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martedì 29 aprile 2014

§ 077 290414 Luigi Giglio, con breve di Lupicini

Premessa (benché successiva alla stesura dello scritto...).
Questa ricerca - o post, come usa dirsi - era nata dalla volontà dello scrivente di esporre e tradurre in caratteri moderni la 'Breve descrizione...' con la quale Antonio Lupicini cercava di confutare le idee di Luigi Lilio relative alla riforma del Calendario. Aggiungendo altre parti, note, curiosità, mi sono reso conto che l'argomento di cui vado parlando - o forse blaterando - mi interessava ben oltre l'aspetto contingente che poteva essere l'omaggio, per quanto umile, all'opera del mio - e magari anche tuo, oh sporadico lettore! - conterraneo. Per questo motivo credo che cercherò altri scritti da aggiungere a questa 'ricerca senza pretese'. Certo sarebbe semplice, facilissimo, domandare all'amico Francesco Vizza il permesso di 'postare' (povera lingua patria...) qualche brano dei suoi studi... ma sarebbe giusto? No che non lo sarebbe... anche se non potrò astenermi dal ricorrere ai suoi studi, e ad usarli per meglio chiarire taluni aspetti 'del contendere'.
Quando ero bambino, nemmeno ragazzino, ma bambino - uno di quegli infanti per i quali si prospettava immancabilmente una 'tanta strada' da farsi (mai fatta, nel mio caso, se non per trasferimenti...) - avevo sempre gli occhi rivolti ai libri, ovunque andassi, ed in quei libri cercavo troppo spesso argomenti irraggiungibili, e attinenze con i miei luoghi d'origine... Sì, non ero precoce, ma semplicemente illuso o fuorviato. Sfogliando una di quelle inguardabili enciclopedie che un tempo arredavano le dimore più o meno misere di quelle che ancora chiamo 'le mie parti', rinvenni delle note biografiche relative a tale 'Luigi Lilio, o Giglio', di Cirò (CZ), dove, in due righe, si affermava essere, quel 'tale', il riformatore del Calendario... Non ho mai dimenticato queste noterelle della 'Grande Enciclopedia Universale Curcio' (in comode rate mensili)...
Come potrete notare, in quella che è attualmente la parte finale di questo post, Carmelo bene parla di Aloysius Lilius come di uno 'sfaccendato' e un 'mascalzone patentato', mentre il suo intervistatore domanda candidamente (forse) chi fosse il personaggio del quale Bene stava parlando... una intervista ridicola, tutto sommato, un gioco delle parti, una curiosità, anche se non priva di spunti che ognuno, a modo proprio, potrà approfondire. Smontare le affermazioni di quella intervista sarebbe un esercizio fin troppo gratuito. A milioni di persone piacerebbe lasciarsi andare all'esercizio dell'anarchia, a sognare quell'isola che forse non c'è e per la quale si è coniata la parola 'utopia'... non è il tempo, e nemmeno la sua misurazione, a rendere schiavi, non credo proprio: il tempo è anche una sorta di reticolo, una trama 'connettiva', che trattiene quella che è una delle caratteristiche più alte e distintive della natura umana: la memoria.
Tutto sommato credo che Carmelo Bene ne sapesse, di Luigi Giglio, non più di quanto si potrebbe leggere in qualche edizione superstite della 'Enciclopedia Universale'...
E' per questo che metto insieme queste note, a distanza di quasi cinquant'anni da quando ho imparato a leggere? E chi può saperlo... Ad ogni modo credo che insisterò con la ricerca di altri materiali 'liliani', quasi a fare di questo 'post' (... e dalli!) un repertorio 'in divenire' di notizie, con tanto di bibliografia annessa... ma una cosa alla volta.
Tanto per non essere troppo ripetitivo, aggiornerò il titolo dello scritto, apponendo la data di introduzione delle modifiche.

BREVE DISCORSO D'ANTONIO LUPICINI, SOPRA LA REDUZIONE DELL'ANNO, E EMENDAZIONE DEL CALENDARIO.
Nel trattatello, apparso nel 1578, nella edizione fiorentina di Sermartelli, e ripubblicato - nella edizione che propongo - sempre in Firenze nel 1580, per i tipi di Marescotti, l'autore, Antonio Lupicini, affronta e critica la riforma liliana del calendario, o, dicendo forse meglio, la riforma gregoriana del calendario secondo le risultanze delle scoperte scientifiche di Luigi Giglio. I caratteri a stampa sono quelli del XVI secolo e bisognerà prestare attenzione a distinguere le lettere 'f' dalle 's' e le 'u' dalle 'v'. Anche la lettera 'n' è trascritta, in taluni casi, utilizzando la tilde.
E' curioso - ma non troppo - notare come in fine di pagina, quasi a promemoria, gli stampatori annotassero la prima sillaba della pagina successiva.
Vagando per la rete, e recuperando materiali liliani, mi convinco che il Nostro, almeno ai suoi tempi, fosse molto famoso, se non addirittura celebre, e ne deduco che purtroppo la storia non ha reso il giusto merito a questo scienziato che, in estrema sintesi, ha realizzato una scoperta che riguarda l'universo mondo... e scusate se è poco. Merito, quindi, agli studiosi e agli appassionati che hanno rinnovato la memoria di quella che è la massima gloria cirotana in campo scientifico.
Luigi Lilio, mia foto ripresa nel Casale dell'Attiva, per gentile concessione dell'avvocato G.F. Pugliese.

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Intanto, quanto alla fama di Giglio, cito Louis (Lodovico) Dutens, (1730-1812), dal suo 'Dell'origine delle scoperte attribuite ai moderni', tomo III:
''Luigi Lilio inventor dell’Epatta (*) e riformator del calendario.

VII. Ma trasandar non debbo un nostro nazionale, che prima del Galileo immortalò il suo nome coll’invenzione de’ 30 numeri dell’Epatta e col trattato sulla riforma del calendario, il cui piano, ed esclusione di quelli di parecchi altri astronomi, fu fatto eseguire da Gregorio XIII. Egli è il famoso Luigi Lilio, o Giglio del Cirò in Calabria, ch’è stato bruttamente equivocato tanto dal Moreri nel suo Dizionario con Lilio Gregorio Giraldi letterato Ferrarese, quanto da colui che vi fa le Note con Lilio Gregorio Veronese. (1)
(1) Ma il Lilio prevenuto da morte non potè vedere eseguito il suo progetto, su di cui avea dieci anni faticato. Vi entrò bensì a parte il di lui fratello Antonio Lilio, che da Gregorio ebbe il privilegio della stampa dell’Opera e fu impiegato all’eseguimento della medesima in compagnia del celebre Ignazio Danti Domenicano Perugino dopo l’esame e la correzione che ne fecero Mons. Vincenzio Lauro pur Calabrese, che poi fu Cardinale, Cristoforo Clavio Gesuita, e Pietro Ciaconio Prete Spagnuolo. Oltre al Giannone, lib. 33, c. 64 e agli Scrittori Calabresi; si vegga il P. Maffei Annal. di Gregor. XIII tom. II.''

