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venerdì 11 aprile 2014

§ 071 110414 Un poeta calabrese-argentino: José Anania "Portogalo" di V. Manfredi




   'Calabria Letteraria', rivista prima mensile e poi trimestrale, fondata nel 1952 da Emilio Frangella, ha rappresentato un ottimo mezzo di diffusione della cultura calabrese. Dal numero 1-2-3 del 1990 (anno 38°), ho appreso della vita e dell'opera di un poeta originario di Savelli, Giuseppe Anania. La vita di questo uomo e poeta ha dei tratti tanto incredibili al giorno d'oggi, quanto possibili ad inizio novecento. Una esistenza in linea con quelle così frequenti nell'opera di un altro scrittore e giornalista argentino, Roberto Arlt, anch'egli sconosciuto o quasi in Italia. Il tema dell'emigrazione mi ha sempre attratto, e non ho mai accettato la diaspora che ha colpito, quasi come una ineffabile e inevitabile condanna divina, gran parte del meridione d'Italia, e, a ben guardare, l'Italia intera e tante altre regioni del mondo. Giuseppe Anania non è un poeta italo-argentino, ma un poeta tra i più argentini possibile, nativo della provincia di Catanzaro... inutile cercare di riportare alla casa madre ciò che quella 'casa' non ha ritenuto di dovere o poter trattenere. Che poi si siano formate, all'estero, altre Italie, più o meno piccole, è materia diversa, e meritevole di altri approcci sociologici, demologici, antropologici. L'autore dell'articolo si domanda come mai il poeta Anania mutò il nome in Portogalo... il motivo è più che semplice ed umanissimo al contempo: la madre del piccolo emigrante, donna Domenica Gualtieri - 'doña', secondo la forma di rispetto sudamericana - si condusse in Argentina alla ricerca del proprio marito e padre del bimbo; lo sposo, ritrovato, nel frattempo si era  rifatto una vita e una famiglia con un'altra donna: fine della storia, ed inizio di una vita fatta di lavoro come lavandaia, e con un altro uomo, di cognome Portogalo, ovviamente, che si prese cura del piccolo Giuseppe, il futuro poeta cresciuto in strada e vissuto sbarcando il lunario grazie ai lavori più disparati, fino a diventare ballerino e insegnante professionista di tango... L'assunzione del cognome Portogalo è, quindi, un omaggio del poeta al suo buon padrastro, patrigno. Ma da quanto ho appreso la vita di José è costellata di una infinità di episodi romanzeschi, dei quali magari riparleremo quando avrò tradotto qualche sua lirica. Del resto, mi sembra che, in italiano e in Italia, non esista nulla o quasi di questo altro 'sbenturatu' che sembrava destinato alla rovina nei suburbi di Baires, ed invece ha saputo optare per la poesia e la crescita culturale... ed un plauso, per questo solo fatto, il calabrese Anania lo merita tutto, al pari dell'argentino Portogalo.
Materiali interessanti, in lingua spagnola, si possono consultare a questi due meritevolissimi links argentini, facenti capo a 'El Buque de Papel' e a 'Escribirte', ai quali va il mio ringraziamento:

http://buquedepapel.com/cronicas/1525-jose-portogalo
http://editorialhylas.escribirte.com.ar/5584/jose-portogalo.htm
     Un poeta calabrese-argentino: José Anania "Portogalo"
                                          di Vincenzo Manfredi


   Nel 1909 un bambino di cinque anni partiva con la famiglia per l'Argentina e lasciava la Calabria per sempre. Si chiamava Giuseppe Ananìa. Da un piccolo paese a misura d'uomo fu catapultato nei grandi sobborghi popolari di Buenos Aires, dove proverà subito «i taglienti sapori dei frutti ama­ri», e dove presto «inacidì la voce be­stemmiando come gli italiani nei mer­cati». Alcune decine di anni dopo, il pic­colo Peppe diventerà — con lo pseudo­nimo di José  — oltre che un noto poeta, anche un affermato gior­nalista della «Tribuna» e di «Clarín». Conseguì il suo primo riconoscimento, il «Premio Municipal de Poesía» col libro Tumulto (1935), anche se dovette subi­to scappare, per qualche tempo, in Uruguay per i suoi versi troppo «socia­li» e «ribelli». Un altro premio prestigio­so, che coronò l'attività di tutta una vi­ta, lo conseguì tre anni prima della morte da parte della «Fundación Ar­gentina para la Poesía». Poco prima, nel 1968, il «Centro Editor de America Lati­na» aveva pubblicato una snella antolo­gia dei «poemas» di Portogalo (una spe­cie di «Oscar» Mondadori) col titolo Los Pájaros ciegos y otros poemas («I passe­ri ciechi ed altri poemi»). Morì nel 1973.
