sommario dei post

venerdì 11 aprile 2014

§ 071 110414 Un poeta calabrese-argentino: José Anania "Portogalo" di V. Manfredi




   'Calabria Letteraria', rivista prima mensile e poi trimestrale, fondata nel 1952 da Emilio Frangella, ha rappresentato un ottimo mezzo di diffusione della cultura calabrese. Dal numero 1-2-3 del 1990 (anno 38°), ho appreso della vita e dell'opera di un poeta originario di Savelli, Giuseppe Anania. La vita di questo uomo e poeta ha dei tratti tanto incredibili al giorno d'oggi, quanto possibili ad inizio novecento. Una esistenza in linea con quelle così frequenti nell'opera di un altro scrittore e giornalista argentino, Roberto Arlt, anch'egli sconosciuto o quasi in Italia. Il tema dell'emigrazione mi ha sempre attratto, e non ho mai accettato la diaspora che ha colpito, quasi come una ineffabile e inevitabile condanna divina, gran parte del meridione d'Italia, e, a ben guardare, l'Italia intera e tante altre regioni del mondo. Giuseppe Anania non è un poeta italo-argentino, ma un poeta tra i più argentini possibile, nativo della provincia di Catanzaro... inutile cercare di riportare alla casa madre ciò che quella 'casa' non ha ritenuto di dovere o poter trattenere. Che poi si siano formate, all'estero, altre Italie, più o meno piccole, è materia diversa, e meritevole di altri approcci sociologici, demologici, antropologici. L'autore dell'articolo si domanda come mai il poeta Anania mutò il nome in Portogalo... il motivo è più che semplice ed umanissimo al contempo: la madre del piccolo emigrante, donna Domenica Gualtieri - 'doña', secondo la forma di rispetto sudamericana - si condusse in Argentina alla ricerca del proprio marito e padre del bimbo; lo sposo, ritrovato, nel frattempo si era  rifatto una vita e una famiglia con un'altra donna: fine della storia, ed inizio di una vita fatta di lavoro come lavandaia, e con un altro uomo, di cognome Portogalo, ovviamente, che si prese cura del piccolo Giuseppe, il futuro poeta cresciuto in strada e vissuto sbarcando il lunario grazie ai lavori più disparati, fino a diventare ballerino e insegnante professionista di tango... L'assunzione del cognome Portogalo è, quindi, un omaggio del poeta al suo buon padrastro, patrigno. Ma da quanto ho appreso la vita di José è costellata di una infinità di episodi romanzeschi, dei quali magari riparleremo quando avrò tradotto qualche sua lirica. Del resto, mi sembra che, in italiano e in Italia, non esista nulla o quasi di questo altro 'sbenturatu' che sembrava destinato alla rovina nei suburbi di Baires, ed invece ha saputo optare per la poesia e la crescita culturale... ed un plauso, per questo solo fatto, il calabrese Anania lo merita tutto, al pari dell'argentino Portogalo.
Materiali interessanti, in lingua spagnola, si possono consultare a questi due meritevolissimi links argentini, facenti capo a 'El Buque de Papel' e a 'Escribirte', ai quali va il mio ringraziamento:

http://buquedepapel.com/cronicas/1525-jose-portogalo
http://editorialhylas.escribirte.com.ar/5584/jose-portogalo.htm
     Un poeta calabrese-argentino: José Anania "Portogalo"
                                          di Vincenzo Manfredi