Nelle brevi note del Dutens si può notare come il nome del nostro paese, al tempo - e sicuramente fino al XIX secolo - fosse usato al maschile, e con tanto di articolo determinativo dello stesso genere; anche il Galanti lo appellava allo stesso modo, e del resto mi sembra, a ben guardare, una concessione a quell'etimo che recita di un luogo freddo e 'altisedens': Il Cirò, quindi, Il Zirò...
Il Dutens ricorda inoltre come spesso altri autori abbiano scambiato Luigi Lilio con altri personaggi dal nome più o meno simile (quello accennato non è l'unico caso).
(*)  Epatta di Pio Luigi Emanuelli, in 'Enciclopedia Italiana Treccani', ed. 1932.
EPATTA (da επακτός "aggiunto"). - Per definizione epatta di un anno è l'età della luna dall'ultimo giorno dell'anno precedente (o, se si vuole, al 0 gennaio), quando si chiami età della Luna a un dato giorno il numero di giorni trascorsi a partire dall'ultimo novilunio, assegnandosi a questo il valore 0. Nel calendario gregoriano, l'epatta, che si suole indicare in cifre romane, rende, per così dire, meccanico il calcolo dei novilunî ecclesiastici per il computo della Pasqua.
Fino alla riforma gregoriana (v. calendario) questo calcolo veniva effettuato mediante il cosiddetto ciclo diciannovennale di Metone, secondo il quale, in capo a 19 anni, i novilunî, al pari delle altre fasi della Luna, ritornano alle stesse date. La riforma escogitata dal medico calabrese Luigi Lilio e attuata nel 1582 da Gregorio XIII, si proponeva due scopi: l'uno era quello di riportare l'equinozio di primavera al 21 marzo; l'altro, forse più importante, di coordinare l'anno lunare all'anno solare, in modo da poter determinare con sufficiente esattezza la data della Pasqua (v. Pasqua).
Ecco in breve le regole pratiche, cui conduce il meccanismo ideato dal Lilio per raggiungere, per mezzo di epatte, questo scopo.
Etimologicamente "epatta" è il numero dei giorni, che bisogna aggiungere all'anno lunare per avere l'anno solare. L'anno lunare essendo di 354 giorni, l'anno comune solare di 365, la differenza 11 è l'età della Luna media al principio del secondo anno, se la luna nuova è cadu̇ta al principio del primo anno. In questo caso 11 è l'epatta del secondo anno. L'epatta del terzo è 11 + 11, cioè 22; quella del quarto sarebbe 33, ma, siccome s'intercala un intero mese di 30 giorni, si riduce a 3. E cosi per gli anni seguenti si trovano le epatte: 14,25,6 (cioè 36), 17,28, 9 (cioè 39), ecc.
Ma la riforma gregoriana ha introdotto, a partire dall'anno 550 dell'era cristiana, una correzione (la cosiddetta equazione lunare), la quale consiste nell'aggiunta d'un giorno alle epatte dei singoli anni d'un ciclo metoniano, con una legge che qui non è il caso di precisare. Questa correzione porta di conseguenza che, per il calcolo delle epatte, non vale la semplice legge periodica dianzi accennata, bensì un procedimento che varia lievemente per periodi secolari. Precisamente per trovare l'epatta d'un anno, se ne trova anzitutto il cosiddetto numero aureo (vale a dire quello che a codesto anno spetta nella successione del suo ciclo metonico e che si ottiene aumentando di 1 il resto della divisione del millesimo per 19) e poi, indicato con A questo numero, si calcola il resto della divisione di 11 (A −1) per 30. Chiamato R questo resto, l'epatta, che denoteremo con E, si calcola secondo la tabella seguente:
Ad esempio, per il 1932 si ha A = 14, R = 23, E = 22.
Trovata l'epatta d'un anno, ecco come si procede praticamente per trovare tutti i novilunî (e quiudi anche le altre fasi lunari) di quell'anno. Nel calendario gregoriano perpetuo, a fianco d'ogni giorno, a partire dal 1° gennaio, sono segnati i primi trenta numeri, ma in ordine decrescente (e scritti in cifre romane): cioè di fronte al 1° gennaio è posto XXX (o un *), di fianco al 2 gennaio è posto XXIX, e così, via, fino ad I, dopo di che si ricomincia col XXX (o con un *). Siccome al primo gennaio sono passati dall'ultimo novilunio tanti giorni, quante sono le unità dell'epatta dell'anno che si considera, così il primo novilunio si farà in quel giorno, di fronte al quale risulta segnata, in cifre romane, l'epatta di quell'anno. Ad es., nel 1932 il primo novilunio si è avuto nel giorno di fronte a cui sta scritto XXII, cioè il 9 gennaio. E poiché tutto ciò si può ripetere per ciascuna lunazione successiva, anche tutti gli altri novilunî dell'anno cadranno precisamente in quei giorni, accanto ai quali ricompare periodicamente l'epatta dell'anno. Solo bisogna aggiungere che, siccome le 12 lunazioni di ciascun anno sono alternativamente di 30 giorni (piene) e di 29 (cave), è stato necessario assegnare, ogni due mesi lunari, due epatte a uno stesso giorno: queste epatte sono la XXV e la XXIV, e i giorni dell'anno con doppia epatta sono: il 5 febbraio, il 5 aprile, il 3 giugno, il 1° agosto, il 27 settembre e il 27 novembre. Trovati i novilunî, le altre fasi lunari si otterranno aggiungendo alle date dei novilunî i numeri 6 (primo quarto), 13 (luna piena), 20 (ultimo quarto).
Importa infine avvertire che i novilunî ottenuti nel modo dianzi indicato non sono che approssimati e possono differire dai novilunî astronomici, dati dalle effemeridi, di 1 giorno o di 2 0 anche di 3; e questa divergenza è dovuta al fatto che nel calcolo delle epatte si attribuisce alla Luna un moto medio, che non risponde alla realtà. Ma per gli scopi dei calcoli fondati sull'uso delle epatte, che è di fornire un metodo rapido per determinare con approssimazione le fasi lunari, e soprattutto il plenilunio pasquale, codeste divergenze non hanno importanza.
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Se non siete svenuti o se non siete ancora stufi... proseguiamo coi materiali liliani.
L'autore del 'breve discorso', Antonio Lupicini (circa 1530-circa 1607), ingegnere, architetto, astronomo, artigliere e tanto altro, fu un personaggio eminente della corte medicea che gli affidò numerosi incarichi. Qui, come si legge nella prima pagina, fornisce a Francesco de' Medici, che gliene ha fatto richiesta, una propria visione della proposta liliana di riforma.
Devo ringraziare Francesco Vizza per aver sottolineato, facendomi ricredere circa la mia scelta di tagliare una parte di questo post, che papa Gregorio XIII aveva inviato delle informative ai potenti dell'epoca, tra cui il Granduca di Toscana, con le quali li informava a proposito della riforma del calendario: in pratica Francesco de' Medici chiedeva lumi al Lupicini, che però osteggiava le scelte di Giglio, sostenenendo quelle del toscano Giovanni Maria Tolosane di Colle Val d'Elsa, ma ecco il commento di Vizza:

Caro Cataldo,
a parte il commento del Botta, la riflessione che tu facevi sulla notorietà di Lilio, a mio parere, è molto importante.
Lilio era diventato molto famoso perché il Compendium, che racchiude i punti principali della sua ipotesi di riforma, fu inviato da papa Gregorio XIII a tutti gli Imperatori cristiani, Re, Repubbliche, Duchi, Università ed Accademie d’Europa affinché ottenessero un giudizio dai loro esperti matematici, astronomi e uomini eruditi. Le dichiarazioni dei Principi, a favore o contro la proposta di Lilio, accompagnate dalle relazioni dei loro esperti, furono poi inviate al papa. In sintesi, i più importanti uomini eruditi, astronomi e matematici del tempo conoscevano la proposta di Lilio.
Il Granduca di Toscana Francesco I dei Medici, inviò al papa la sua dichiarazione, insieme a cinque rapporti formulati da Alessandro Piccolomini, Julius Angelus Bargaus, Philippus Bhantenius, Josephus Mozzolenus e Antonius Lupicinius.
E’ evidente che Lilio era uno dei matematici-astronomi più famosi della seconda metà del ‘500 e lo fu per molto tempo a seguire.
Il libello, che tu hai pubblicato su questo Blog, è la relazione di Lupicinio il quale non fu molto tenero con Lilio. Ma la storia è nota. i Toscani tifavano per la proposta del loro corregionale Giovanni Maria Tolosane di Colle Val d’Elsa che nel 1537 pubblicò un Opuscolum de emendationibus temporum nel quale proponeva di fissare l’equinozio al 10 o 11 marzo e di eliminare un giorno ogni 104 o 108 anni. Il suo anno solare, al limite, poteva anche essere astronomicamente corretto ma non il calcolo della Pasqua che fu, invece, brillantemente risolto da Lilio “con uno sguardo acuto dell’intelletto”.
Francesco Vizza.
Ed ecco la mia risposta:
Infatti, caro Francesco, il tuo gradito ed illuminante commento è apparso proprio mentre stavo aggiornando il post con una citazione di Lodovico Dutens, a conferma della fama di Luigi Giglio. Con le storielle - ché in fondo le definisce così anche l'autore medesimo- del Botta, ho inteso aggiungere qualche nota di colore napoletano... Certamente il Lupicini voleva contrastare la visione liliana, per i motivi, tutto sommato 'di bottega', che tu hai bene illustrato, e che non suonano certo a merito dell'estensore del trattatello che ho riproposto. Ma a ben guardare, la relazione fatta dall'ingegnere toscano a Francesco de' Medici, sempre per i motivi che hai ulteriormente chiarito, in fondo sottolinea, malgrado gli intenti contrari, l'importanza dell'opera dell'astronomo cirotano.
Grazie.