Lo scrittore affermato José Portogalo non si dimenticò mai di essere na­to Giuseppe Anania, né dei formicai umani dove aveva dovuto trascorrere i primi anni: «(...) allí donde creció mi in­fancia / y gané los primeros coscorro­nes y los primeros centavos / y paladié el sabor de las primeras palabras sucias que no mancharon mi alma» (lì dove passai la mia infanzia/ e guadagnai i primi pugni ed i primi centesimi e sentii il sapore delle prime parole sporche che non macchiarono l'anima mia)1. Il piccolo Peppe aveva certo viaggiato con la famiglia nella terza classe, nel ventre di un vapore sovraccarico dicarne umana, non nella prima classe a fianco del conte filologo De Gubernatis o del buon De Amicis o, peggio, del nazionali­sta on. Macola che, tenendosi discosto dal luridume della 3a classe, asseriva: «Noi esportiamo il peggio»2. Tali viag­giatori erano in possesso del biglietto di andata e ritorno. I piccoli Peppe Ana­nia calabresi avevano solo quello di an­data, ottenuto dopo la vendita della casa; forse solo D.F. Sarmiento sarebbe stato capace di descrivere lo sguardo perso ed errante del piccolo emigrante che arrivava dopo più di dieci giorni di viaggio. Il futuro poeta italo-argentino, nel 1939, farà dire ad una povera «por­diosera» (mendicante): «Non conosco l'allegria / né fui mai alla scuola. / Mai sporcai un vestito nuovo / né sentii la voce della nonna / narrante le favole d'inverno /... / Per madre ebbi la strada / e per madrina la pena».

Il piccolo bambino calabrese sarà certo arrivato nei cadenti «conventil­los» dove il sole raramente splendeva né si rifletteva sul povero «patio» su cui confluivano decine di stanze, una per famiglia, dove i «gringos» italiani, i vari Antonio Cocoliche3, erano costretti ad amarsi ed odiarsi, derisi come «pappoletani» dal gaucho «Martín Fierro»4, poi aborriti e calunniati dagli Evaristi Car­riego e nemmeno presi sul serio dagli spocchiosi Borges e Scalabrini Ortiz5. In tali suburbi brulicanti il piccolo Peppe non dimenticò mai di aver lasciato «un cielo d'oro alle spalle / ed un uccello ne­gli occhi». Solo uno psicanalista, o chi l'abbia esperimentato sulla propria pel­le, potrebbe dimostrare che anche un bambino di 5 anni possa, dopo tanti an­ni in America, ricordare ancora la sua Calabria («Odori di umida zolla, di pini e di meli / aromano i miei ricordi»); che possano ancora, nella testolina, rima­nere impresse le «imágenes en el re­cuerdo» («la Chiesa-cupolina di mandor­le», le donne vendemmiatrici che depo­nevano il bimbo «nei freschi angoli delle vigne» ecc.).
Se si parte a cinque anni, possono veramente essere ancora limpidi i ri­cordi di colui che le vicende della vita faranno crescere in fretta? i ricordi di quella che Portogalo chiama «Infanzia ignorata», «affrettata»? La porta dell'emigrazione non è né luminosa né calda. È solo ampia. Quanti figli di poveri emi­granti ventenni, con in mano, come unica fortuna, un misero bagaglio, diventeranno «ubriachi, ladri, assassi­ni»6? Il piccolo Giuseppe Anania non di­ventò né ladro né assassino, anche se spesso visiterà le rumorose taverne, come Carl Sandburg. Anche se cambierà il suo nome in J. Portogalo. Chissà perché! Un atto di riconoscenza per un uomo «bracciante-muratore-pittore» che  avrà aiutato la sua famiglia a combattere la miseria? Forse. Ma anche il piccolo Peppe, diventato José, dovrà portare i mattoni rossi e fare l'aiutante muratore, il «pittore», il lustrascarpe, il giornalaio, il portinaio di una scuola e perfino si improvviserà professore di «tango» in una «Scuola di ballo». Per sbarcare il lunario!
E, fra un mestiere e l'altro, divorerà decine di libri, specie di poesia, come tutti gli autodidatti del mondo. E si in­namorerà — dopo I vagabondaggi not­turni e scapigliati degli artisti maledet­ti — di quei poeti e scrittori che, come lui, avevano vissuto un'infanzia di mise­ria ed una giovinezza di travagli: Walt Whitman (l'ex aiutante carpentiere, infermiere, apprendista tipografo) che gli donò, con le sue «Leaves of Grass», le grandi tessiture strofiche delle odi, simili alle distese marine ed ai con­glomerati urbani; Carl Sandburg (lo sguattero, Il contadino, il mercena­rio), cantore della «Chicago ventosa, macellaia del mondo»; César Vallejo (il meticcio peruviano tormentato che assaporò anche la prigione e l'esilio) che colpisce con la sua, mai persa, ansia di immedesi-mazione con le classi ed I popoli oppressi, Langston Hughes, il negro di Harlem, con I suoi dolorosi «Blues».