   Nel 1909 un bambino di cinque anni partiva con la famiglia per l'Argentina e lasciava la Calabria per sempre. Si chiamava Giuseppe Ananìa. Da un piccolo paese a misura d'uomo fu catapultato nei grandi sobborghi popolari di Buenos Aires, dove proverà subito «i taglienti sapori dei frutti ama­ri», e dove presto «inacidì la voce be­stemmiando come gli italiani nei mer­cati». Alcune decine di anni dopo, il pic­colo Peppe diventerà — con lo pseudo­nimo di José  — oltre che un noto poeta, anche un affermato gior­nalista della «Tribuna» e di «Clarín». Conseguì il suo primo riconoscimento, il «Premio Municipal de Poesía» col libro Tumulto (1935), anche se dovette subi­to scappare, per qualche tempo, in Uruguay per i suoi versi troppo «socia­li» e «ribelli». Un altro premio prestigio­so, che coronò l'attività di tutta una vi­ta, lo conseguì tre anni prima della morte da parte della «Fundación Ar­gentina para la Poesía». Poco prima, nel 1968, il «Centro Editor de America Lati­na» aveva pubblicato una snella antolo­gia dei «poemas» di Portogalo (una spe­cie di «Oscar» Mondadori) col titolo Los Pájaros ciegos y otros poemas («I passe­ri ciechi ed altri poemi»). Morì nel 1973.
Lo scrittore affermato José Portogalo non si dimenticò mai di essere na­to Giuseppe Anania, né dei formicai umani dove aveva dovuto trascorrere i primi anni: «(...) allí donde creció mi in­fancia / y gané los primeros coscorro­nes y los primeros centavos / y paladié el sabor de las primeras palabras sucias que no mancharon mi alma» (lì dove passai la mia infanzia/ e guadagnai i primi pugni ed i primi centesimi e sentii il sapore delle prime parole sporche che non macchiarono l'anima mia)1. Il piccolo Peppe aveva certo viaggiato con la famiglia nella terza classe, nel ventre di un vapore sovraccarico dicarne umana, non nella prima classe a fianco del conte filologo De Gubernatis o del buon De Amicis o, peggio, del nazionali­sta on. Macola che, tenendosi discosto dal luridume della 3a classe, asseriva: «Noi esportiamo il peggio»2. Tali viag­giatori erano in possesso del biglietto di andata e ritorno. I piccoli Peppe Ana­nia calabresi avevano solo quello di an­data, ottenuto dopo la vendita della casa; forse solo D.F. Sarmiento sarebbe stato capace di descrivere lo sguardo perso ed errante del piccolo emigrante che arrivava dopo più di dieci giorni di viaggio. Il futuro poeta italo-argentino, nel 1939, farà dire ad una povera «por­diosera» (mendicante): «Non conosco l'allegria / né fui mai alla scuola. / Mai sporcai un vestito nuovo / né sentii la voce della nonna / narrante le favole d'inverno /... / Per madre ebbi la strada / e per madrina la pena».

