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domenica 9 marzo 2014

§ 063 090314 Luigi Siciliani, Giovanni Fràncica, note erranti.



   In questo post torno a considerare l’opera, ingiustamente trascurata dalla critica, di Luigi Siciliani (Cirò 1881-1925)… ingiustamente trascurata  non rende bene l’idea, forse, dell’ottuso ostracismo di cui l’opera e la personalità del poeta cirotano sono state fatte oggetto; a tale ingiustizia o sommarietà di giudizio sopperisce, per quanto è possibile, la riedizione, da parte dell’editrice ‘La Città del Sole’, dell’unico romanzo pubblicato dal Siciliani, ovvero quel ‘Giovanni Fràncica’, apparso, in prima edizione, a Milano nel 1910, per i tipi del ‘Dottor Riccardo Quintieri’, e subito ben accolto dalla critica. L’importanza del Siciliani negli ambienti politici ed intellettuali italiani di primo novecento è fuori discussione: si vedano, ad esempio, le corrispondenze con Giovanni Pascoli e tantissimi altri poeti, critici, letterati dell’epoca; qui mi preme sottolineare l’assoluta autorevolezza di questo autore, ormai sconosciuto ai più, per quel che riguarda la traduzione sia di classici greci e latini, sia di autori moderni, e da lingue che spaziavano dall’inglese, al francese, al portoghese…
    ‘Le lettere d’amore di una monaca portoghese’, anche queste, apparse a Parigi nel 1669, furono tradotte dal francese (non esiste un originale portoghese) dal Siciliani, nel 1912, e non dovrebbe essere trascurata l’importanza, in certa letteratura epistolare, di queste animose lettere attribuite, a torto o a ragione, ad una Mariana Alcoforado, ma che probabilmente furono scritte da un nobile francese, il conte di Guilleragues. Per la cronaca, anche un mostro sacro della poesia europea, tale Rainer Maria Rilke, si cimentò nella traduzione di quelle cinque lettere…
   Tornando a Luigi Siciliani, ritengo, nel mio piccolo, che il tema dell’amore, oltre a quello della classicità intesa come sogno non avulso dalla realtà, sia fondante nella sua opera. Egli traduce, infatti, oltre alle cinque lettere, gli erotici latini e greci… e li traduce con maestria, non nascondendosi dietro ad escamotages o insistite ridondanze retoriche, quando si tratta di affondare la penna in versi o situazioni per così dire ‘pruriginose’.
   ‘Giovanni Fràncica’ è un romanzo più o meno meritevole di lettura, né più né meno di tanti altri, anzi, a mio modesto parere, in questo caso direi ‘di più’, almeno per il suo valore documentale, poiché parla, anche se non esclusivamente, di quello che fu sicuramente un lembo di Magna Grecia - quindi Crimisa, Crotona, la loro passata grandezza - e di quella incerta particula d’Italia rappresentata da Cona, con il suo secolare abbandono e il suo disperante presente: un divario insostenibile. La voce 'Crotona' usata dal Siciliani non è peregrina, nel senso che già altri autori (si veda nell'opera che ho altrove citato dell'abate Romanelli) volevano accomunare l'etimo di Crotona con quello di Cortona... diciamo che quello di Siciliani è un vezzo o un espediente narrativo: ne sapeva troppe per inciampare in piccoli dettagli del genere.
    Nel romanzo di questo parziale ‘alter ego’ del poeta, narratore in questo caso, si legge anche del disagio di quelle persone (come Fràncica) di un certo peso, non solo locale, che, facendo parte di famiglie che per censo e prestigio avrebbero dovuto guidare le plebi - ché in fondo di questo si trattava - del meridione verso un progresso civile che, oltre a non avere nulla da spartire con gli antichi splendori megalellenici, tarda a tutt’oggi a dar segni di sé… Il Siciliani ne era perfettamente consapevole, dell’arretratezza della sua fantomatica ‘Cona’, e ne parla con cognizione di causa, anche in quest’ultimo capitolo del suo unico romanzo.
   Noto con piacere, a margine, una ‘trovata’ narrativa che, con un po’ di pazienza, il malcapitato lettore di queste mie note erranti potrà facilmente cogliere: ovvero l’apparizione nel romanzo del Siciliani medesimo, attraverso quegli ‘esametri di un nostro corregionale’, che Filippo Moncadi offre al proprio interlocutore durante l'escursione a Capo Lacinio… un po’ come il regista che appare all’interno della pellicola che egli stesso ha diretto… non male, no? La scena, come si può vedere, è quella del ‘sogno pagano’ che si intitola ‘Capo Crimisa’, con un piccolo spostamento spaziale: i personaggi del romanzo si trovano a Capo Colonna anziché a Punta Alice, il resto della scena è immutato o quasi, se non per qualche particolare, e si chiude, purtroppo, con una delle immagini più ricorrenti, ma spero solo malinconica e non lamentosa o piagnona, che appare da tanta letteratura dei vinti: gli occhi pieni e le mani ‘vacanti’.  