Ma lasceranno tracce, sul giovane divoratore di libri (che certo non si sa­rebbe mai aspettato di finire nei ma­nuali di «Poesía Argentina del Signo XX», per es., di J. Carlos Ghiano), anche il cileno Pablo Neruda con la sua tensio­ne metafisica, l'epicità e la liricità tor­renziali, forse con qualche piega di en­fasi, ma sempre genuino come il vino dei paesi latini; ed inoltre García Lorca che, con le sue «canciones» ed i suol «poemas» fu certo il tramite — insieme con le «Soledades» e le «Poesías» di Ma­chado — per la conoscenza in Sud Ame­rica delle linee stilistiche dell'Avanguardla europea e dei valori di morte-silenzio-amore-destino-tragedia, oltre che dei valori di paesaggio-terra-natura (la «Centinela de sangre» di Portogalo è del 1937, un anno dopo la morte di Lorca). Nel mondo poetico di Portogalo non manche-ranno, oltre agli eredi di Baudelaire, almeno due russi: il Gorky dei «Bassifondi» e certamente Majakovskij, provocatore, ribelle, scandaloso; in «Tumulto» (libro che nel 1935 fece tanto arrabbiare il sindaco conservatore di Buenos Aires) Portogalo ci offre dei versi densi di squillanti oggetti pit­torici; anche lui prova pena per «gli uo­mini ai margini» e sente la necessità fi­siologica della sovversione (in «este mundo de mierda», nella sua «ciudad», quella «de las grandes riquezas y las grandes miserias» dove il povero «alba­ñil» Pasquale muore cadendo dal setti­mo piano facendo soltanto torcere «el culo a los snobs» perché, In fondo, «el nombre Pascual no es poético (...), le fal­ta musicalidad»). Portogalo è spes­so rabbiosamente concreto e realisti­co come Brecht, ma è anche aereo e dolce, pieno di angosce e di estasi paniche. Gli piaceva tanto essere chia­mato «poeta-lavoratore»; dirà, è ve­ro, a Carl Sandburg: «Come mi piace­rebbe essere vissuto nel tuo tempo / con le tue mani pesanti, ruvide, violen­te / perché con esse hai fatto tutti i me­stieri — come me — ed hai scritto poe­mi». È vero, ma lo stesso Portogalo sarà pure capace di tenere dolcemente e goffamente in mano una margherita (così, in una stupenda «vignetta» di «Clarín» del 17-4-1988); di inseguire la bellezza e di creare la luce. Quest'uomo-bambino, affabile e rude, brutto e bellissimo, ricorda nel suoi caldi versi a noi italiani (digiuni di poesia sudameri­cana e imbottiti di canzonette anglo-americane) le estive solarità di Gabriele d'Annunzio ed i tremori cosmici di Pa­scoli.
Una volta Portogalo si chiese che «forma» avrebbe assunto la sua morte: «Che forma avrà la morte mia?/ Acqua, vento, fiamma, fiore I o semplicemen­te un tremore / della celeste armo­nia?». Chissà! Il poeta si trasformerà nel «suono di un fiume» scorrente, palpite­rà «nel volo di un'ala», oppure silenzio­so sdrucciolerà «nelle gocciole della ru­giada». È forse questa l'Eternità? In ciò consiste il Divino? Per ora il poeta sa sol­tanto che anche «nella cenere» avviene «il prodigio della rosa». L'anima di Portogalo è pervasa da ineffabili rapimen­ti; come Francesco di Assisi, se la sente, l'anima, «piena di uccelli che cantano»; «dal suo petto spuntano dolci colom­be». È vero, nel lontano 1935 voleva con Sandburg rabbiosamente «confic­care negli orli» delle donne «dalle paro­le dure» tutta la propria «solitudine» per «popolarla d'immagini», ma molti anni dopo griderà: «Dàmmi l'oro del giorno ed il chiarore del pioppi!»; e ri­corderà con dolcezza: «Avevo un buon vicino: Il Sole che al miei fianchi/(...) per­correva i prati / e dopo in una raffica rinfrescava i meleti / i frumenti, i vigne­ti/ e il fiore del pesco».