Il piccolo bambino calabrese sarà certo arrivato nei cadenti «conventil­los» dove il sole raramente splendeva né si rifletteva sul povero «patio» su cui confluivano decine di stanze, una per famiglia, dove i «gringos» italiani, i vari Antonio Cocoliche3, erano costretti ad amarsi ed odiarsi, derisi come «pappoletani» dal gaucho «Martín Fierro»4, poi aborriti e calunniati dagli Evaristi Car­riego e nemmeno presi sul serio dagli spocchiosi Borges e Scalabrini Ortiz5. In tali suburbi brulicanti il piccolo Peppe non dimenticò mai di aver lasciato «un cielo d'oro alle spalle / ed un uccello ne­gli occhi». Solo uno psicanalista, o chi l'abbia esperimentato sulla propria pel­le, potrebbe dimostrare che anche un bambino di 5 anni possa, dopo tanti an­ni in America, ricordare ancora la sua Calabria («Odori di umida zolla, di pini e di meli / aromano i miei ricordi»); che possano ancora, nella testolina, rima­nere impresse le «imágenes en el re­cuerdo» («la Chiesa-cupolina di mandor­le», le donne vendemmiatrici che depo­nevano il bimbo «nei freschi angoli delle vigne» ecc.).
Se si parte a cinque anni, possono veramente essere ancora limpidi i ri­cordi di colui che le vicende della vita faranno crescere in fretta? i ricordi di quella che Portogalo chiama «Infanzia ignorata», «affrettata»? La porta dell'emigrazione non è né luminosa né calda. È solo ampia. Quanti figli di poveri emi­granti ventenni, con in mano, come unica fortuna, un misero bagaglio, diventeranno «ubriachi, ladri, assassi­ni»6? Il piccolo Giuseppe Anania non di­ventò né ladro né assassino, anche se spesso visiterà le rumorose taverne, come Carl Sandburg. Anche se cambierà il suo nome in J. Portogalo. Chissà perché! Un atto di riconoscenza per un uomo «bracciante-muratore-pittore» che  avrà aiutato la sua famiglia a combattere la miseria? Forse. Ma anche il piccolo Peppe, diventato José, dovrà portare i mattoni rossi e fare l'aiutante muratore, il «pittore», il lustrascarpe, il giornalaio, il portinaio di una scuola e perfino si improvviserà professore di «tango» in una «Scuola di ballo». Per sbarcare il lunario!
E, fra un mestiere e l'altro, divorerà decine di libri, specie di poesia, come tutti gli autodidatti del mondo. E si in­namorerà — dopo I vagabondaggi not­turni e scapigliati degli artisti maledet­ti — di quei poeti e scrittori che, come lui, avevano vissuto un'infanzia di mise­ria ed una giovinezza di travagli: Walt Whitman (l'ex aiutante carpentiere, infermiere, apprendista tipografo) che gli donò, con le sue «Leaves of Grass», le grandi tessiture strofiche delle odi, simili alle distese marine ed ai con­glomerati urbani; Carl Sandburg (lo sguattero, Il contadino, il mercena­rio), cantore della «Chicago ventosa, macellaia del mondo»; César Vallejo (il meticcio peruviano tormentato che assaporò anche la prigione e l'esilio) che colpisce con la sua, mai persa, ansia di immedesi-mazione con le classi ed I popoli oppressi, Langston Hughes, il negro di Harlem, con I suoi dolorosi «Blues».
Ma lasceranno tracce, sul giovane divoratore di libri (che certo non si sa­rebbe mai aspettato di finire nei ma­nuali di «Poesía Argentina del Signo XX», per es., di J. Carlos Ghiano), anche il cileno Pablo Neruda con la sua tensio­ne metafisica, l'epicità e la liricità tor­renziali, forse con qualche piega di en­fasi, ma sempre genuino come il vino dei paesi latini; ed inoltre García Lorca che, con le sue «canciones» ed i suol «poemas» fu certo il tramite — insieme con le «Soledades» e le «Poesías» di Ma­chado — per la conoscenza in Sud Ame­rica delle linee stilistiche dell'Avanguardla europea e dei valori di morte-silenzio-amore-destino-tragedia, oltre che dei valori di paesaggio-terra-natura (la «Centinela de sangre» di Portogalo è del 1937, un anno dopo la morte di Lorca). Nel mondo poetico di Portogalo non manche-ranno, oltre agli eredi di Baudelaire, almeno due russi: il Gorky dei «Bassifondi» e certamente Majakovskij, provocatore, ribelle, scandaloso; in «Tumulto» (libro che nel 1935 fece tanto arrabbiare il sindaco conservatore di Buenos Aires) Portogalo ci offre dei versi densi di squillanti oggetti pit­torici; anche lui prova pena per «gli uo­mini ai margini» e sente la necessità fi­siologica della sovversione (in «este mundo de mierda», nella sua «ciudad», quella «de las grandes riquezas y las grandes miserias» dove il povero «alba­ñil» Pasquale muore cadendo dal setti­mo piano facendo soltanto torcere «el culo a los snobs» perché, In fondo, «el nombre Pascual no es poético (...), le fal­ta musicalidad»). Portogalo è spes­so rabbiosamente concreto e realisti­co come Brecht, ma è anche aereo e dolce, pieno di angosce e di estasi paniche. Gli piaceva tanto essere chia­mato «poeta-lavoratore»; dirà, è ve­ro, a Carl Sandburg: «Come mi piace­rebbe essere vissuto nel tuo tempo / con le tue mani pesanti, ruvide, violen­te / perché con esse hai fatto tutti i me­stieri — come me — ed hai scritto poe­mi». È vero, ma lo stesso Portogalo sarà pure capace di tenere dolcemente e goffamente in mano una margherita (così, in una stupenda «vignetta» di «Clarín» del 17-4-1988); di inseguire la bellezza e di creare la luce. Quest'uomo-bambino, affabile e rude, brutto e bellissimo, ricorda nel suoi caldi versi a noi italiani (digiuni di poesia sudameri­cana e imbottiti di canzonette anglo-americane) le estive solarità di Gabriele d'Annunzio ed i tremori cosmici di Pa­scoli.
Una volta Portogalo si chiese che «forma» avrebbe assunto la sua morte: «Che forma avrà la morte mia?/ Acqua, vento, fiamma, fiore I o semplicemen­te un tremore / della celeste armo­nia?». Chissà! Il poeta si trasformerà nel «suono di un fiume» scorrente, palpite­rà «nel volo di un'ala», oppure silenzio­so sdrucciolerà «nelle gocciole della ru­giada». È forse questa l'Eternità? In ciò consiste il Divino? Per ora il poeta sa sol­tanto che anche «nella cenere» avviene «il prodigio della rosa». L'anima di Portogalo è pervasa da ineffabili rapimen­ti; come Francesco di Assisi, se la sente, l'anima, «piena di uccelli che cantano»; «dal suo petto spuntano dolci colom­be». È vero, nel lontano 1935 voleva con Sandburg rabbiosamente «confic­care negli orli» delle donne «dalle paro­le dure» tutta la propria «solitudine» per «popolarla d'immagini», ma molti anni dopo griderà: «Dàmmi l'oro del giorno ed il chiarore del pioppi!»; e ri­corderà con dolcezza: «Avevo un buon vicino: Il Sole che al miei fianchi/(...) per­correva i prati / e dopo in una raffica rinfrescava i meleti / i frumenti, i vigne­ti/ e il fiore del pesco».
Dante, dopo il fosco dell’lnferno, in­seguì i chiarori del Paradiso; il rabbioso José dei rioni miseri e bui diventerà il «poeta della luce». Forse per questo lo amò l'amico César Tiempo, «el poeta de la judería». Poeta della luce lo definì l'amico poeta Tuñon alla vigilia della morte, anche perché luce non c'era mai stata nei formicai umani metropo­litani. Le sue parole emblematiche so­no, dice Tuñon, «aurora, sole, rugiada, crepuscolo, tramonto, albeggio»; «i luo­ghi poveri, brutti» «li riempì con la lumi­nosità del suo spirito». Non per nulla un suo poema si chiamò «Luz Liberada» (1947). Non per nulla, aggiungiamo noi, il piccolo Giuseppe  Anania era vissuto sino all'età di cinque anni a Savelli In Ca­labria, sotto l'azzurro cobalto del cielo del Sud (che è bello, perché è sempre bello), tra il verde smeraldo vellutato della Sila, tra le montagne a picco piene di riverberi solari.

