sommario dei post

venerdì 21 marzo 2014

§ 068 210314 MEZZOGIORNO A PETELIA. Norman Douglas, Vecchia Calabria, cap. XXXIX.



                            MEZZOGIORNO A PETELIA.
             Norman Douglas, Vecchia Calabria, cap. XXXIX.
Quello che segue è il penultimo capitolo delle peregrinazioni di Norman Douglas in Calabria, anche se, a dispetto del titolo, il viaggiatore britannico inizia il suo viaggio da Lucera, e solo dal XIV° dei quaranta capitoli che compongono il libro comincia a descrivere luoghi e realtà calabresi… un po’ come il giro d’Italia, quando parte da Parigi o dall’Olanda…
  Mi pare che Douglas colga benissimo alcune note caratteriali… a cominciare dalla ‘amica del Museo di Catanzaro’ che confonde Strongoli, l’odierna Petelia, con Stromboli – qui si sente il sarcasmo tutto britannico verso una persona che dovrebbe essere ‘introdotta' nella materia storica - e giù fino al pastore che vorrebbe approfittare (‘vurpignu’ si direbbe, ma non troppo) della presenza di quello che ritiene essere un americano per cercare di ‘imbarcarsi’, per il tramite di quest’ultimo’, in una improbabile avventura transoceanica.
   Nel paragrafo iniziale si legge la staticità che connota certe situazioni… l’attesa, il rinvio, la rinuncia, quasi fatale, a compiere anche una escursione da Cotrone a Capo Lacinio. In ‘Vecchia Calabria’, Douglas indica con ‘Cotrone’ la città attuale e con ‘Crotone’ quella magnogreca… in effetti il cambio di denominazione è avvenuto nel 1929, e qui siamo, all’epoca della pubblicazione, nel 1915: tutto normale, quindi.
   Non mancano i riferimenti alla mitica, strenua, fedeltà di Petelia a Roma, in opposizione ad Annibale, e altresì il richiamo a Teocrito che dei pastori di queste terre cantò nei suoi versi. Su un altro versante, anche il resoconto sull’operato della ‘guardia di finanza’ è molto chiaro… in definitiva, credo che Norman Douglas conoscesse molto bene la materia calabra, molto più di quanto si sia propensi a credere. O ad essere creduti…
   Un giorno dietro l'altro, continuo a contemplare quel­le sei miglia di mare che mi separano dal promonto­rio di Lacinia e dalla sua colonna. Come raggiungerlo? I barcaioli hanno voglia di compiere questo tragitto: tutto dipende però, mi dicono, dal vento.
Un giorno dietro l'altro - una calma mortale.
«Due ore... tre ore... quattro ore... secondo!» e indicano il cielo. Un po' di brezza, aggiungono, si alza qualche volta, di mattina presto; una vela si può issare.
«E per tornare a mezzogiorno?»
«Tre ore . . . quattro ore ... cinque ore ... secondo! »
La prospettiva di dondolare in una barchetta per mezza giornata, sotto un cielo ardente, non è proprio il mio ideale di passatempo, tanto più che quest'espe­rienza il sapore di novità l'ha ormai perso da molti anni. Decido di aspettare; di dedicarmi nel frattempo all'antica Petelia - la «Stromboli» della mia amica del Museo di Catanzaro ...
Da Cotrone a Strongoli, che si ritiene sorga sulle fondazioni della antica, tanto assediata città, è una facile gita di un giorno. Strongoli sorge in cima a un colle e la diligenza, che aspetta il viaggiatore alla pic­cola stazione ferroviaria, impiega due ore a raggiun­gerla, arrampicandosi per la salita in mezzo agli ulivi, con ampie curve e svolte.
Anche a così breve distanza di tempo, i miei ricordi di Strongoli sono confusi e vaghi. Il percorso nelle luci splendenti del mattino, il grande caldo dei giorni precedenti, e due o tre notti insonni a Cotrone, ave­vano molto diminuito il mio desiderio di novità. Ricordo di aver visto nella chiesa alcuni marmi romani e d'essere stato poi guidato ad un castello.
Più tardi riposai, in alto, sotto un ulivo, osservando in basso la valle del Neto, che poco lontano da qui si getta nell'Ionio. Pensavo a Teocrito, cercando di raf­figurarmi questa valle come doveva apparire agli occhi suoi e dei suoi pastori: le selve sono scomparse, e le piogge invernali, rovinando lungo i declivi di terriccio, hanno rimodellato il volto di tutto il paese.
Eppure, sia la natura come può, gli uomini torne­ranno sempre verso colui che così melodiosamente canta delle verità eterne, dei doveri e delle necessità umane, che nessun mutare di secoli può in realtà mu­tare. Come sembra poeta moderno a noi, che siamo stati messi in contatto con la sua verità spirituale da un Johnson-Cory e da un Lefroy! E quanto incredi­bilmente remoto è invece quell'ellenismo alla Bartolozzi che li precedette. Che dire, ad esempio, di quel famoso pseudo-Teocrito, Salomone Gessner, che pure nella sua Daphnis cantò questa stessa valle del Neto? Ahimè, il buon Salomone ha percorso la strada della noia; è morto, più morto del re Psammetico; e ora va facendo il moralista in qualche dignitoso paradiso, tra greggi di pecore in porcellana di Dresda e giovanetti e fanciulle sciropposi. Chi riesce più a leggere il suo tanto tradotto capolavoro, senza provare dolorose trafitture? È morto come un chiodo !