Dante, dopo il fosco dell’lnferno, in­seguì i chiarori del Paradiso; il rabbioso José dei rioni miseri e bui diventerà il «poeta della luce». Forse per questo lo amò l'amico César Tiempo, «el poeta de la judería». Poeta della luce lo definì l'amico poeta Tuñon alla vigilia della morte, anche perché luce non c'era mai stata nei formicai umani metropo­litani. Le sue parole emblematiche so­no, dice Tuñon, «aurora, sole, rugiada, crepuscolo, tramonto, albeggio»; «i luo­ghi poveri, brutti» «li riempì con la lumi­nosità del suo spirito». Non per nulla un suo poema si chiamò «Luz Liberada» (1947). Non per nulla, aggiungiamo noi, il piccolo Giuseppe  Anania era vissuto sino all'età di cinque anni a Savelli In Ca­labria, sotto l'azzurro cobalto del cielo del Sud (che è bello, perché è sempre bello), tra il verde smeraldo vellutato della Sila, tra le montagne a picco piene di riverberi solari.

NOTE
1 Dal «Poema a Carl Sandburg», in Tumulto, 1935, p. 35. D'ora in poi non citeremo, per non appesantire la lettura, né i titoli delle poesie né i volumi da cui son tratti I versi sparsi qua e là nell'articolo. La traduzione dallo spagnolo è, ol­tre che del redattore, del Signor Serafino Gre­co, che ringraziamo assieme a Francisco Manfredi e Salvatore Astorino per i materiali.
2 A. De Gubernatis è autore di L'Argentina. Ri­cordi e letture, 1898. Anche Sull'Oceano (1889) di De Amicis riguarda un viaggio in Argentina. Vedi anche F. Macola, L'Europa alla conquista dell'America latina 1894. Dalla retorica di que­sti ed altri testi di viaggio si salva forse solo L. Barzini, 'Argentina vista com'è, 1902. Vedi sul­l'argomento l'ottimo V. Blengino, Oltre l'Ocea­no, Roma, Ed. Associate, 1987.
3  Da un povero manovale calabrese ha ori­gine il termine «cocoliche», usato per indicare la lingua dell'emigrante italiano, un «pastiche» di calabrese, italiano, spagnolo e guachesco.
4  È il personaggio principale che dà il titolo al famoso poema di José Hernández, dell'800. 
5  I tre sono noti scrittori argentini... non tanto teneri con gli italo-argentini. 
6  Vedi l'argentino «Clarín» del 17-4-1988, p. 20, In cui il riferimento agli emigrati è tratto dal poema «I buoi» (Los Bueyes) di Carlos de la Pùa; l'ottimo articolo di «Clarin» è di Oche Califa, il quale però fa erroneamente nascere Portoga­lo «en el 1900»,.. «año porteño»! Nei Registri dell'Anagrafe dì Savelli (Atti di nascita n. 109) Ana­nia Giuseppe risulta nato invece il 10 ottobre 1904: non vi è ancora... l'annotazione della morte (7-9-1973).
BIBLIOGRAFIA
    Tregua, Buenos Aires, 1933.
Tumulto, ibidem, 1935 (ottenne il «Pre­mio Municipal»),Centinela de sangre, 1937.
Canción para ed día sin miedo, Buenos Aires, 1939.
Destino del canto, ibidem, 1942.
    Luz liberada, Montevideo, 1947.
    Mundo del acordeón, Buenos Aires, 1949. 
    Perduración de la fàbula, ibidem, 1952. 
    Poemas con habitantes, ibidem, 1955.
    Poemas (1935-1955), B. Aires (D'Accurzio impresor, di Mendoza), 1961. In tale antologia manca solo, del tut­to, Tumulto, del 1935 (frutto di au­tocensura o censura?); in tale anto­logia è anche un saggio introdutti­vo di Luis Emilio Soto.
    Sal de la tierra, 1949 (Cuaderno fuera de comercio).
Ana Teresa Fabani en la poesía, 1951 (Conferencia).
Letra para Juan Tango, 1958.
    Los Pájaros ciegos y otros poemas, B. Ai­res, 1968 (una snella Antologia di 93 pagine).

domenica 6 aprile 2014

§ 070 060414 SULLA FERROVIA CALABRA (1862).