NOTE
1 Dal «Poema a Carl Sandburg», in Tumulto, 1935, p. 35. D'ora in poi non citeremo, per non appesantire la lettura, né i titoli delle poesie né i volumi da cui son tratti I versi sparsi qua e là nell'articolo. La traduzione dallo spagnolo è, ol­tre che del redattore, del Signor Serafino Gre­co, che ringraziamo assieme a Francisco Manfredi e Salvatore Astorino per i materiali.
2 A. De Gubernatis è autore di L'Argentina. Ri­cordi e letture, 1898. Anche Sull'Oceano (1889) di De Amicis riguarda un viaggio in Argentina. Vedi anche F. Macola, L'Europa alla conquista dell'America latina 1894. Dalla retorica di que­sti ed altri testi di viaggio si salva forse solo L. Barzini, 'Argentina vista com'è, 1902. Vedi sul­l'argomento l'ottimo V. Blengino, Oltre l'Ocea­no, Roma, Ed. Associate, 1987.
3  Da un povero manovale calabrese ha ori­gine il termine «cocoliche», usato per indicare la lingua dell'emigrante italiano, un «pastiche» di calabrese, italiano, spagnolo e guachesco.
4  È il personaggio principale che dà il titolo al famoso poema di José Hernández, dell'800. 
5  I tre sono noti scrittori argentini... non tanto teneri con gli italo-argentini. 
6  Vedi l'argentino «Clarín» del 17-4-1988, p. 20, In cui il riferimento agli emigrati è tratto dal poema «I buoi» (Los Bueyes) di Carlos de la Pùa; l'ottimo articolo di «Clarin» è di Oche Califa, il quale però fa erroneamente nascere Portoga­lo «en el 1900»,.. «año porteño»! Nei Registri dell'Anagrafe dì Savelli (Atti di nascita n. 109) Ana­nia Giuseppe risulta nato invece il 10 ottobre 1904: non vi è ancora... l'annotazione della morte (7-9-1973).
BIBLIOGRAFIA
    Tregua, Buenos Aires, 1933.
Tumulto, ibidem, 1935 (ottenne il «Pre­mio Municipal»),Centinela de sangre, 1937.
Canción para ed día sin miedo, Buenos Aires, 1939.
Destino del canto, ibidem, 1942.
    Luz liberada, Montevideo, 1947.
    Mundo del acordeón, Buenos Aires, 1949. 
    Perduración de la fàbula, ibidem, 1952. 
    Poemas con habitantes, ibidem, 1955.
    Poemas (1935-1955), B. Aires (D'Accurzio impresor, di Mendoza), 1961. In tale antologia manca solo, del tut­to, Tumulto, del 1935 (frutto di au­tocensura o censura?); in tale anto­logia è anche un saggio introdutti­vo di Luis Emilio Soto.
    Sal de la tierra, 1949 (Cuaderno fuera de comercio).
Ana Teresa Fabani en la poesía, 1951 (Conferencia).
Letra para Juan Tango, 1958.
    Los Pájaros ciegos y otros poemas, B. Ai­res, 1968 (una snella Antologia di 93 pagine).

Nessun commento:

Posta un commento