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sabato 15 marzo 2014

§ 065 150314 Norman Douglas, Old Calabria, il Cirò e Cotrone.



Norman Douglas, Vecchia Calabria (Old Calabria, Secker, London, prima ed. 1915),  dal Cap. XXXVII, ‘Cotrone’, pagg. 460-465 dell’edizione Giunti-Martello, 1967, 1983, traduzione di Grazia Lanzillo e Lidia Lax.
‘Old Calabria’ è un libro di assoluto valore, soprattutto – come è ovvio – tra quelli che trattano i viaggi nelle selvagge contrade del Sud d’Italia, in quei territori, cioè, avvertiti nel resto d’Europa come una propaggine del continente africano, senza stare troppo a sottilizzare e senza tanti fronzoli o finte accortezze. La Calabria rappresenta la punta più aguzza di questa pessima fama, essendo la sede privilegiata (!) della razza maledetta che da essa nasce, la abita, se ne allontana, a volte per scelta, il più delle volte per obbligo. Va dato atto quindi e reso merito a quanti da viaggiatori, da ‘esploratori’, da appassionati di geografie e popoli, o di antichità più remote – leggasi Magna Grecia – si sono avventurati dalle ‘nostre parti’ fornendone resoconti sotto diverse forme, dalle memorie di viaggio alle stampe che oggi chiamiamo ‘dell’epoca’… La prosa di Norman Douglas è eccellente, lineare, e il suo pensiero è chiaro e penetrante, e non manca di dimostrarlo in questo bel libro, degnamente tradotto.
Le pagine che seguono non sono le più profonde e nemmeno le più belle o interessanti del libro, le propongo perché vi si parla anche del vino di Cirò… I capitoli che preferisco sono quelli finali, dedicati a  Petelia, cioè l’odierna Strongoli, e alla ‘Colonna’. 
Leggendo ‘Vecchia Calabria’, il lettore potrà rendersi conto di quanto poco giovevole, se non deleteria, sia quella frase ‘non facciamoci conoscere’, di fronte alla perspicacia e all’occhio attento del viaggiatore, dello straniero che riesce a penetrare aspetti del convivere sociale che la quotidianità, le abitudini, l’uso reiterato, fanno entrare a far parte del modo di essere di una popolazione intera, con tutte le conseguenze negative che possono derivarne… E’ sbagliatissimo: bisogna farsi conoscere, bisogna uscire da quella nicchia angusta in cui per troppi secoli la nostra terra è stata artatamente ridotta, bisogna confrontarsi, vincere, perdere, darsele e tirare avanti, bisogna imparare… E questo cosa c’entra? C’entra, c’entra… date retta a un fesso. E domandatevi come mai ci siano voluti migliaia di anni, ad esempio, per riportare l’Università in questa terra che aveva accolto Pitagora, Alcmeone, Filolao… a parte il fatto che all’università non ci sono nemmeno andato (o meglio… l’ho abbandonata) e quindi molto meglio di me potrebbero dirlo altri…
Aggiungo solo che mi pare di notare che molti mei corregionali vivono questa condizione dell'essere calabresi quasi come un conflitto, non tanto irrisolto, quanto non meritevole di risoluzione...  Credo che non si sbaglino, ma che non abbiano ragione. Ce ne vuole per liberarsi di nostalgie, rammarico, assenze varie, sbagliando o no, questo non saprei dirlo... ce ne vuole per diventare apolidi, adespoti, anonimi, e capaci di vivere ovunque. 
copertina e risvolto

L'aria è più fresca quando mi sveglio e, guardando fuori della finestra, mi rendo conto, dai morbidi effetti di luce, che il giorno sta calando. Verso quest'ora del crepuscolo la cupola ininterrotta del cielo subisce spes­so una breve trasformazione. Allora si possono vedere, concentrate in altezza, masse di nuvole che si vanno accumulando sopra le alture della Sila e raccolgono nuvole ausiliarie da tutte le parti; d'un subito i lampi giocano attorno ai vapori lividi e sporchi, più oltre si ode alto il brontolio del tuono, verso qualche scroscio dì pioggia inzuppante. Ma sulla pianura il sole continua a brillare con una benevolenza svuotata; nul­la si avverte della tempesta tranne nervosi aliti di vento che sollevano mulinelli di polvere dalle strade di campagna e frustano il mare in una falsa frenesia di ondine arruffate. E’ appena l'interludio. Presto le nubi nero-azzurre sono fuggite via dalle montagne che si stagliano, chiare e rinfrescanti, nel crepuscolo. Il ven­to si è smorzato, la tempesta è finita e Cotrone è, come al solito, assetata di pioggia che non viene mai. Tuttavia qui c'è il ritratto di una Madonna, una fa­mosa Madonna «nera», dipinta da San Luca, che «sempre procura pioggia quando la si prega».