Riprendo qui l'argomento ferroviario, tornando alle origini delle vie ferrate in Calabria; questa 'Relazione', di cui riporto i capitoli iniziali, tende, con chiaro intento di parte, ma non senza serie motivazioni, a far prevalere la tesi che si dovesse realizzare un percorso 'interno', a scapito di quello, tuttora esistente, che segue l'andamento del litorale dello Jonio; per essere chiari, le risultanze della 'Commessione' affermavano doversi privilegiare un itinerario che da Taranto passasse per Sibari ('le foci del Crati') e giù, per Cosenza e la valle del Savuto, fino al Tirreno e quindi a Reggio, a scapito della linea Taranto - Reggio di Calabria, quella che attualmente passa (non si sa fino a quando) per Crotone e Catanzaro Lido, per giungere fino allo Stretto. Quest'ultima linea, per la cui realizzazione, infine, si optò, fu terminata nel 1875. Successivamente, anche la linea da Sibari a Cosenza, con proseguimento fino a Paola, sulla linea tirrenica, vide la luce, realizzando le aspettative della 'Commessione'. Attualmente la linea 'Jonica' è in netto declino (forse ho usato un eufemismo...), mentre la linea da Reggio C. per Taranto e Bari, via San Lucido, Castiglione Cosentino e Sibari, gode ancora di qualche chance, essendo stata elettrificata ed inserita in uno dei tanti 'corridoi' europei, ai quali non difetta di certo la fantasia, e che dovrebbe collegare il porto di Gioia Tauro a Berlino o qualche paese dell'Est che in questo momento mi sfugge... Concludendo, ancora una volta ne esce l'immagine di una regione bistrattata, i cui rappresentanti, proprio come gli abusati capponi manzoniani, si azzuffano tra di loro, arzigogolando più o meno a ragione intorno a leggi (con tanto di gride ed azzeccagarbugli), ancora una volta confondendo i diritti e i doveri, le istanze con le questue... Del resto, quando si tratta di sfruttare quanto la terra calabra può offrire, i grandi imprenditori-sfruttatori non si sono mai fatti grossi problemi... vedi, ad esempio, la ferrovia costruita a tamburo battente e poi dismessa per sfruttare le grandi foreste silane- non ultimi gli americani durante la seconda guerra mondiale, oppure gli enti italiani stessi preposti alla costruzione delle centrali elettriche della Sila, che provvidero a realizzare una ferrovia da Crotone a Timpa Grande per il trasporto dei materiali occorrenti, con tanto di record: la più lunga ferrovia con locomotive ad accumulatori... Anche quanto a record, direi che non ci facciamo mancare nulla, specialmente in negativo.
   Ecco il link al testo integrale:
http://books.google.it/books/about/Sulla_Ferrovia_Calabra_relazione_della_c.html?id=nrhVAAAAcAAJ&redir_esc=y
   Altro testo di riferimento, per le ferrovie degli albori, è quello a firma del nobile piemontese Carlo Ilarione Petitti di Roreto, che, in verità, qualche buona parola per i Borboni patrocinatori della prima ferrovia italiana seppe spenderla.
http://books.google.it/books/about/Delle_strade_ferrate_italiane.html?id=1XjnPRWRvmUC&redir_esc=y

               
                          SULLA FERROVIA CALABRA (1862, Salvati e De Roberti).
 Il Consiglio Provinciale della Calabria Citeriore, con deliberazione presa nel Settembre dello scorso anno (1861, ndr), proponevasi di eseguire per proprio conto gli studi di quel tronco della Ferrovia Calabra, che attraverserebbe la provincia dalle foci del Crati al Savuto; e nominava noi sottoscritti a membri della Commessione all'uopo destinata. 
   Ponendo di adempiere il grave quanto onorevole incarico, prima nostra cura fu quella di tener conto dello scopo cui mirava il Consiglio. Da questa parte non potevamo incontrare difficoltà alcuna. Bastava in fatti che si portasse uno sguardo retrospettivo sulle discussioni in seguito alle quali si era deliberato, per riconoscere il punto di vista che fu guida al Consiglio, ed il programma del lavoro disposto. Per quanto era in noi ne seguimmo strettamente le tracce; ed ora che volgiamo al compimento del nostro dovere, ci sembra cosa della maggiore importanza per la pratica estimazione della intrapresa, che una indicazione sommaria del suo obbiettivo preceda il rapporto relativo ai resultati tecnici, cui ci siam fatti a por mano.
I. MOTIVI DEL LAVORO DISPOSTO DAL CONSIGLIO PROVINCIALE. PROGRAMMA DELLA COMMESSIONE.
   Al radunarsi in Settembre del Consiglio Provinciale due fatti si erano verificati:
- La Commessione delle Ferrovie pel Napolitano aveva pubblicato il suo pregevole lavoro, nel quale, dichiarata impossibile una linea centrale per le Calabrie, conchiudeva opinando, che la principale Ferrovia Italiana giunta a Taranto, dovesse condursi fino a Reggio, circondando le coste Calabre sul versante Jonio ed il Capo dell'Armi; 
- Il Parlamento aveva votato la legge per la Ferrovia di Calabria, nella quale modificando la proposta Ministeriale formolata sulle indicazioni della Commessione Napolitana, ne sopprimeva la condizione essenzialmente littoranea, e la determinava con le notevoli parole di Ferrovia a da Taranto a Reggio nella Basilicata e nelle Calabrie. 