   Tutto sommato, Giovanni Fràncica non ha lesinato il suo impegno civile, e, seppure in tanta desolazione, non è caduto, in qualche modo, nella trappola della rassegnazione, dell'abbandono, del disinteresse, dell'apatia… e di tutti quei difetti dai quali, chissà perché, bisogna dimostrare di non essere affetti 'per costituzione'.
Buona lettura,
Cià.


XXIV.
Il giorno seguente di buon mattino una piccola barca a vela salpava dal porto antico di Crotona, dal porto dove forse si erano ormeggiate le antiche triere degli Achei venuti a conquistare pri­mamente quel lembo d'Enotria e a fondarvi la città più vasta e più possente di tutto il litorale jonico, dal  promontorio di Crimisa all'Eraclèo. In essa, celebrata allora per la salubrità dell'aria e per  le  bellissime  donne  donde  Zeusi trasse l'immagine di Elena, erano fioriti Pitagora e la sua scuola, erano cresciuti gli atleti gloriosi per il maggior numero di vittorie riportate in Olimpia, era sorta una per quei tempi mirabile scienza di medici, dei  quali taluno, partendosi, era andato sino in Asia a curare Dario re dei persiani. Da quello stesso porto donde ora la  barca salpava era salpata la trireme armata da  Faillo,  la sola dai greci italioti  spedita  alla battaglia di  Salamina. E ivi poi, decadendo  la città  lentamente, s'erano ormeggiate vincitrici le flotte di Dionisio e di Agatocle siracusani e più tardi le navi fenicie, che rifornivano Annibale negli ultimi  anni della sua lotta contro Roma.  E su quella  spiaggia, e finanche rifugiati presso il delubro di Hera, non mai sino allora violato, il Cartaginese, prima di lasciare per sempre l'Italia aveva  fatto  saettare le  bande  inermi   dei   soldati Campani, Sanniti, Lucani, Bruzzi, che avevano rifiutato di seguirlo in Africa, per impedire che i romani potessero, lui partito, ascrivere quegli adusti veterani nelle proprie legioni.
Il sole s'era da poco levato sull'orizzonte ed irraggiava il mare che, calmissimo, increspava appena l'azzurro dei suoi flutti.
La barca, guidata da due marinai dal volto e dalle mani del colore dell'uliva strafatta, radette  prima la molle sabbia del lido meridionale sopra cui si leva nuda di vegetazione una catena di collinette argillose, con ciuffi qua e là di verdura, pascolo aereo di capre. Biancheggiando sulla costa occidentale s'allontanava Crotona, levata sull'arce antica dei greci e dominata dal labente castello, eretto dagli architetti di Carlo V imperatore e memore delle orgie delle orde sanfediste del cardinale diacono Ruffo. Dietro essa, come una ineguale fuga di giganti, le cime dei monti parevano tendere verso il riposo sull'altipiano della  Sila.
Il cielo era corso da qualche nube candida,  lucente come il latte su cui battono i raggi del sole.
— Non sono nubi di tempesta queste — disse  scoprendo i denti bianchissimi uno dei marinai a Giovanni Fràncica, che sedeva a poppa con ac­canto Filippo Moncadi e teneva volti in alto gli occhi come a dissetarli di azzurro.
    Filippo Moncadi era triste. Poco prima aveva detto a Giovanni: — Gli abitanti della nostra terra nulla vedono oltre il tornaconto immediato e strettamente personale. Non intendono come ogni uomo debba vivere in armonia con quelli che lo circondano e come tutte le forze debbano essere tese verso la formazione di una civiltà nuova espressa dal nostro suolo. Quasi tutti i signori di qui sono collettori di antichità; ma nessuno di là dalla materia cerca l'anima antica, non osano, non dico volere, ma neppure deside­rare uno stato migliore. L'apatia li preme come un giogo di ferro. Stimano vera nobiltà i pregiudizi spagnoleschi che hanno ereditato. La stessa bor­ghesia agricola e industriale, che potrebbe esser libera, si modella su loro; ne prende la vacua pompa,  scambiandola con  la forza e il vigore.
   Io ho lottato, ho voluto essere moderno, e mi sono inimicata la mia casta e non ho conservato i1 favore della moltitudine. Troppo in basso è questa, che io chiamo plebe, e non oserei chiamare popolo!