Una volta, veramente, la coda di un temporale deve essere passata sopra le nostre teste, perché sono cadu­te poche e malinconiche gocce di pioggia. Mi affrettai a correr fuori, insieme con diversi altri cittadini, per osservare il fenomeno. Non vi erano dubbi al riguardo; era pioggia vera, le gocce si posavano a rispettabili in­tervalli sulla bianca polvere della svolta che porta al­la stazione. Un ragazzo, che passava di lì con una carretta, osservò che se fosse stato possibile raccogliere quella pioggia in un piattino o in qualche altro piccolo recipiente, sarebbe stata appena sufficiente a calmare la sete di un cucciolo di cane.
Di solito faccio un ultimo tuffo in mare, a quest'ora della sera. Dopo, è consigliabile incamerarsi uno o due gelati - sono eccellenti a Cotrone - e un bicchie­rino di Strega, per eliminare gli effetti dell'eccesso di lavoro. Poi, una breve passeggiata attraverso le strade pulite, ben illuminate e ora affollate, o lungo il viale Margherita, per vedere i militari e gli elegantoni pren­der aria vicino alle onde mormoranti, sotto i bastioni, simili a scogliere, del castello di Carlo V, e infine di lì si va a cena.
Questo pasto segna la fine dei miei compiti quoti­diani; non è permesso a nulla di serio di attirare la mia attenzione, quando il pasto è finito; chiedo una sedia e mi accomodo a uno di quei tavolini dal ripia­no di marmo, all'aperto sulla via, e osservo la folla che fluttua attorno a me, mentre mi fumo un sigaro na­poletano e trangugio alternativamente gelati e caffè finché, verso la mezzanotte, viene stappata una con­clusiva bottiglia di vino di Cirò - sigillo adatto alle fa­tiche diurne.
Si potrebbe dir molto in lode del vino calabrese.
Il suolo è pieno di piacevoli sorprese per l'enofilo, e un giorno o l'altro spero di dar corpo alle mie espe­rienze pubblicando una mappa dei vini della provincia con un testo descrittivo a lato. Coloro che la compre­ranno - se pur saranno pochi - saranno certamente del tipo giusto.
Il buon dottor Barth - e gliene sia resa lode! - ha già fatto qualcosa del genere per alcune parti d’Italia ma non cita neanche di sfuggita la Calabria. E tuttavia qui quasi ogni villaggio ha il proprio tipo di vino e ogni famiglia che si rispetti ha il proprio metodo particolare di preparazione, per quanto poco noti sia­no questi vini fuori del luogo di produzione, a causa delle leggi daziarie che soffocano il commercio in­terno ed eliminano ogni incentivo a fabbricare un buon articolo per l'esportazione. Questo vino dì Cirò, ad esempio, è il nettare più puro, e così è quello che si coltiva anche più vicino, nella classica valletta del Neto e che, molto tempo fa, fu decantato dal vecchio Plinio; e così sono almeno altre due dozzine. Perché, giusta­mente dice Gregorovius, come anche la più piccola comunità italiana possiede il proprio antiquario debi­tamente aggiornato, se si riesce a pescarlo, così, mi si permetta di aggiungere, ogni piccolo luogo in questi dintorni può vantarsi di avere almeno un individuo che vi fornirà del buon vino, se... se voi vi mette­te coscienziosamente al lavoro per scovarlo.
Ora, per quanto in gioventù il Bacco calabrese ab­bia una selvaggia beauté du diable che stuzzica l'espan­sività della gente, già comincia a barcollare a sette anni in una vecchiaia acida, decrepita. Balzargli ad­dosso nel momento psicologicamente più adatto, sco­prire in quali cantine fresche e ricoperte di ragnatele egli stia sognando l'estate dorata della sua virilità - questa è cosa che un forestiero non potrà mai, mai sperar di ottenere senza un competente aiuto locale.