   La nessuna indicazione di località intermedie tra gli estremi di Taranto e di Reggio, e la condotta degli studi di massima, nel capitolato conservata al Governo, erano caratteri distintivi della legge; e le provincie interessate stimarono che il Ministero ne avrebbe approfittato per disporre investigazioni in ogni verso, e scandagli comparativi, e disegni generali diretti alla ricerca del tracciato più conveniente nell interesse della cosa pubblica. 
   Ma il parere della Commessione Napolitana aveva in certa guisa imbarazzato l'azione Governativa. La impossibilità d'una linea centrale per le Calabrie vi era determinata con caratteri troppo decisivi, per non ritenerla il risultato d'una convinzione profonda, e si pronunciava da troppo chiari ingegni ed eminenti, per supporre che il Ministero la revocasse francamente in dubbio. E sebbene una proposta di Ferrovia interna e diretta, per la Basilicata e per le Calabrie da Bari a Reggio, fosse presistita al lavoro della commessione, e sebbene con la forma d'un avviso sulla proposta della Commessione stessa, quel lavoro si trovasse alquanto vigorosamente contraddetto; il nome niente autorevole dell'autore e il silenzio del Parlamento, erano sufficienti motivi per non attendersi che il Ministro dei Pubblici piegasse a ritenerne il concetto suscettivo di risultamenti seri.
   Quindi mentre il testo della legge, lasciando il campo alle più vaste investigazioni tecniche, acquietava parecchi nella fiducia che il tracciato interno sarebbe stato per opera del Ministero efficacemente esaminato; altri era condotto ad una contraria sentenza, vista l'attitudine Ministeriale chiaramente espressa coi rapporti che accompagnarono nell'una come nell'altra Camera il progetto di legge.
   Così di espettazione e d incertezza si occupava generalità Calabrese, quando l'onorevole Peruzzi, Ministro dei lavori pubblici, visitò Cosenza. Gl'indirizzi di tutte le classi e le preghiere dei più chiari personaggi del Paese e dell'autorità politica, furono per la Ferrovia interna, come fatto d'interesse generale. Il Signor Ministro portato un rapido esame sulle località più controverse, espresse opinione di possibilità ed incoraggiò la iniziativa d'una pruova tecnica per della Provincia. Egli affermava il tracciamento essere preferibile al littoraneo nelle viste di pubblica, e che, ove ne venisse determinata la possibilità, non si sarebbe mancato di averlo in considerazione.
   Indi a poco il Consiglio Provinciale radunato, nei fatti che si eran compiuti riconobbe il pregiudizio, che  il parere della Commessione Napolitana sulla Calabra aveva arrecato agl'interessi del paese nella opinione del Ministero. Vide come, autorizzando la contrattazione per una strada Ferrata da Taranto a Reggio, la Camera dei Deputati avea rifiutato la indicazione di tracciamento definitivo data dalla proposta Ministeriale lungo il versante del Ionio e l'avea mutata nell'altra che passò in legge: per la Basilicata e per le Calabrie. Notò che questa modificazione della legge non poteva altrimenti spiegarsi, che come un omaggio a più ampia investigazione, diretta alla ricerca d'un andamento diverso dal littoraneo. Compreso che la discussione parlamentare se non versò sul tracciato interno, ciò avvenne perché non solo come avea dichiarato la Commessione, studi generali e speciali.... non esistevano, ma perché si mancava di ogni opportuna cognizione topografica e locale. Trovò quindi che, nel dubbio sugli ulteriori provvedimenti, era della maggiore importanza illuminare l'azione governativa con gli studi tecnici; nella sicurezza che, una volta dimostrata la possibilità della linea interna, tutto ne avrebbe consigliato la esecuzione; la sua necessità economica e politica trovandosi constatata nelle viste di utilità generale assai più che d'interesse locale.
   Parve a noi dunque di doversi riassumere il pensiero del Consiglio Provinciale in questi termini:
- Pruovare, con dati tecnici, il fatto del tracciato interno nella Ferrovia di Calabria da Taranto a Reggio, giusta il disposto della legge.
   Dalla quale risoluzione del Consiglio stimammo a noi imposti gli adempimenti che seguono:
l° Riconoscere se una Ferrovia interna dalle foci del Crati al Savuto possa aver luogo a condizioni favorevoli.
2° Determinarne il tracciato in accordo al suo prolungamento verso gli estremi di Taranto e di Reggio, conformemente al dettato della legge.
3° Redigerne circostanziato rapporto.