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Vediamo, a mo' di introduzione al trattatello del Lupicini, come riassume la vicenda della riforma del calendario lo storico Carlo Botta (1766-1837), nella sua rinomata e ponderosa 'Storia d'Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1814', (il testo selezionato qui appartiene all'edizione del 1843), tomo II, libro XIV:
''Il pontificato di Gregorio merita specialmente di essere celebrato per la riforma del calendario, che a' suoi tempi, cioè nel 1582, e per opera sua si consumò. Il concilio niceno, per fare che i cristiani non celebrassero la pasqua al medesimo tempo che gli ebrei, aveva statuito che la prima domenica dopo il plenilunio della luna di marzo che succede all'equinozio di primavera si celebrasse. Ora, siccome il sole impiega circa sei ore più che trecentosessantacinque giorni per arrivare al punto del cielo, che forma quell'equinozio, cioè al suo ingresso nell'ariete, era avvenuto, che dal concilio di Nicea in poi, l'equinozio era ritardato di dieci giorni, e caduto all'undici di marzo. Da questo sbalzar indietro del sole, rispetto ai moti della luna, che non avevano variato, era proceduto, che la pasqua non si poteva più, secondo la mente di quel concilio, celebrare. Poteva anche nascere coll'andar del tempo, che si turbasse l'ordine delle stagioni, e la state cadesse nei mesi d'inverno, e l'inverno in quei della state, perché la divisione del tempo fatta dagli uomini non corrispondeva al corso immutabile della natura.
Per la qual cosa il papa, scrittone a tutti i principi, e consigliatosi coi più dotti matematici di quell'età, finalmente, accettando la sentenza di Luigi Giglio, statuì, affinché di nuovo i moti del sole con quei della luna si uniformassero e la uniformità anche nei secoli avvenire si conservasse e le stagioni nei medesimi mesi si formassero, che dieci giorni dell'anno 1582 si togliessero, che ad ogni quinto anno un giorno si aggiungesse, e l'anno col giorno aggiunto bisestile si chiamasse, che finalmente ogni quattrocento anni un giorno si scemasse. A questo modo l'equinozio di primavera, salva una picciolissima differenza, che non cadrà sotto i sensi, né sarà d'importanza se non nel progresso di molti secoli, fu fermato, e si mantiene nel medesimo giorno di marzo. Si decretò ancora, che il giorno intercalare al mese di febbrajo si aggiungesse.
Restava da determinarsi quali fossero i dieci giorni che si volevano sottrarre dall'anno e da qual mese. Pensossi all'ottobre; ma il papa non volle che si desse principio dal primo del mese, perché, cadendo il giorno di san Francesco il quarto, i frati francescani fecero un gran romore, affinché il giorno festivo del loro fondatore non sl sopprimesse. Pertanto. si lasciò correre il quarto d'ottobre, poi, in vece di dire cinque d'ottobre, subito si disse quindici, cioè in vece di andare dai quattro ai quindici passando pei giorni intermedj, vi si andò immediatamente. Cosi fu conservato san Francesco; ma altri furono soppressi, ed ebbero pazienza, fra gli altri san Dionigi.
 Gl'Italiani ed i Francesi accettarono subito la riforma del calendario, che dal nome del papa, che ne fu il promotore, gregoriana si chiamò. Gl'Inglesi, e la più parte degli Alemanni penarono qualche tempo a conformarvisi, perché credevano che la facoltà di far mutazioni nel calendario spettasse all'autorità civile, non all'ecclesiastica, ma finalmente vi si adattarono. Solo la chiesa greca restò renitente, e questa è la ragione per cui il calendario russo non concorda col romano.
Divulgossi nel mondo che parecchi miracoli avessero accompagnato la riforma gregoriana. Conservavasi nella chiesa di san Gaudioso in Napoli dentro una boccetta il sangue di santo Stefano. Ora questo sangue era solito a liquefarsi da sé medesimo il tre di agosto, giorno dedicato a quel santo; ma dopo la riforma sopraddetta non si liquefece più che il tredici. Vi fu chi scrisse che ciò era pruova manifesta che il calendario gregoriano era stato ricevuto ed appruovato in cielo. Simile mutazione fece, al dire e scrivere d'alcuni, il sangue di san Gennaro ai diecinove di settembre. Anche un noce, solito a restar secco e sfrondato come in inverno sino alla vigilia di san Giovanni Battista, ed a comparire tutto ad un tratto vestito di foglie e di frutti la mattina seguente, cambiò stile rinverdendosi e cacciando fuor noci grosse e bell'e formate dieci giorni prima, cioè l'istessa notte di san Giovanni. Ma siccome il miracolo consisteva nel non cambiar di data, e nel seguitare il nuovo calendario, così il noce fece, il sangue no, che non s'accorse della riforma. Queste cose sono pure molto inette ma le narro per ammaestramento di chi mi legge.''
Fin qui Carlo Botta, passiamo ora al trattatello, premettendo una nota, tratta da 'Enciclopedia Italiana Treccani, ed. 1933, che spiega cosa si intenda per 'Lettera domenicale''...
LETTERA DOMENICALE. - È una lettera dell'alfabeto, che nel calendario ecclesiastico si associa ad ogni anno e che, insieme con la corrispondente epatta (v.), permette di determinare per l'anno considerato la data della Pasqua e quindi la distribuzione delle altre feste mobili. Per trovare la lettera domenicale di un dato anno, si fanno corrispondere ai primi sette giorni di esso ordinatamente le lettere da A a G, cioè al 1° gennaio la lettera A, al 2 la lettera B e così di seguito. La lettera domenicale dell'anno prefissato è quella, che si trova a corrispondere alla domenica di quella prima settimana e, quindi, anche a tutte le altre domeniche, se l'operazione s'immagina proseguita per tutto l'anno. Se l'anno è bisestile, le lettere domenicali sono due: la prima, valida fino al 29 febbraio compreso, si trova con la regola or ora indicata; l'altra, valida per il resto dell'anno, si determina applicando la medesima regola a partire dal 1° marzo ed è quindi la lettera, che, nell'ordine alfabetico, precede immediatamente la prima. Così per il 1934, che comincia con un lunedì, la lettera domenicale è G; per il 1936, che comincia con un mercoledì, le lettere domenicali sono E, D. (Se ne deduce che il 1936 fosse bisestile, n.d.r.); fonte: Treccani.it.

Havendomi Vostra Serenissima Altezza comandato, che io dica il parer mio sopra il nuovo modo di emendare il Calendario, il quale è stato proposto al Sommo Pontefice dall'Eccellenre M. Luigi Giglio Mathematico: & havendolo io veduto e considerato con ogni mia maggior diligenza; dico, che supponendo il detto M. Luigi che l'anno sia trascorso dal tempo di Giulio Cesare fino a hoggi tredici giorni, o più, e dieci dal Concilio Niceno, celebrato l'anno 322 sotto Silvestro, e Costantino; e venendo al modo di ristituirlo, propone che e' si debbano levar via quei tredici giorni, o vero (quel che egli giudica attenere più alla degnità della Chiesa) quei dieci, che sono sopracresciuti dal detto Concilio fino a hoggi, e ridurre l'equino-

zio della primauera alli 21 di Marzo, come era in quel tempo. E questo dimostra potersi commodamente fare l'anno 1580 con il tralasciare in 40 anni prossimi, dieci bissesti; di maniera che l'anno 1620 posto fine a ogni confusione, e disordine, e ridotto l'equinozio alli 21 di Marzo, per ovviare che per l'avvenire più non trascorra instituisce da quivi innanzi questo modo d'intercalare, cioè che li centesimi anni, i quali ordinatamente sono tutti bissestili da quel tempo innanzi non siano tutti così, ma sempre tutti i primi tre centefimi siano communi, e ogni quarto centesimo sia bissestile. Dipoi perche nel Calendario si vede l'aureo numero esser variato quattro giorni, o più, il che dice essere avvenuto perché il ciclo decennovennale non è convenieme al moto della Luna; perciò egli levando via l'uso di quello ha trovato un certo ciclo, il quale perché è composto dei numeri dell'epatte ei chiama ciclo decennovennale dell'epatte il quale ha accomodato al Calendario; e con esso dimostra che si potranno trovare i novilunij, cominciando a usarlo dopo che sarà ricorretto l'anno, secondo l'ordine che si vede nelle tavole dall'Authore a tale effetto composte. Questo così brevemente raccolto è il modo di ristituire il Calendario, che propone il detto M. Luigi: il quale certamente è molto ingegnoso, ma al giudizio mio apporta seco qualche diffìcultà. La prima è che il tralasciare dieci bissesti in 40 anni, come egli stesso confessa, leva via l'uso della lettera domenica-
le per detti 40 anni, e da quel tempo innanzi non può anche servire con il medesimo ordine, che s'è usata fino a hoggi, se non dopo 40 anni, il che è di tanta importanza, che nel Concilio di Basilea si restò di riformare l'anno, solo per non mutare la lettera domenicale, come fu proposto da Niccolao Cusano Cardinale. la seconda è la lunghezza del tempo, dovendosi aspettare fino all'anno 1620 a usare la regola, che egli propone, acciò che l'anno più non trascorra, e in tanto stare 40 anni in continova molestia e ne i medesimi errori. Oltre a che alla fine de i detti 40 anni bisognerà di nuovo ristituire la terza parte d'un giorno, o più, che in quel mentre harà variato l'equinozio. Pertanto sarebbe forse meglio, come anche accenna il dotto M. Luigi,  patire questa molestia una sola volta, e levar via i giorni sopracresciuti in un anno solo, come di sotto si dirà. Quanto al modo dell'intercalare, che egli propone per adeguare l'anno al moto del sole in 400 anni, supponendo secondo il re Alfonso che l'equinozio trascorra un giorno in 134 anni, dico che la misura di Alfonso non è vera, come di sotto si proverrà, onde non può anche esser vera la regola, che si fonda sopra di quella; ma dato che la detta misura fusse vera, non segue per questo, che la proposta regola delli 400 anni sia perfetta, percioche li 300 primi saranno adeguati abondanti, ristituendosi in ogni 100 quello che si doverrebbe ristituire in 134 e li 100 ultimi saranno adeguati di minuti, mancandosi di ri-
stituire quello, che è trascorso di lor natura, e ristituendosi solamente quello, che tocca alli 34 tre volte lasciati, onde non può esser buona la regola, essendo sproporzionati infra di loro. Quanto al ciclo dell'epatte, che egli aggiunge al Calendario, non si può negare, che non sia molto artifizioso; ma potendosi (come io credo) mantenere nel Calendario l'aureo numero, che ha usato tanti anni la S. Chiesa e usarlo come di sotto si dirà, non pare, che sia da rimuoverlo, per non addurre tanta difficultà, quanto apporta seco il rimuovere le inveterate consuetudini: oltre a che l'uso di quelle tavole, che propone il Giglio, è alquanto difficile, come può giudicare ciascheduno, che le consideri. E questo è quello, che brevemente ho voluto dire sopra il modo del detto M. Luigi, il che ho fatto solo per ubidire a V. A. e non per vogli di contradire all'altrui opinione. Ma per non mancare di servire (come è mio debito) a V. Alt. Sereniss. e a sua Santità per quanto si estendono le mie forze, non lascerò di proporre il modo, che a me pare, che sia a proposito, per emendare il Calendario; il che grandemente importa alla Santa Chiesa Romana per la celebratione della Pasqua, e dell'altre feste mobili. Dico adunque che duoi sono i termini, che dimostrono il giorno pasquale, cioè l'equinozio della primavera, e la quartadecima luna, che a quello è più vicina, dovendosi celebrare la Pasqua dopo l'equinozio, e dopo la detta quartadecima luna, fino alla vigesimaprima, come instituirono
 