A questo scopo, di solito, mi rivolgo ai preti. Non perché essi siano i più poderosi ubriaconi (lungi da quest'idea; sono bonariamente epicurei, o persino aste­mi), ma a causa della loro insuperabile conoscenza delle persone. Sanno esattamente chi ha potuto con­servare il suo vino dell'anno tale e tal altro, e chi è stato costretto a venderlo o adulterarlo parzialmente; sanno, dalle confessioni che ricevono dalle mogli, il perché e il per come di tutti questi affari di famiglia e condividono, con il farmacista, la capacità di vedere nel più profondo dell'intricata rete della vita familiare. Sono «gialosi», tuttavia, di queste loro cono­scenze e bisogna avvicinarli nello spirito giusto: uno spirito di umiltà. Ma se li portate con tatto sull'argomento, accennando alle innumerevoli difficoltà del viaggiare in terre straniere, alla vita scomoda nelle lo­cande, al cibo che lascia tanto a desiderare e, sopra tutto, al rozzo vino che sta già, temete grandemente, rovinando la vostra sensibile milza (un organo im­portante in Calabria), invocando una tendenza ipo­condriaca che porta a vedere tutte le bellezze di questa splendida terra in una luce odiosa e cupa - trasforman­do i vostri giorni in notti, cioè - deve trattarsi di uno strano prete davvero, se non è compassionevolmente spinto a impartire l'informazione desiderata circa l'u­bicazione del miglior vino di famiglia ottenibile in quel momento. In fin dei conti, non gli costa nulla fare un doppio favore: uno a voi e uno al proprietario del vino, indubbiamente suo vecchio amico, che potrà vendere il suo prodotto a uno straniero con il venti per cento in più del prezzo praticato a uno del posto.
E, in mancanza dei preti, vado da uno dei tipi più anziani di quella tribù di conoscitori dal naso rosso, i cocchieri, anime sempre assetate e mercenarie, e questi, per una piccola attenzione, è capace di svelare non solo il suo segreto ma anche altri, assai più mi­steriosi.
Quanto al padrone della vostra locanda, egli non solleva la minima obiezione al fatto che voi portiate vino d'altri in casa sua. Il suo stesso vino, vi dice, è del raccolto dell'anno precedente e piuttosto aspro (leggermente annacquato, potrebbe aggiungere) - e per­che no? I clienti ordinari sono commercianti che non badano minimamente a ciò che mangiano e bevono, pur che ve ne sia a sufficienza. Non fa alcuna orribile allusione in merito allo sturamento: al contrario, egli assaggia il vostro vino, fa schioccare le labbra e vi ringrazia per avergli fatto fare una pregevole scoperta. Pensa che ne acquisterà egli stesso qualche bottiglia per sé e per qualche intimo amico . . .
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La mezzanotte è venuta e andata. La strada si va vuotando. I passi dei pedoni cominciano a riecheggiare sordamente. Mi alzo per la mia solita passeggiata in di­rezione del cimitero, per intonarmi al riposo, scotendo di dosso le banali e instancabili immagini dell'umanità che potrebbero, altrimenti, perseguitare i miei sogni. Le visioni cittadine sono presto lasciate alle spalle; qui c'è molta tranquillità, sotto il cielo caldo, illuminato dalle stelle; nulla parla di uomini, salvo il faro che ammicca a intermittenze con attività fantomatica - no, è una luce fissa - sul lontano Promontorio della Co­lonna. E nulla rompe la calma salvo il ritmico re­spiro delle onde e un grillo solitario che non ha ancora terminato la sua razione giornaliera di musica stru­mentale, lontano, in qualche fenditura calda delle col­line. Una fragranza soave si leva dalla macchia stretta degli uliveti e dai fichi carichi di frutti e dai vigneti in maturazione che costeggiano il sentiero lungo la spiaggia. «L'albero di fico produce i suoi fichi verdi, e le vigne coi grappoli teneri mandano un buon profu­mo.»
Così procedo attraverso la sabbia, nel buio, circon­dato dalle tepide esalazioni della terra e del mare.
Un nuovo spirito è sceso su di me, uno spirito di bi­blica calma. Qui, allora, sorgeva «la città gaudente, che viveva spensieratamente, che diceva nel proprio cuore: io sono, e non c'è altri accanto a me; com'è divenuta desolata!» E’ difficile in verità persuadersi che su que­sta superficie sorgeva una città popolosa. Eppure è così. Ogni passo è un ricordo. Lungo questo stesso per­corso camminavano le sfarzose dame di Crotone, di­rette a deporre i loro vani gioielli dinanzi alla dea Hera, a un cenno di Pitagora. In questo punto, forse, sorgeva quell'aula pubblica edificata appositamente perché egli potesse pronunciare le sue lezioni.
Indubbiamente, la gente del luogo era stata affon­data nell'apatia del lusso: i tempi erano maturi per il Messia.
Ed ecco! Egli apparve.

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