4° In appoggio elevare i disegni generali del tronco più notevole.
Seguono i capitoli, dei quali per idea generale riporto solo i titoli:
II. TOPOGRAFIA DEL BACINO DEL CRATI IN RAPPORTO AL GOLFO DI TARANTO - PASSAGGIO AL SAVUTO E SUL TIRRENO.
III. TRACCIATO INTERNO E DIRETTO DAL JONIO AL TIRRENO.
IV. ENTITA' ALTIMETRICA E DI ARTE DELLA FERROVIA INTERNA.
V. CONVENIENZA DELLA LINEA INTERNA - SUO CONFRONTO COL TRACCIATO JONIO.
VI. RAGIONI DI PREMINENZA DELLA FERROVIA INTERNA.
Ed ecco le considerazioni finali:
   8 E noi diciamo francamente che il tracciato interno è voluto dallo spirito e dalla parola della legge. Il Governo proponeva la costruzione d'una strada ferrata da Taranto a Reggio. Ogni elemento di arte, per definirne il tracciato, mancando, il Ministero assumeva l'impegno di elevarne gli studi generali e pertanto si conveniva in principio, che sarebbe condotta nella Basilicato e nelle Calabrie. - Nissuno al certo penserà mai di revocare in dubbio, che il Parlamento rappresentante del Paese non voglia, e che il Ministero espressione del Paese non intenda condurla per ove i veri interessi della Patria non consentono. - Ora, in resultato agli studi, noi ci riscontrammo in quel tracciato interno per Cosenza, i cui caratteri sono stati determinati nella presente relazione. Ne istituimmo il paragone con l'andamento Jonio, ed i numeri che si ottennero completarono le nostre convinzioni. Questi numeri statuiscono indeclinabilmente la preminenza della linea Interna. - Opportuna com'è per noi addimostrata nell'aspetto Finanziario, preferibile nel riflesso economico, ella è conveniente per moderate pendenze. - E' più corta della linea Jonia 100 chilometri in 245 dal Raganello a Reggio, e 124 in 233 dal Raganello a Villa S Giovanni. - E' circondata da una popolazione che in ragion chilometrica rappresenta 2 e 1/4 sopra 1 degli abitatori sparsi per le alture del versante Jonio. - E' mezzo di legame diretto tra il Golfo di Taranto, e il Tirreno. - Evita gli inconvenienti assai gravi di una lunga linea marittima. - Offre condizioni favorevoli alla strategia. - Questi caratteri di quanto elevano la importanza del tracciato Interno, di tanto riescono, a nostro avviso, in disfavore della linea Jonia; e pertanto son questi due andamenti i soli modi da condurre una Ferrovia da Taranto a Reggio. - Al dettarsi della Legge la cognizione di tali fatti mancava, e non volendosi far sagrifìcio dell'utile generale ad una ipotesi, il suo linguaggio fu ridotto alla discussa indicazione illimitata. - Onde noi concludendo, non possiamo che ripetere la nostra tesi: - In ordine alla Ferrovia da Taranto a Reggio, la Legge il cui testo, per sapiente previdenza degli Uffizi Parlamentari, nulla ha determinato tranne gli estremi di arrivo e di partenza, non può mirare che al tracciato Interno.
E qui stimando esaurito il nostro programma, chiudiamo la presente Relazione. - Per quanto era in noi, ci siamo adoperati di sviluppare al possibile il concetto degli studi disposti; e ne dorrà grandemente, se dalle cose avvenire o dal riposato esame e dal giudizio avveduto del Consiglio Provinciale, fosse per resultare di non averlo noi abbracciato intero.
Cosenza 24 Maggio 1862
La Commessione
Michele Salvati - Ingegnere.
Pietro De Roberti - Consigliere delegato.

lunedì 31 marzo 2014

§ 069 310314 DELLE STRADE FERRATE IN CALABRIA, G. Paravicini (1867).

   ''DELLE STRADE FERRATE IN CALABRIA'' è una relazione redatta da Guido Paravicini, 'dottore in matematica', apparsa sul fascicolo di maggio 1867 del  Giornale ''Il Politecnico''. Cosa dire di un lavoro, se così vogliamo chiamarlo, di tale fatta? Vi si legge un inaspettato miscuglio di sciocchezze e di note condivisibili. Se potevamo muovere degli appunti a Norman Douglas per qualche suo accenno altezzoso o schifiltoso, da snob britannico, cosa dire di uno studioso del neonato Regno d'Italia (siamo nel 1867), di un italiano - forse un convinto lombrosiano - che denigra con tanta convinzione quella parte di nuovi sudditi del Regno che abitano quelle plaghe selvagge che formano ''le Calabrie''?