i Santi Padri del Concilio Niceno, nel quale per stabilire questi duoi termini fu conchiuso, l'equinozio essere alli 21 di Marzo; e per ritrovare la quartadecima luna, posero nel Calendario ecclesiastico l'aureo numero: i quali duoi termini se fussero stati fermi, non sarebbe accaduto alcuno errore nel celebrare la Pasqua, come bene spesso è avvenuto, e adiviene, per la variazione che hanno fatto, la quale è stata cagionata da questo, percioche dependendo l'uno dal moto del Sole, e l'altro dal moto della Luna, non è stata trovata fino a hoggi la vera misura de i moti loro, sopra la cui cognizione debbe esser fondata la regola, mediante la quale per l'avvenire quei termini più non trascorrino: il che possiamo hoggi noi più commodamente fare, e con maggior certezza, che non potettero li antichi, i quali tutti s'ingannarono nella misura dell'anno, havendola tutti posta differente, l'uno dall'altro; percioche Cesare, il quale fu il primo, che introdusse la forma dell'anno, che noi osserviamo, pose la misura di quello di 365 giorni, e 6 hore, la quale non fu giusta, percioche havendola osservata appresso alle stelle fisse, credette che quelle non fussero mobili: ma havendo esse variato di moto, secondo la successione dei segni, e da tramontana a mzzogiorno, ne segue che l'equinozio ha variato dal luogo, dove egli lo pose. E Tolomeo poco dopo Cesare pose la misura dell'anno di 365 G. 5 H. 55 M. la quale fu molto più giusta, che quella di Cesare per la cognizione che egli ebbe del mo-
 
to della nuova sfera. Ma il re Alfonso gli anni del Signore 1250 disse, che la misura dell'anno era di 365 G. 5 H. 49 M. 16 S. percioche oltre al moto della nona sfera, hebbe cognizione del moto dell'ottava, dove è il moto della trepidazione, dal quale conobbe la direzione, e retrogradazione delle stelle, che fino all'hora non era stata conosciuta: la cui misura nel vero fu molto più giusta dell'altre, che furono fatte innanzi a lui, sebene non è del tutto perfetta, conoscendosi da questo, che secondo tal misura l'equinozio varia un giorno in 134 anni, e 91dì, il che è falso, come si prova da questo, percioche essendo l'equinozio l'anno 322 alli 21 di Marzo, come è detto, secondo tal misura harebbe variato da quel tempo fino all'anno 1580 nove D. 11 H. 12 M. 10 S. ma l'equinozio harà variato da detto anno 322 fino all'anno 1580 dieci D. 16 H. 46 M. 58 S. come si vede per l'osservazioni adunque la misura d'Alfonso non è vera, e che secondo quella l'equinozio dovesse haver variato nello spazio del tempo di sopra detto 9 D. 11 H. 12 M. 10 S. si prova partendo gli anni 1258 che corrono dal 322 al 1580 per i 134, e 91 D. dal che ne viene li detti 9 D. 11 H. 12 M. 10 S. i quali come è detto, dimostrano la misura d'Alfonso non essere stata vera; ma s'accosta bene più al vero di ciaschedun'altra, percioche nella sua osservazione potette fare maggior basa, il che fare Tolomeo haveva prima dimostrato essere necessario, il quale conoscendo, che la basa
 
che potette fare egli dall'anno 132 all'anno 139 era piccola rispetto alla tardezza della nona sfera, fece perciò quella tanto famosa Ermilla, la quale lasciò a' suoi scolari, acciò che eglino potessero osservare i solstizij, e gli equinozij con più lunghezza di tempo, e con maggior perfezione, che non haveva potuto fare egli. Ma noi hoggi potendo fare maggior basa, che non potettero gli antichi, e valendoci delle regole date da Tolomeo, dove egli per le due positure dell'anno 132 e 139 dimostra, ch'e bisogna far basa; e usando la regola de i quattro proporzionali, Dico, che facendo la nostra basa di 1258 anni, che corrono dall'anno 322 all'anno 1580 che sono i due termini noti, dimostrerremo con molta certezza qual sia la giusta misura dell'anno, mediante la quale possiamo formare la regola, che per l'avvenire più non trascorra.
Ma prima è necessario ristituire i giorni di già trascorsi, i quali a me parrebbe, che si dovessero tralasciare tutti in un tratto, per uscire d'errorre, e di briga il più presto che fusse possibile: il che si potrebbe commodamente fare l'anno 1581 nel mese che paressi più al proposito, dovendosi assolutamente ristituire i giorni trascorsi in un anno, che segua immediate dopo l'anno bissestile. E quanto al numero de i giorni, che si debbano ristituire, io credo che più conveniente, e più facile sia tralasciarne quattordici, e ridurre l'equinozio alli 24 di Marzo, circa il qual giorno era al tempo dell'avvenimento di Christo, il


che si prova in questo modo, percioche essendo l'equinozio l'anno 322 alli 21 di Marzo; e havendo variato in 1258 anni, che corrono da quel tempo fino all'anno 1580 dieci D. 16 H. 46 M. 58 S. come si vede per la sperienza, se fonderemo il nostro calcolo ne i quattro proporzionali, troverremo che se alli 1258 anni toccono 10D.16H.46M.58S. alli 322 ne verranno duoi D. 17H. 43M. 36S. i quali harà variato l'equinozio in 322 anni dal tempo dell'avvenimento di Christo fino al Concilio Niceno, e i quali messi insieme con li 10D. 16H. 46M. 58S. che ha variato l'equinozio dal detto Concilio fino a hoggi, fanno 13DD. 10H. 30M. 34S. A questi se aggiugneremo i dieci dì del mese 7H. 13M. 4S. che sono dove si ritroverrà l'equinoziol'anno 1580 troverremo che fanno in tutto 23D. 17H. 43M. 38S. onde si vede che l'equinozio al tempo dell'avvenimento di Christo era circa alli 24 di Marzo. Al qual tempo riducendolo con il torre via di qualche mese quattordici giorni (come è detto) si ridurrebbe non solamente la Pasqua, e l'altre feste mobili ne i proprij giorni, che si debbono celebrare, ma ancora si tornerebbe a celebrare le feste fisse ne i giorni, che elle avvennero come è la festa dell'incarnazione, e della Natività del nostro Signore delle quali l'una fu nell'equinozio della primavera, e l'altra nel solstizio dell'inverno; e si manterrebbe nel Calendario l'uso della lettera domenicale con il medesimo ordine, che s'è usato fino a hoggi, perché le-






