Egli infatti nel suo sindacato, spirato appena da pochi mesi, s'era fatto iniziatore di un movimento nuovo nella sua città. Il sogno dello splendore di Crotona lo tormentava e lo assillava, ed egli aveva pensato di risospingere i suoi concittadini sulla strada maestra della grandezza di un tempo. Se una città poteva in Calabria risorgere questa era Crotona. Favorita dalla sua posizione sul mare, propizia agli approdi, tutte le energie della Sila, della Magna Sila virgiliana, potevano confluire in lei. Bonificando poi le terre traversate dal Neto, padre di gran messi, tutto il malarico Marchesato si sarebbe potuto ridurre ad un giardino.
Egli riprese a dire: — Acqua verminosa bevevano e bevono con la ricchezza di tante fonti che zampillano là nelle montagne. E perchè io ho voluto, essi fra due mesi avranno l'acqua salubre. La città non sarà più infestata dai mondezzai: ho iniziato la costruzione delle cloache. E i morti anche dormiranno in pace nel cimitero che ho popolato di arbusti e di fiori.
Tutta l'anima di Giovanni Fràncica rideva di gioia. Ritrovava nelle parole del suo compagno quel senso della bellezza che più di ogni altri cosa gli pareva esulato dall'anima dei suoi conterranei, tanta era la miseria civile e morale cui erano stati per secoli e secoli soggetti.
— Che importa — disse — se la vostra casta (da noi esistono pur troppo vere e proprie caste e sono necessarie, tanta è la viltà della plebe! vi ha misconosciuto e ha impedito la vostra rielezione. Voi vi siete coronato da voi stesso, e nessuna corona si porta meglio di quella che si cinge al proprio capo da soli. E poi, bisogna bene che il seme si strugga e si annienti perché l'albero cresca. Forse anche io a Cona avrò 1a vostra sorte.
La barca si teneva ora al largo: evitava gli scogli malfidi che sembrano intorno intorno cu- stodire con la loro scabrosità il rialto dove si levava il tempio della misteriosa divinità sotterra­nea di Hera. La leggenda antica li dice popolati dalle Sirene e memori ancora della astuzia di Ulisse. I due compagni tacevano guardando l’onda coprire di una molle carezza gli irti macigni e scivolar poi giù rapida, senza forza, frangendosi in lembi balbettanti di spuma, per ricominciare eternamente il suo gioco fatto come quello dell'amore di amarezza e di grazia.
  Canta una canzone — disse il  marchese Moncadi al marinaio di prua.
Questi non si fece pregare e intonò con voce strascicata e nasale:
  Nu jornu jvi a nu scogghiu de mari
Stapia cunsiderannu li mei peni;
De dintru l'acqua mi ntisi chiamari,
Donna pariva ed era la Sirena.
Idda mi dissi : Tu chi chiangi a fari,
Mentre a su munnu nun avrai chiù bene?...[1]
  È troppo malinconica questa canzone, cantane un'altra — disse Giovanni.
L'uomo, sullo stesso tono, riprese:
Chiantai nu nucepersicu a la vigna
Chidd'annu chi de tia mi nnamurai !
« 0 persicu, ti chiantu cu disignu :
Si non vinciu l'amure morirai».
E 'n capu all'annu ci jvi a la vigna,
      Lu persicu jurutu lu trovai;
      Lu persicu mi disse : Va vattinni !
      Segui l'amure ca lu vincerai.[2]
Il canto si perdeva tra cielo e mare.
— Ammaina! — disse il compagno rivolto al cantore che aveva terminato la sua canzone. Entrambi si posero a sciogliere le scotte e a raccorre la vela; poi profittando di una piccola cala che si apriva tra gli scogli spinsero avanti col remi la barca, fino al lido coperto di grossi ciottoli politi e consunti. Approdarono. Il marinaio senza canto rimase alla custodia del legno, l'altro, il cantore, seguì i due pellegrini, che presero a salire una breve erta scoscesa. Quando furono al sommo apparvero ai loro occhi le rovine, distese inerti sulla terra arida. Avanzarono per il leggerissimo pendìo calpestando con i loro piedi piccoli frammenti di muratura e di suppellettili antiche, triti, resi ormai simili a ghiaia. Giovanni ne raccolse qualcuno: pezzi di calcinaccio levigati da un lato, v'apparivano ancora le tracce di un colore rosso vivo su cui s'era indurita la polvere degli anni, e frantumi di terrecotte dipinte.
Tranne un enorme blocco di muratura romana, di quella che veniva chiamata opera reticolata, inclinato e mirabilmente in bilico sulla base sgre­tolata e più in là, a cento metri, una colonna di ordine dorico, nulla restava delle costruzioni anti­che: altro non si vedeva che le incomposte vaste fondamenta del tempio e sovrapposto ad esse qualche masso squadrato di pietra granulosa, dura. Una secolare ingordigia si era nutrita di quelle magnifiche rovine, parendo volesse farne perire perfino il ricordo: un vescovo contemporaneo di Giulio II e di Leone X ne aveva tratto le pietre per il suo palagio, gli architetti di Carlo V il materiale per il Castello, i riattatori del porto antico e i costruttori dell'inutile porto moderno i macigni da opporre all'impeto dell'onda, i pochi privati che hanno eretto alcuni simulacri di ville, a poca distanza da esse, le pietre delle case e dei chiusi.