Per quel che ricordo, nella Daphnis ci sono un'in­finità di baci. Era un'epoca sentimentale e l'idillio pa­storale greco, trasferito in un ambiente svizzero del 1810, non poteva finire che in piagnisteo e smanceria. La verità è che i pastori hanno numerose occasioni di giocare con Amaryllis nell'ombra dei boschetti; occa­sioni che certo, a mia conoscenza, non trascurano. Teocrito lo sapeva benissimo, ma in generale è avaro con la preziosa merce dei baci; sembra aver concluso che in letteratura, se non nella realtà, si può essere sazi anche di una cosa piacevole. Senza contare che, essendo un meridionale, non poteva aver fiducia che i suoi giovani eroi restassero in eterno allo stadio dei ba­ci, secondo i modelli offerti dai nostri innamorati bri­tannici, tanto simili ai pesci. Una simile condotta dove­va apparirgli impossibile; e forse anche immorale...
Dal punto in cui sedevo si può scorgere la strada che sale addentrandosi verso la Sila, oltre Pallagorio. Lun­go i bordi si allineano strani monticelli rotondi, da cui esce del fumo: sono le miniere di quello zolfo scuro che avevo visto trasportare sui carri, per le vie di Cotrone. Mi hanno spiegato che vi sono otto o dicci miniere, sco­perte circa trent'anni fa - grosso errore, perché già se ne fa cenno in testi del 1571 - dove lavorano parec­chie centinaia di minatori. Avevo avuto intenzione di visitarle, ma ora, nel caldo meridiano, esitavo; la di­stanza che mi separava anche dalla più vicina, mi sembrava assurdamente grande e proprio quando avevo deciso di cercare una carrozza per farmici por­tare (che maledizione la coscienziosità!) un gentilissimo abitante della città mi invitò a pranzo. Supe­rando le mie deboli resistenze, mi condusse in uno stanzone a volta e là, tra il pasto di specialità campa­gnole e la conversazione di sua moglie, tutti i miei progetti svanirono. Invece che le statistiche sullo zolfo, appresi uno stralcio di storia locale.
«Lei si meraviglia di come siano vuote le strade di Strongoli » raccontò il mio ospite, «eppure, sino a poco tempo fa, qui non si verificava movimento di emigra­zione. Poi tutto è cambiato, e le spiego io come e perché. C'era qui una guardia di finanza, un tipo qualsiasi, che stava al dazio. Per elevare il nome della sua fami­glia prese in moglie un'ereditiera; intendiamoci, non per avere figli, ma... insomma ! E si mise a comprare terra tutt'intorno. Piano, con metodo e con prudenza, finché, a forza di minacce e di intrighi è diventato padrone di quasi tutto il paese. Metro per metro, se lo è preso tutto, con i soldi della moglie. Secondo lui, quello è il modo di perpetuare il proprio nome. Tutti i piccoli proprietari, privati delle loro terre, se ne sono andati in America per non morire di fame e adesso enormi tratti di terra ben coltivata sono quasi abban­donati. Guardi in che condizioni è la campagna! Ma un giorno o l'altro riceverà anche lui il suo compenso. Sotto le costole, sa!»
Con quella meditata restaurazione di un feudalesi­mo all'antica, quel tizio era riuscito a diventare l'uo­mo più odiato della regione.
Ma venne ben presto il momento di lasciare i miei cordiali ospiti per andare a visitare, nel sole cocente, le altre antichità di Petelia. Non mi sono mai sentito così poco attirato dal fascino dell'antiquariato e del­l'archeologia. Sarebbero state tanto più piacevoli quel­le ore in qualche fresca osteria! Tuttavia ripresi il cam­mino, per scoprire con gioia che non vi era quasi più nessun «pezzo» antico, tranne delle mura presso un convento in rovina, in blocchi di pietra e mattoni del­l'epoca romana. Il Comune condusse degli scavi in questo punto fino a pochi anni fa, recuperando qual­che pezzo che andò subito disperso. Forse qualcuno di essi è fra quelli del museo di Catanzaro. Avuta notizia degli scavi, il provvido e paternalistico Stato si impa­dronì del luogo e vi si adagiò sopra; i ruderi già scavati furono di nuovo coperti di terra.
Mentre, come era mio dovere, mi aggiravo lì in­torno, saltò fuori dalla terra stessa un capraio, un ometto triste, che si offrì di farmi da guida non solo a Strongoli, ma per tutta la Calabria. Il suo segreto desiderio divenne presto evidente: voleva scappare dal suo paese e trovare la strada per l'America sotto la protezione mia e del mio passaporto. Era la sua grande occasione: uno straniero (americano) che prima o poi sarebbe tornato in patria! Con ingenuo fervore egli insistette sull'argomento; invano cercavo di spie­gargli che esistevano anche altri paesi nel mondo, che io  non sarei andato in America. Lui scuoteva il capo e infine saggiamente osservò: «Ho capito. Lei crede che
il mio viaggio costerebbe troppo. Invece deve capire anche lei: una volta trovato lavoro, io le restituirò fino all'ultimo soldo.»
Gli offrii delle sigarette per consolarlo. Ne accettò una, riflettendo, ancora non rassegnato.
I caprai non soffrivano di così acuti desideri, ai tempi di Teocrito.

Nessun commento:

Posta un commento