vando via 14 giorni di qualche mese, si ripiglia appunto la medesima lettera domenicale, che s'era lasciata, come si può vedere, il che non avverrebbe levandone dieci, come di sopra è detto. Hauendo così ridotto l'equinozio, per provedere che per l'avvenire più non trascorra, bisogna trovare la giusta rnisura dell'anno; il che a noi è molto facile hauendo noti duoi termini, i quali habbiamo assai certi, perche essendo l'equinozio l'anno 322 alli 21 di Marzo, e ritrouandosi l'anno 1580 alli 10 D. 7 Н. 13 M. 4 S. del medesimo mese, соmе per l'osservazione si può vedere: facendone il conto, si troverrà che harà variato anticipando 10 D. 16 H.11 46 M. 58 S. da i quali possiamo trovare la giusta misura dell'anno partendoli 1258 anni che decorsi dall'anno 322 fino all'anno 1580 per detti 10 D. 16 H. 46 M. 58 S. dal che ne verrà 117 anni, 211 D. 2 H. 27 М. 29 S. i quali cidimostrano che in detti 117 anni il Sole s'allontana un giorno dal primo punto dell'Ariete del primo mobile di moto contro la successione de i segni: e da questa cognizione potremo con la regola delle tre quantità continove proporzionali ritrovare che il Sole faccia la sua rivoluzione in 365 D. 5 H. 47 M. 45 S. e conchiudere che questa sia la vera misura dell'anno: e che il Sole secondo la misura dell'anno, che noi osserviamo s'allontani ogn'anno dal detto primo punto dell'Ariete contro la successione de i segni per spazio di 12 М. e 15 S. come si può provare ridu-
cendo li 12 Minuti a Secondi, i quali messi insieme con i 15 fanno 735 e questi multiplicati per 117 anni 211 D. 2 H. 27 М. 29 S. е partiti per 3600 che sono Minuti, e Secondi ne viene un giorno intero; il che di nuouo conferma quello che di sорrа s'è dimostrato avvenire ne i detti 117 anni 211 D. essendo adunque il vero ciclo per adeguare l'anno al moto del Sole, di 117 anni, percioche in detto tempo varia un giorno, come s'è dimostrato, sopra di questo si dovrebbe fondare la regola nel Calendario ecclesiastico, acciò che l'anno per l'avvenire non trascorresse; Ma perche il detto ciclo non è conveniente ne al bissesto, ne alla lettera domenicale, per ciò bisogna che ci serviamo d'altro ciclo a quello più prossimo, e di tutti più conveniente; è questo è il ciclo 112 il quale è veramente proporzionato al bissesto, e alla lettera domenicale, perche questa rigirando nel numero settenario presa quattro volte fa il numero 28 e il medesimo numero avviene dal bissesto preso il numero quaternario sette volte, onde il numero 28 fu posto nel Calendario per ciclo del bissesto, e della lettera domenicale: da questo multiplicato per il quattro ne viene il numero 112 che sarà il nostro ciclo per adeguare l'anno, nel quale entrono 28 bissesti. Questo ciclo potrà cominciare l'anno 1581 i o qual si voglia altro anno, pur che segua immediate l'anno bissestile, e camminare coni bissesti ordinarij fino all'ulltimo anno, il quale dovendo essere bissestile, da quel tempo innanzi sarà com-
mune di maniera che in detto ciclo di 112 anni entrino solamente 27 bissesti e il 28 bissesto si tralasci per adeguare l'anno al moto del Sole, havendo in detto tempo variato l'equinozio circa un giorno, come per essempio cominciando l'anno 1581 il nostro ciclo, si seguitino i bissesti ordinarij sino all'anno 1692 il quale dovendo essere bissestile si faccia comune, e il simile si faccia l'anno 1804 e come segue: Et in questo modo andrà camminando l'anno senza mai seguire alcuna variazione per insino all'anno 3826. Ma perche in questo mentre l'equinozio a poco a poco potrà haver variato un giorno rispetto a quei cinque anni e 211 dì che mancano al detto ciclo di 112 dal vero ciclo di 117 questa variazione si potrà anche a quel tempo facilmente correggere tralasciando detto giorno alla fine del 20 ciclo che sarà l'anno 3820 col farne duoi communi cioè l'anno 3816 е l'anno 3820 e così seguitando sеmpre si manterrà l'equinozio senza variazione alcuna e con modo tanto facile, quanto ciascheduno può conoscere, che è questo, il quale non partorisce violenza alcuna, ne adduce seco alcuno incommodo. L'altro termine che nel Calendario Ecclesiastico dimostra quale debbe essere il giorno pasquale, è l'aureo numero, il quale si vede haver variato quattro giorni o più dal Concilio Niceno, e cinque da Giulio Cesare fino a hoggi; il che è avvenuto perche il ciclo decennovennale non èconveniente al moto della luna, ma di tanto è differente che ogni 19 anni varia
un'hora, e 28 minuti, anticipando la Luna le sue congiunzioni per detto spazio d'un'hora, e 28 М. comeosservando più cicli chiaramente si vede: Dalla qual differenza avviene, che in 310 anni 332 D. 1 H. 5 M. 27 S. l'aureo numero nel Calendario varia un giorno da i novilunij, come si prova facendone il conto per i quattro proporzionali. A questa varietà bisogna porgere rimedio con l'adeguare in certo tempo l'aureo numero a i novilunij, come di sotto si dirà. Ma prima è necessario dimostrare come si possa usare detto aureo numero nel Calendario ultimamente riformato dalla Felice Memoria di Pio Quinto, nel quale hauendo egli ricorretto i quattro giorni che haveva variato l'aureo numero, si potrà usare il medesimo, seguìta l'emendazione dell'anno. Ma per cagione delli 14 giorni tralasciati, come di sopra si è detto, bisogna trasportare innanzi 14dì in ogni mese tutti i numeri del ciclo lunare, come per esempio mettendo il numero otto alli 16 di Gennaio, quale nel Calendario di sopra detto è al secondo del medesimo mese: il che si potrà fare senza ristampare il Calendario, con l'aggiugnervi un solo foglio, dove sia descritta la regola del trasportare innanzi l'aureo numero, la quale è facile, e ha seco la riprova della lettera domenicale, dovendo sempre essere la medesima nel luogo dove si pone, ch'era nel luogo dovesi leva l'aureo numero, il quale così trasportato dimostrerrà i novilunij senza alcuna notabile variazione per tre de i nostri cicli solari sino all'anno 1916.
Al qual tempo, perche harà variato un giorno, visognerà di nuouo adeguarlo, il che si potrà fare in questo modo, cioè ritirando indietro un giorno nel Calendario tutti li aurei numeri di ciaschedun mese, come per esempio mettendo il numero otto alli quindici di Gennaio, il quale di di sopra habbiamo detto che che sarà alli sedici del medesimo, e il simile si faccia di tutti gli altri aurei numeri di сiaschedun mese, seguendo di ritirargli indietro un giorno ogni tre cicli, cioè ogni 336 anni, il che facendo infallibilmente dimostrerranno i novilunij E questo modo di ritirare gli aurei numeri indietro osservò la S.M. di Pio nel iriformare il Calendario come di sopra è detto. Ma perche si lasciano indietro 25 anni 32 D. 23 H. 14 М. 33 S. che sono quelli che mancano al ciclo 336 per non essere conforme al moto la Luna, questi si potranno adeguare in 40 cicli solari, cioè fanno 6060 e all'hora (se tanto durasse il Mondo) la varietà da quelli cagionata si può correggere, lasciando l'ulltimo ciclo di trasportare gli aurei numeri, e usandogli nel medesimo luogo. Е così riformato il Calendario ecclesiastico secondo questo nostro modo, e con le regole date di sopra potrà durare molti secoli senza patire variazione alcuna dell'equinozio, e con l'usare la lettera domenicale e l'aureo numero nel medesimo modo che fino a hoggi ha usato la Santa Chiesa, senza nascerne alcuno errore: il che piaccia a Dio che segua a benefizio de' suoi fedeli, e essaltazione di Santa Chiesa, del Sommo Pon-
  

tefice, e delli altri Principi Christiani, e particolarmente di Vostra Serenissima Altezza, alla quale io debbo quel poco ch'io vaglio, e le prego da DIO ogni felicità.                                                                            Di Firenze li 27 di Maggio 1578.  IL FINE.

Chiudo con lo stralcio di una intervista a Carmelo Bene: qui credo che il nome di Lilio venga richiamato dall'artista salentino senza troppa cognizione di causa, ricorrendo allo sfoggio di una nozione da solutore di parole crociate (con tutto il rispetto) per aggredire, attraverso l'opera di Luigi Lilio, schematizzazioni e barriere. Visione da artista, quindi, certo non da storico...
- Un giorno si viene al mondo. L’inizio è uguale per tutti.

Andiamoci piano con questa storia che un bel giorno si nasce. Non è così scontato. In quegli anni venire al mondo e farla franca era come scampare ad Auschwitz. Scarseggiava la penicillina. La gestante era una signora a rischio, destinata quasi sempre a perire. Lei o il bambino. Qualche volta entrambi. Fortune che non capitano più nel dopo-Fleming.  
- Tu, infelicemente, ce l’hai fatta.
Uno dei pochi. É per questo che quelle annate eroiche si dicono "classi di ferro", ma la guerra e il fronte non c’entrano. Il fatto di essere nati costituiva di per sé un’impresa. Sopravvivere ai tumulti dell’utero, a questo natale bellico, allora funesto nel novanta per cento dei casi. Più che nato, sono stato abortito. Ecco, io mi considero a tutti gli effetti un aborto vivente.
- La tua "impresa" data 1 settembre 1937, Campi Salentina.

Il tempo non esiste. Non mi sento nato e non mi sento cristiano, tantomeno cattolico. Non festeggio, né lutteggio i miei anniversari. In quanto all’anagrafe, rifiuto categoricamente certificati e date, imputabili semmai a quello sfaccendato di Aloysius Lilius.
- Chi è Aloysius Lilius?
Un mascalzone patentato, medico e astronomo. Gregorio XIII gli commissionò nel 1582 la stesura del progetto da cui sortì quell’orrore metafisico che è il calendario gregoriano, riforma contabilmente più precisina del precedente calendario giuliano.  
- Tutto il mondo, cattolico e non, usa il calendario gregoriano.
Non è vero. Russi e greci continuano a usare quello giuliano. E comunque detesto qualunque calendario che si dica religioso ma è solo ritual-mondano-fantastico-ecclesiastico. Vorrebbe sacralizzare il tempo e lo riduce a carnet festivaliero, che la mia persona estetica non può non disdegnare. Una convenzione che emana lezzo ontologico. Di sacro, ieratico, non ha proprio niente.  
- Senza un calendario, sarebbe il caos. La fine di tutti i buoni e cattivi propositi. Non ci sarebbe memoria.
Perseguo da sempre lo smarrimento delle genti. In quanto Lorenzaccio, uno dei tanti nomi delle mie tante esistenze, la storia non mi riguarda. Il calendario è una muraglia cinese contro l’innocenza del divenire, che non dovrebbe ammettere certificazioni come la carta del tempo. La carta del tempo è una invenzione delle culture agricole e io fui abortito in terra d’Otranto, terra nomade per eccellenza.  
- Altri stipendiati sicari di Aloysius Lilius discordano: sarebbe il 3 settembre il tuo giorno di nascita.
La mia prima denuncia a carico. Avevo quattro giorni, quando Umberto Bene, un signore che si spacciava per mio padre, mi denunciò all’anagrafe di Campi Salentina. Non so come e perché, furono poi i questurini di Roma a ricamare la data del 3 settembre. Anni dopo, il sindaco di Campi rese giustizia. Non a me s’intende, ad Aloysius Lilius.
                                               *****************************************
E a proposito della diffusione della riforma liliana ((o gregoriana che dir si voglia), vediamone l'evoluzione, ricorrendo al paragrafo omonimo della accoppiata Francesco Vizza - Egidio Mezzi, in Luigi Lilio, medico, astronomo e matematico di Cirò, Ideatore della riforma del calendario gregoriano, Laruffa Editore:

