrese abbia una selvaggia beauté du diable che stuzzica
l'espansività
della gente, già comincia a barcollare a sette anni in una vecchiaia acida, decrepita. Balzargli addosso
nel momento psicologicamente più adatto, scoprire
in quali cantine fresche e ricoperte di ragnatele egli stia sognando l'estate
dorata della sua virilità - questa è
cosa che un forestiero non potrà mai, mai sperar di ottenere senza un competente aiuto locale.
A questo scopo, di solito, mi rivolgo ai
preti. Non perché essi siano i più poderosi
ubriaconi (lungi da quest'idea; sono
bonariamente epicurei, o persino astemi),
ma a causa della loro insuperabile conoscenza delle persone. Sanno esattamente chi ha potuto conservare il suo vino dell'anno tale e tal altro, e
chi è stato costretto a venderlo o
adulterarlo parzialmente; sanno,
dalle confessioni che ricevono dalle mogli, il perché e il per come di tutti questi affari di famiglia e
condividono, con il farmacista, la capacità di vedere nel più profondo dell'intricata rete della vita familiare. Sono «gialosi», tuttavia, di queste
loro conoscenze e bisogna avvicinarli nello spirito giusto: uno spirito di umiltà. Ma se li portate con tatto
sull'argomento, accennando alle
innumerevoli difficoltà del viaggiare in terre straniere, alla vita
scomoda nelle locande, al cibo che lascia
tanto a desiderare e, sopra tutto, al rozzo vino che sta già, temete
grandemente, rovinando la vostra
sensibile milza (un organo importante
in Calabria), invocando una tendenza ipocondriaca che porta a vedere tutte le bellezze di questa splendida
terra in una luce odiosa e cupa - trasformando
i vostri giorni in notti, cioè - deve trattarsi di uno strano prete davvero, se
non è compassionevolmente spinto a
impartire l'informazione desiderata circa l'ubicazione del miglior vino di
famiglia ottenibile in quel
momento. In fin dei conti, non gli costa nulla fare un doppio favore: uno a voi e uno al proprietario del vino,
indubbiamente suo vecchio amico, che potrà vendere
il suo prodotto a uno straniero con il venti per cento in più del prezzo praticato a uno del posto.
E, in mancanza dei
preti, vado da uno dei tipi più anziani di quella tribù di conoscitori dal
naso rosso, i cocchieri, anime sempre assetate e mercenarie, e questi, per una piccola attenzione, è
capace di svelare non solo il suo segreto ma
anche altri, assai più misteriosi.
Quanto al padrone
della vostra locanda, egli non solleva la minima obiezione al fatto che voi portiate vino d'altri in casa
sua. Il suo stesso vino, vi dice, è del raccolto dell'anno precedente e piuttosto
aspro (leggermente annacquato, potrebbe aggiungere) - e perche no? I clienti ordinari
sono commercianti che non badano minimamente a ciò che mangiano e bevono, pur che ve ne sia a
sufficienza. Non fa alcuna orribile allusione in merito allo sturamento: al
contrario, egli assaggia il vostro vino, fa schioccare le labbra e vi ringrazia per avergli fatto fare una pregevole scoperta. Pensa che ne
acquisterà egli stesso qualche bottiglia per sé e per qualche intimo amico . . .
******
La mezzanotte è venuta
e andata. La strada si va vuotando. I passi dei pedoni cominciano a
riecheggiare sordamente. Mi alzo per la mia solita passeggiata in direzione del cimitero, per
intonarmi al riposo, scotendo di dosso le banali e instancabili immagini
dell'umanità che potrebbero, altrimenti, perseguitare i miei sogni. Le visioni cittadine
sono presto lasciate alle spalle; qui c'è molta tranquillità, sotto il cielo caldo, illuminato dalle stelle; nulla
parla di
uomini,
salvo il
faro
che ammicca a intermittenze con attività fantomatica - no, è una luce fissa - sul lontano
Promontorio della Colonna. E nulla rompe la calma salvo il ritmico respiro delle onde e
un grillo solitario che non ha ancora terminato la sua razione giornaliera di
musica strumentale, lontano, in qualche fenditura calda delle colline. Una fragranza
soave si leva dalla macchia stretta degli uliveti e dai fichi carichi di frutti e dai vigneti in maturazione che
costeggiano il sentiero lungo la spiaggia. «L'albero di fico produce i suoi fichi verdi, e le vigne coi
grappoli teneri mandano un buon profumo.»
Così procedo
attraverso la sabbia, nel buio, circondato dalle tepide esalazioni della terra e
del mare.
Un nuovo spirito è sceso su di me, uno
spirito di biblica calma. Qui, allora,
sorgeva «la città gaudente, che viveva spensieratamente, che diceva nel proprio
cuore: io sono, e non c'è altri
accanto a me; com'è divenuta desolata!»
E’ difficile in verità persuadersi che su questa superficie sorgeva una città popolosa. Eppure è così. Ogni passo è un ricordo. Lungo questo stesso
percorso camminavano le sfarzose dame
di Crotone, dirette a deporre i loro
vani gioielli dinanzi alla dea Hera,
a un cenno di Pitagora. In questo punto, forse, sorgeva quell'aula pubblica edificata appositamente perché egli potesse pronunciare le sue lezioni.
Indubbiamente, la gente del luogo era
stata affondata nell'apatia del lusso: i tempi erano maturi per il Messia.
Ed ecco! Egli apparve.
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