E la maledizione della dea pareva pesare sul luogo: tranne qua e là qualche piccola macchia di mirti, di lentischi, di eriche frutescenti nulla più vi cresceva. Non v'era segno che là presso si fosse alzato, secondo il costume dei greci in sacro recinto, il bosco della dea.
— A che cosa è ridotta tutta la bellezza di un tempo! — esclamò il marchese Moncadi. — A primavera, quando il terreno si copre qui intorno di timo, più d'una volta le vacche che lo pascono vengono a cercar l'ombra breve di queste rovine per sfuggire all'assillo.
    Il pensiero di Giovanni Fràncica corse al Foro Romano. Egli disse: — Anche a Roma è accaduto lo stesso; il suo Foro si è per secoli chiamato il Campo Vaccino. Quando gli italiani, dopo quindici secoli, si sono ricordati della loro vecchia anima pagana, allora il piccone è sceso sopr'esso e ha scavato e ricercato le vestigie sacre: le interroga oggi e le custodisce Giacomo Boni.
— E verrà mai tempo che il piccone scenda anche, non più sacrilego o furtivo, come sinora, ma guidato da mano sapiente sopra queste rovine? — chiese con amarezza il Moncadi.         
Erano giunti presso la colonna, che si leva su alcuni massi rettangolari corrosi, posti su tre sca- glioni, anche essa profondamente corrosa nelle sedici scannellature del suo scapo, con l'ovolo e l'abaco al sommo spezzati dalla salsedine, dalla canicola e dalla tramontana: s'ergeva scabra verso il cielo quasi affinandosi nella chiarità e digradando rapida al sommo, unica e decrepita testimone della grandezza e della forza antica. Negli anfratti del precipizio dirupato che s'apre a picco sott'essa, l'instancabile ondeggiare dei flutti pareva per l'amplissima distesa del mare venire dall'Ellade opposta a darle con un singhiozzo l’estremo saluto.
Filippo Moncadi riprese: — Lo spirito che crea la bellezza è forse quello stesso che la distrugge. Nello stesso luogo dove si ergeva il tempio di Hera Lacinia, il più bello dei santuari della costa ionica, noi non sappiamo più costruire una casa| dalle linee armoniose. Con la coscienza civile si sono perdute la ricchezza e 1' arte. Non è molto ho letto alcuni esametri di un nostro conterraneo che esprimono come non potrei meglio il mio sentimento. Forse li conoscete, ma mi è caro ripe­terli davanti a queste rovine:
Noi che chiamati fummo greci, ma greci più grandi,
noi, ora siamo negletti in solitario abbandono.
Densa la tenebra grava dove splendette la luce
ch'arde pel mondo, che accende dovunque fiaccole nuove;
ma scorre lungi più sempre dal suo focolare nativo.
Ricca d'armenti è la terra, ferace di grani, di viti
e di cinerei ulivi fuggenti dai monti sul piano.
Fischiano al vento le forre donde zampillan le fonti.
Agita il faggio, il pino, l'abete, il castagno le fronde:
s'alzano i tronchi grandi di centenaria potenza.
Forti son gli uomini, saldi, acuti di mente, tenaci;
ma per il piano li sbianca la trista malarica febbre,
per le montagne li preme la necessità della vita
ed i loro occhi non sanno la grande bellezza passata.
Il marinaio, che ascoltava qualche passo indie­tro, s'arrischiò a dire: — Don Filippo, questa che dite deve essere di certo una canzone; ma io non riesco a capirla; e ne so tante!
Filippo Moncadi sorrise e non rispose. Trista­mente, con gli occhi chini, a fianco di Giovanni Fràncica egli prese la via del ritorno.
FINE
Non cerchi il troppo diligente lettore sulle carte geo­grafiche il nome di Cona; non lo troverebbe. Il modo con cui in essa si vive è un poco quello di tutti i piccoli paesi della Calabria, disseminati sulle estreme pendici della Sila.


[1]Andato un giorno a uno scoglio sul mare
Io stavo considerando le mie pene ;
Da entro l'acqua m'intesi chiamare,
Donna sembrava ed era la Sirena.
Ella mi disse : Tu che piangi a fare,
Quando nel mondo non avrai più bene?...
[2] Piantato ho un nocepèsco nella vigna
Quell'anno che di te mi innamorai !
« Nocepèsco, ti pianto con disegno ;
Se non vinco l'amore morirai ».
E in capo all'anno tornato alla vigna
Fiorito il nocepèsco ritrovai;
Il nocepèsco mi disse : Va via !
Segui l'amore che lo vincerai.

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