''Il nuovo calendario non fu subito e ovunque accettato da tutti i paesi ma fu accolto gradatamente. Adottarono subito il calendario i paesi cattolici romani. Ragioni politiche oltre che religiose crearono ostacoli alla sua diffusione, specialmente nei paesi protestanti che rifiutarono la riforma in quanto reputata un grave oltraggio all’autorità dell’imperatore e dei principi tedeschi; il potere di dare nuovo ordine al tempo secondo una consuetudine secolare era stata sempre prerogativa dell’autorità civile e non religiosa, infatti, nel passato le riforme  del calendario erano state emendate per volere di imperatori quali Giulio Cesare, Costantino e l’imperatore Sigismondo.
Il nuovo calendario era occasione di pretesto e accuse per coloro che erano insofferenti della potenza della Chiesa.
Solamente dopo più di un secolo, le difficoltà incontrate specialmente nelle attività legate al commercio e nelle relazioni internazionali convinsero i paesi protestanti ad adottarlo. I Cantoni Svizzeri, la Germania protestante, la Danimarca, la Norvegia e l’Olanda si allinearono nel 1700, seguiti da Inghilterra e Irlanda nel 1752 e dalla Svezia nel 1753.
I più tardivi ad adottarlo furono i paesi ortodossi che accettarono il nuovo calendario dopo la fine della prima guerra mondiale, ma soltanto in materia civile mentre in liturgia utilizzano ancora il calendario giuliano. La Bulgaria si associò agli altri stati nel 1917, la Russia nel 1918, Serbia e Romania nel 1919, la Iugoslavia nel 1923, la Turchia nel 1927 e per ultima fu la Grecia che nel 1928 adottò il calendario in vigore ormai dal 1582. Fuori dall’Europa il Giappone si allineò nel 1873 e la Cina nel 1911. Rifiutano ancora oggi di adottare il calendario gregoriano gli Ebrei e i Musulmani. 
La difficoltà ad accettare la riforma da parte di alcuni paesi europei e asiatici, oltre che da motivi politici e religiosi è stata causata anche dai dubbi che erano stati avanzati sulla correttezza dei calcoli su cui era basata. Dopo la riforma, la stessa Chiesa Cattolica manifestò qualche incertezza; ne dà prova la costruzione della grande meridiana nella basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma ad opera di Francesco Bianchini la cui commissione fu ordinata nel 1702 da papa Clemente XI per verificare che la riforma fosse astronomicamente corretta. L’anno 1600 passò inosservato perché era divisibile per 400 e rimase bisestile; il 1700, invece, era il primo anno che bisestile nel calendario giuliano non lo era più nel nuovo calendario. La meridiana di Francesco Bianchini doveva servire soprattutto per verificare il giorno dell’equinozio di primavera che secondo il calendario doveva ripetersi con esattezza il 21 Marzo, data che fu effettivamente riscontrata dando conferma della correttezza dei calcoli liliani.''

§ 076 290414 Ah, Jogàle!...

Così, in apparenza per ridere, si raccontavano - in realtà si diffondevano ad arte - aneddoti del tipo: Tizio va a fare il soldato, e, credendo di aver appreso l'italiano, quel 'vastaso', tornato a casa in licenza, fa ammattire la propria madre, ignara di tanta evoluzione filiale, con frasi del tipo: 'mamma, sale sulla banca!', che significherebbe, secondo il neofita della lingua italiana: 'mamma, metti il sale a tavola!', mentre per la malcapitata genitrice equivale ad un segno di squilibrio mentale del figlio che le ordina di 'salire sul tavolo'... Oppure, restando in questo solco: il medesimo genio, a casa in licenza, si lamenta con i propri familiari, fingendo di non ricordare più i nomi delle varie suppellettili di casa, finché non si imbatte in una zappa adeguatamente riparata dietro una porta, che, pestata sulla parte del tagliente, va a contundere, con quello che popolarmente appelliamo 'meruggiu', sulla fronte del soldatino che si lascia andare ad una imprecazione del tipo 'ahia ara zappa d'a miseria!!!' (o peggio, non vorrei esagerare con la blasfemia...); ovviamente, la madre non può astenersi dal riconoscere, con malcelata soddisfazione, che 'finalmente ti è venuto in mente!!!' (il nome dell'arnese).
Quelli che ho appena riassunto, sembrano due aneddoti innocenti. E potrebbero esserlo, in un contesto più 'normale', o meno 'compromesso'.
Altri aneddoti parlano, anzi parlavano - ché non usa più -, di 'sfide' basate sull'intelligenza o l'arguzia, richiamando uno schema del tipo: 'ci sono un inglese, un francese, un italiano, un tedesco...'; naturalmente il vincitore sarà l'italiano, secondo gli italiani. Lo stesso schema, opportunamente modificato, faceva prevalere il calabrese sugli altri 'partecipanti'. Aneddoti favolosi, se non favolistici, dove gli americani, ad esempio, erano tout court dei 'cazzoni', e quando passava un aereo, noi che eravamo più intelligenti di quei mangiatori di 'giggomma', alzavamo gli occhi al cielo dicendo 'apparecchju americanu, jetta i bummi e veni ccà'... geniale, vero? L'ho detto anch'io, ovviamente.
Sembrano sciocchezze da poco. E potrebbero esserlo, se non sapessimo chi siamo e da dove veniamo (anche questo, in fondo, è uno schema, o una schematizzazione).
Da dove veniamo, senza andare troppo lontano? Uno dei componenti della nostra 'provenienza' è, a mio modesto parere, Jogàle (o Jugàle, alla cosentina); questo personaggio, questa maschera, che non ci proviene, e parlo dei calabresi, dalla commedia dell'arte - come potrebbe essere per Giangurgolo - rappresenta, a ben guardare, uno dei personaggi più diffusi di tutto l'areale mediterraneo che va dalla Spagna fino alla Turchia, essendo, il nostro Jogale, il Nasreddin degli arabi, protagonista di un numero infinito di aneddoti e storielle che ormai fanno parte solo di indagini antropologiche, almeno nel sud dell'Italia. Qualche fatterello di Jogale l'avrete sentito, no? Comunque sono storie ormai improponibili, di quando le nostre contrade erano affollatissime di re, regine, briganti, principi e principessine, più Jogale e, in genere, sua madre, protagonisti di eventi a volte granguignoleschi, dove il Nostro, pur nella sua totale negligenza, imperizia, ignoranza, in un modo o nell'altro veniva a capo dei guai nei quali andava a cacciarsi.
Storielle innocenti, quelle di Jogale, di sicuro: non essendoci il televisore nelle case, bisognava pur trovare la maniera di arrivare a sera...
Tutto quello che ho detto finora ritengo che non sia punto innocente o casuale, o di origine popolare: vi è, alla base, un fine unico e ostinato, la persuasione occulta. Peccato che in questo modo, con queste convinzioni, non si possano formare popoli, ma al massimo delle greggi.
So che quello che ho detto finora andrebbe meglio inquadrato e, ad esserne capaci, spiegato.
Ma credo che qualcosa lo stesso si possa dedurre e capire. Se poi si volesse tentare un elenco di una piccola parte delle false credenze alle quali si può essere esposti...

venerdì 25 aprile 2014

§ 075 250414 Territori alecini: antiche geografie e mappe, Nicola Corcia, 1847.



Un po' di geografia, antica e all'antica: il testo di riferimento è 'Storia dellle Due Sicilie dall'antichità più remota al 1789', di Nicola Corcia, Tomo III, Napoli 1847. In esso ritroviamo, in una nota in calce, un riferimento a Giovan Francesco Pugliese, relativamente all'etimologia del nome del fiume Ilia e alla identificazione di tale corso d'acqua, le cui sponde sembra siano state teatro di una sanguinosa battaglia. Peregrinando tra corografie e antiche topografie, ci si rende conto di quanto fantasiose siano certe ricostruzioni, sia storiche, sia geografiche, e tutto questo fino a non molto tempo fa. Scorrendo le pagine di queste che definirei pagine di storia della geografia, si assiste ad un singolare fenomeno che è un po' il consolidamento di tesi, piuttosto che la spiegazione delle stesse, in un continuo risalire a fonti più o meno autorevoli,  Plinio, le Tavole Peutingeriane, gli antichi Itinerari dell'Impero Romano... Insomma, più che di fronte a testi scientifici, mi sembra di leggere una geografia romanzata, ma non per questo punto interessante o indegna di attenzioni da parte del lettore. Aggiungo che, comparando l'opera alla quale ho attinto ad altre consimili, come quella dell'abate Domenico Romanelli, della quale ho già avuto modo di parlare, la mia tesi - cioè il consolidamento e l'affermazione di una geografia romanzata - ne risulta, a mio modesto parere, adeguatamente suffragata: si tratta di acquisizioni parageografiche offerte quasi in fotocopia... ma solo 'quasi', per fortuna, giusto quel 'quasi' che serve a concedere spazi a nuove conoscenze e a cedere, col tempo, il passo all'affermarsi della geografia come strumento di indagine scientifica. 
Le carte qui riprodotte, nelle figure 1 e 2, la prima risalente a Pirro Ligorio (XVI sec.), la seconda a De Sanctis (XIX sec.), forse illustrano (è il caso di dirlo) l'avanzamento della cartografia e l'affermazione della geografia come scienza esatta, la sua 'aderenza' ai territori indagati e rappresentati in scala.
Tornando alla geografia mitica e mitizzante dei primordi (e oltre),  ardisco paragonarla un po' a quelle cronache sportive di prima dell'avvento della televisione e - in misura minore - dei cinegiornali, quando gli appassionati di calcio o altri sport si accanivano affidandosi, tanto fiduciosi quanto ignari - alle cronache dei radiocronisti o ai ritagli di giornale... 'Esse est percipi', per dirla con un titolo di J. L. Borges (per chi volesse: http://krimisa.blogspot.it/2012/11/quadernetto-di-traduzioni-2-esse-est.html )
Del resto, a geografi e cartografi a quei tempi, mancavano i mezzi, e non, di certo, le menti. 
Ad ogni modo, mi sento di precisare che nei paragrafi che seguono si possono cogliere dei buoni indizi sulla storia di Cirò, illustrati con sufficiente chiarezza, tranne certi passaggi del 17° paragrafo sui quali tutte le storie che ho potuto consultare glissano senza troppi fronzoli: mi riferisco a Cirrha e Cirro, ma di questo mi sono occupato nel commento all'opera del Pugliese che spero di poter mettere insieme.  Tornando a quest'ultimo e alla sua 'Descrizione...', devo dire, e non per partigianeria, che tutte le notizie contenute nell'opera di N. Corcia, e in tante altre, si possono rintracciare in quella dello storico cirotano. Credo che ne riparleremo.
figura 1: Italia Meridionale secondo Pirro Ligorio (XVI sec.)

Figura 2: I domìni di qua del faro (la parte continentale del Regno delle Due Sicilie), Gabriello De Sanctis, XIX sec.
Titolo
Carta Generale Dell'Italia Meridionale Contenente i Domini di qua dal Faro del Regno delle due Sicilie
Descrizione
Carta geografica dal raro "Atlante Corografico del Regno delle Due Sicilie tratto dalla Gran Carta d' Italia dedicato ad Adriano Balbi alla scala di 1/5 e corretto nella divisione amministrativa Civile Giudiziaria e Diocesana e nella indicazione delle strade rotabili di ultima costruzione" edito a Napoli nel 1856. Incisione in rame con coloritura coeva dei contorni, leggere ossidazioni della carta, per il resto in ottimo stato di conservazione.
L'Autore
Fu autore di un “Atlante Corografico del Regno delle Due Sicilie” edito a Napoli (tre edizioni tra il 1840 al 1856), con 27 magnifiche carte geografiche.
Bibliografia
I. Principe "Carte geografiche di Calabria nella raccolta Zerbi", p. 255
Fonte web: Antiquarius, Antique maps & old prints.
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                                                           ***************                                           
                                                      16. Promontorio Crimisa.

   Più oltre della foce del fiume Lipuda si protende nel mare la punta dell'Alice, il punto più orientale di tutta la costa della Calabria, in eccezione del promontorio Lacinio. E' il promontorio Crimisa degli antichi, così detto dalla città vicina dello stesso nome, e noto nelle primitive tradizioni della regione per l'arrivo della colonia condottavi da Filottete(3). A crederne un altro antico scrittore si nominò anche Cone(4), per la città omonima che dappresso vi sorgeva, e che al pari di Crimissa anche da Filottete volevasi edificata. Sorgeva su questo promontorio un tempio sacro ad Apollo Aleo, così detto probabilmente dalle supposte peregrinazioni del greco eroe innanzi che si stabilisse in questa contrada, ed al quale Licofrone dà anche raggiunto di Patareo(5), o conservatore, nel quale secondo le eroiche tradizioni Filottete consecrava l'arco e le saette ricevute da Ercole(6), che al dir di Trogo Pompeo affrettarono il fato di Troja(7). Ma nessun vestigio vedeva di sì rinomato tempio chi viaggiava per questa spiaggia, per essere o dalle mani dell'uomo distrutto, o ricoperto dalle onde(8), ed a crederne la tradizione era posto sopra un'eminenza, ove poi fu edificato un tempio cristiano(9). Il promontorio del resto è tutto ricoverto di cedri, di aranci e di alberi d'ogni sorta, che coprono forse in qualche sito le rovine del tempio antico, in guisa che nessun vestigio se ne ricorda, ma coltivandosi la terra in tutti i dintorni, ne sono venute fuori monete di Taranto, Metaponto e Petilia, ed inoltre braccialetti di bronzo, lucerne, rottami di marmo, di rozzi vasi e di terre cotte, ch'erano forse in antichi sepolcri.

N.B.: le note conservano la numerazione del testo originale.
(3) Strab. VI , p. 254.
(4) Apollodor. ap. Strab. VI, p. 254.
(5) Lycophr. Alexandr. v. 920.
(6) Orion Theb. ap. Tzetz. ad Lycophr. v. 910. — Ps. Arist. De admir. ausc.     n.103 — Cf. Etym. M. v. Αλαίος.
(7) Iustin. XX, 1.
(8) Swimburne, Travels t.I, p. 310.
(9) Saint-Non, Voyage pitt. t.III, p.90. 
Figura 3: Istituto Geografico Militare, Carta delle Provincie Continentali dell'ex Regno di Napoli.
 
                                                         17. Crimisa, o Crimissa.

   Alla distanza di poco più di 3 miglia antiche del descritto promontorio e dentro terra sorger doveva la città di Crimisa o Crimissa che Stefano Bizantino sull'autorità di Licofrone nomina città d'Italia, e che situava presso Crotone e Turio, essendo stata in fatti tra queste due città, dalle quali era del resto più miglia lontana(1). A crederne Licofrone, il quale ricordavala come piccola città dell'Enotria, prese nome da una Ninfa omonima(2), od anzi dalla sorgente del fiume che scorre presso l'anzidetto capo, e che anche Crimisa fu denominato innanzi che il nome d'Ilia gl'imponesse la colonia trojana. Ma Strabone, o piuttosto Apollodoro, dal quale il geografo attingevane la tradizione, ne fece fondatore Filottete(3), o a meglio dire la greca colonia che dalla città di Melibea giungeva su questa spiaggia. Se vera è del resto la leggenda di una medaglia, col tipo di Ercole con la clava da un lato e l'epigrafe KPIMIΣA, e dall'altra la leggenda KPO(4), ci mostrerebbe l'importanza della città e la sua alleanza insieme con la vicina Crotone. Né altro se ne sa, se non che, a crederne gli scrittori calabresi, mutò ne' tempi romani l'antico nome in quello di Paternum, stazione segnata nell'Itinerario di Antonino a XXVII miglia da Rossano(5), e che dalla sue rovine sorse l'odierna Cirò, detta anche Cirrha e Cirro(6), denominazioni difficili a spiegare, se creder non si vogliono egualmente antiche. Il perché, riputando Paterno diversa affatto da Cirrha, perché le rovine della prima sono distanti dall'odierna Cirò, è da supporre che l'antica Crimissa al sopravvivere di una colonia di Focesi mutasse il nome in quello di Cirrha, che ricordava la prima città della Focide ne'confini de' Locresi Ozoli(7). Egli sembra del resto che Paterno prendesse il nome dall'aggiunto di Patareo che davasi ad Apollo adorato nel prossimo promontorio. Nel luogo detto Terra Vecchia all'oriente di Cariati sono i piccoli avanzi di Paterno(8); ma s'ingannano, io credo, gli scrittori Calabresi, che questa città credono la sede vescovile detta anche Tempsana e che ammetter vogliono un'altra Tempsa sul Jonio(9), quando che ad una sola si riferiscono le testimonianze della Tavola Peutingerana(10), e se il vescovo di Tempsa intitolavasi anche Paternense, prendeva il titolo dall'altro Paterno presso Dipignano e Tessano al di là di Cosenza.

(1) Steph. Byz. v. Kρίμιςα. 
(2) Lycophr. Alexandr. v. 912 sg. 
(3) Strab. VI, p. 254.
(4) Pirro Ligorio ap. Holsten. Adnot. in Steph. Byz. p. 174. 
(5) Itin. Antonin. §. XXX.
(6) Barri, Op. cit. col. 307.— Cf. Quattrimani et Acet. ibid.
(7) Pausan. X, 37, 4.— Plin. IV, 4,1.
(8) Swimburne, Travels t.I , p. 309.
(9) Aceti in Barr. Ibid.
(10) Vedi p. 133. 
Figura 4: Carta Forestale; Cirò, foglio 231, Istituto Geografico Militare.
                                          18. Fiume Ilia (Υλία πόταμος, Hylia amnis).

   Dalla punta dell'Alice a quella che prende il nome dal fiume Fiuminicà il lido descrive un semicircolo, al cui termine orientale sbocca nel mare il detto fiume, il quale col promontorio e la città vicina ebbe comune il nome di Crimisa (1). Ma Ilia fu detto ne' tempi successivi, e fermò come si è già detto, il confine tra la Crotonitide e la Sibaritide, perché alla sponda di esso i legati spediti da Crotone impedivano gli Ateniesi d'innoltrarsi nel loro territorio, quando movevano coll'esercito contro Siracusa; né per altro fatto della nostra antica storia è memorabile, se non perché gli Ateniesi andarono poscia a situare i loro alloggiamenti alla sua foce(2). Ma dal suo nome si congettura che vi si stabilisse una colonia trojana, la quale vi ripeteva il nome del fiume sulla foce del lago Ascanio(3). Essendo non pochi fiumi fra il promontorio Crimisa ed il Crati, a quali di questi l'Ilia corrispondesse non si può con certezza determinare. Senza dire dell'erronea opinione di alcuni topografi, i quali lo confusero col Trionto(4), che corrisponde al Traento degli antichi, il Cluverio lo riconobbe nell'Acquanile, che bagna il territorio di Cariati all'oriente, alla distanza di tre miglia(5). Altri sostengono ancora che fosse il Calonato, il quale a poche miglia dal Crati scorre nel mezzo del territorio di Rossano (6); ma questa opinione più ricevuta è contraddetta da un altro scrittor calabrese meglio informato de' luoghi, il quale osservando che la Sibaritide, non poteva al mezzodì essere così ristretta da avere per confine il detto fiume, lo riconosce nel Fiuminicà, il quale scorre tra Cracoli* e Cariati(7) e dà il nome alla prossima punta, alla cui sinistra mette foce, tra gli altri piccoli fiumi dell'Arso e di S. Venere.

(1) Steph. Byz. v. Kρίμιςα.
(2) Thucyd. VII, 35.
(3) Ruckert, Troja's Ursprung p. 265.
(4) Barr. Op. cit. p. 276,357. — Marafioti, Op. cit. p. 199, 298.
(5) Cluver. Ital. antiq. p. 1314, 20. — Cf. Swimburne, Travels cit. t.I, p. 309.
(6) Adnot. Thucyd. l. c. — Romanelli, Op. cit. t.I, p. 221-222.
(7) Pugliese, Il fiume Hylia ecc. nel GIORNALE IL CALABRESE, Anno II, n. 3. — Se è da ritenere che il Fiuminicà derivò il nome da una guasta denominazione antica, anziché da flumen necis, come il citato scrittore ha conghietturato, per qualche sanguinosa battaglia data alle sue sponde, fu detto piuttosto con ibrida appellazione dal latino flumen e dal greco νίχγ, ossia Fiume della vittoria, e da quella probabilmente che i Crotoniati ottennero su' Sibariti, la quale combattuta forse ne' piani di Cariati tra i fiumi Trionto e Fiumenicà, Giamblico (vit. Pythag. c. XXXV) dice avvenuta alla sponda del Traenta, il quale scorre nella parte opposta.
* Così nel testo; del resto è frequente rinvenire anche un'altra forma errata, 'Strangoli' in luogo di 'Strongoli'.
Figura 5: Carta tratta dall'ATLANTE GEOGRAFICO DEL REGNO DI NAPOLI DELINEATO PER ORDINE DI FERDINANDO IV RE DELLE DUE SICILE E C. E C. DA GIO' ANTONIO RIZZI ZANNONI GEOGRAFO DI SUA MAESTA' E TERMINATO NEL 1808 -TAVOLA 27. (Fonte web: Istituto Geografico Militare).

martedì 22 aprile 2014

§ 074 220414 CIRO': EPISODIO DI INAUDITA GIUSTIZIA, G.F. Pugliese.

CIRO’: GIRO DI VITE CONTRO LA MALAVITA… E ANCHE CONTRO LA GIUSTIZIA.
   Dalle cronache del Nostro, rileviamo un episodio di inaudita ferocia, che rinvia al mito, tragico quanti altri mai, che vede tra i protagonisti il re Atreo, padre di Agamennone e Menelao, e Tieste, suo fratello nonché complice nell’assassinio del fratellastro Crisippo. Atreo era quel re di Micene che per vendicare l’adulterio perpetrato ai suoi danni dal fratello Tieste, gli fece mangiare i tre figli da quest’ultimo avuti con una ninfa, con tanto di susseguenti incesti e omicidi vari: veramente una tragedia greca! Stando alle cronache, qualcosa di simile, quanto a ferocia, accadde anche a Cirò, ed il Pugliese non manca di cogliere e sottolineare il nesso tra i due nefandi accadimenti.
   Come si può vedere, almeno per certi versi, i tempi cambiano poco o nulla: bisogno di sicurezza, di assicurazione dei violenti alla giustizia… ma quando ad amministrare la giustizia, anzi a proclamarsi tutore dell’ordine, è un personaggio a sua volta violento, viene da domandarsi ‘quis custodiet custodes ipsos?’ E già... leggete e, se anche a voi verrà da porvi questa domanda, provate a rispondervi.
Il ‘mastrodatti’, o ‘mastro d’atti’, era un funzionario, dapprima preposto alla redazione e conservazione degli atti, che successivamente assunse anche funzioni di giudice supplente, si trattava, insomma, di un modesto - onesto non saprei dire - funzionario statale.
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Cirò, sul finire del secolo decimo settimo.
Dall’inviato, Signor Giovan Francesco Pugliese.
   ‘’Lo zelo de’ subordinati per esperienza supera sia nel bene che nel male quello de’ Principali committenti. Ed io tra innumeri fatti che la tradizione orale ha tramandato fino a’ presenti, ne reco soli due che trovo notati (dell’altro ne parleremo in un altro scritto, ndr).
   1. Circa la fine del decimosettimo secolo venne in Cirò un D. Ferrante de’ conti di Bovalino esule da’ suoi Stati. Stato chiamavasi un feudo: si diceva congiunto della famiglia Spinelli, che lo costituì Vicario generale. Costui senza impacciarsi delle minute cure di amministrazione che lasciò affidate all’Agente ed all’Erario, non volle abitare neppure al castello, ma si ritirò ad un quarto del convento di S. Francesco d’Assisi, quello che guarda mezzogiorno, e che prese la distinzione di quarto di D. Ferrante, come tutt’ora si nomina benché interamente diruto. Divenne eccessivamente rigoroso contro i ladri, ed eccessivamente orgoglioso di sua superiorità. Non tollerava neppure i modici furti di frutta, o di ordegni rurali. Il bifolco non doveva incaricarsi di togliere ogni sera dall’aratro il vomere, le corde, ed altri attrezzi per lavorar la terra e ritirarli in casa, come si fa per non esser rubati, ma doveva lasciarli sul luogo: guai a chi si appropriasse di benché minima cosa: aveva una polizia così vigile che di tutto veniva informato, ed il ladro irremissibilmente doveva soffrire la frusta, e la gogna, e secondo i casi ed il valore delle cose rubate, lunga e penosa carcere. Chiunque si ritirava la sera con panieri di frutta, con sacchetti di ulivi ec. ec. e non dimostrava da chi li avesse avuti, carcere e battiture; né vi era mezzo di deludere la di lui vigilanza. Egli tutto appurava, e tutto irremissibilmente puniva. E la fama che ancor ne risuona non lo accusa, di aver mai in ciò traveduto, e scambiato l'innocente pel reo; anzi ora che i danni ed i furti contro la proprietà, e contro le raccolte de’ campi sono senza alcun freno si esclama: oh D. Ferrante!
   Amico degli estremi esigeva estremo rispetto pella sua giurisdizione. Se veniva un subalterno della Regia Udienza Provinciale doveva prima presentargli, mostrargli le commesse ed impetrare la venia di poter procedere; negandola doveva immantinenti ritirarsi. Così per ogni altro incaricato civile o militare. Venuto un Mastro d’atti per informazioni criminali non curò tanto praticare, e pose mano a’ suoi disimpegni: D. Ferrante dissimulò per qualche giorno, e nel primo dì festivo lo mandò invitando (*) a pranzo. Vi andò coi suoi pochi birri, i quali si trattennero nel Chiostro, mentre il mastro d’atti salito al quarto di D. Ferrante venne afferrato da’ di costui sgherri che calatolo nel sotterraneo gli recisero la testa, e la posero a cuocere nel forno a posta preparato. Fattosi mezzo giorno s’imbandi la mensa a’ birri, ma fu la mensa di Atreo, poiché fece presentare a tavola la testa arrostita del loro Mastro d’atti: inorridirono, e levatisi scapparono recando a Cosenza la nuova dell’accaduto.’’
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Fin qui il Pugliese; probabilmente la storia, madre di tutti gli insegnamenti, anche questo ci dice: che prima di affermare tra i sospiri qualcosa come ‘ah, quando c’era lui!...’ bisognerebbe prima riflettere, e bene, anche…
(*) Mi piace notare questa costruzione sintattica tipicamente cirotana, sul tipo di 'mannàre chjamànnu', mandare a chiamare.
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Collegamenti interni:
http://originicirotane.blogspot.it/2014/02/incredibile-episodio-ciro-dalle-stelle.html
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