   Il motivo del contendere è, come si può facilmente intendere, l'opportunità o meno di costruire linee ferroviarie nella penisola calabrese, e, in caso di risoluzione positiva, la scelta dei tracciati, con particolare riguardo agli interessi ed appetiti che gli appalti per la costruzione delle linee stesse avrebbero scatenato.
   Come si può vedere, il signor Paravicini è sulle prime totalmente contrario alla costruzione di strade ferrate in Calabria (ma anche nella desertica Sardegna e in Piemonte, relativamente alla linea da Alessandria a Savona che risultava, a suo - insindacabile? - parere, un inutile raddoppio della linea dei Giovi); successivamente egli si rassegna a sconsigliare la costruzione di una linea che congiunga Taranto a Reggio 'per Cotrone', a vantaggio della linea interna e tirrenica. Non mancano le note sensate, ma quelle stonate inficiano tutto il contesto generale: in pratica è inutile costruire una ferrovia in una zona depressa e per popolazioni che vivono praticamente allo stato selvaggio, quasi cibandosi di radici o giù di lì... altro che vie di comunicazione come volano di sviluppo! Ritengo che le idee (!) di personaggi del genere, quando operanti per conto delle istituzioni, possano essere grandemente nocive, tant'è, sempre secondo il Paravicini, che i calabresi avrebbero dovuto viaggiare e commerciare per mare, ammesso che ne avessero sentito il bisogno, ché di motivi, trattandosi di persone per natura non industriose, non sembravano sussisterne... 
   Una 'relazione' simile, prodotta nel 1862 su determinazione del Consiglio Provinciale di Calabria Citeriore si può leggere a questo indirizzo: 
Sulla Ferrovia Calabra relazione della commessione nominata dal Consiglio Provinciale della Calabria Citeriore 1862 qui però siamo di fronte a qualcosa di più serio, meditato, anche se 'di parte': i politici cosentini, cercando di affermare i propri interessi, mirano a far prevalere la tesi che prevede il passaggio della strada ferrata 'per linee interne', ciper Cosenza, dopo aver attraversato la valle del Crati e poi quella del Savuto.
   L'importanza delle ferrovie, a quell'epoca, era straordinaria, per motivi economici, di rottura dell'isolamento, di semplice prestigio, addirittura di puro diletto, come si può leggere alla fine del testo... che è lungo di per sé, e quindi non aggiungo altro, tranne che la ferrovia 'da Taranto a Reggio, per Cotrone', fu realizzata, con buona pace del Paravicini... come sia andata a finire, dopo circa un secolo e mezzo, ognuno lo può verificare da sé... Buona lettura.




   Il Ministro dei lavori pubblici ha presentato alla Camera dei Deputati un progetto di legge col quale domanda l'autorizzazione di stipulare colle Società delle Strade Ferrate Calabro-Sicule, Romane e Meridionali una convenzione per il riscatto delle rispettive concessioni convertendone i titoli in rendita di debito pubblico. Questa misura, che per moltissimi motivi, di cui qui non è il luogo di discorrere, ne pare molto saggia, mette lo stato nella piena ed assoluta libertà di disporre come crederà meglio rispetto a queste vie ferrate, libero cioè di rimutare le reti già stabilite od integralmente o parzialmente a seconda di quei suggerimenti che saranno forniti dalla esperienza fatta in questi ultimi anni, ed anche, diciamolo pure, da un esame più accurato ed illuminato di quello che si volle premettere alla determinazione dall'andamento di alcune delle nostre linee.
   In una occasione tanto importante e che bene usufruttata può essere origine di numerosissimi vantaggi al paese ne pare il caso di richiamare l'attenzione di esso sopra argomento cosi vitale. Nè con ciò fare crediamo menomamente di venire dicendo cose nuove e che già non siano sorte nella mente dei nostri uomini di stato, di mille gradi a noi superiori e per ingegno e per pratica in materia, ma vogliamo solo enunciare cose che non ancora si sono dette al pubblico, al quale pur alcuno deve dirle perchè si corregga di un difetto e di un errore che tornavano già in molti casi dannosi assai all'erario nazionale. Il difetto sta nell'eccessivo amor di campanile che alle volte alleandosi alle avide brame del privato interesse induce nell'erronea conseguenza che sia tutto guadagnato alla propria provincia ed al proprio villaggio quanto si fa profondere al governo sul territorio di quella o di questo, senza curarsi se la spesa sia realmente necessaria e produttiva, o se piuttosto, come innumerevoli esempj additano, non venga ad aggravare il bilancio dello stato poco o nulla giovando a quegli interessi locali che si intendevano favorire. Da questo difetto dal conseguente errore ne nacque quella ressa di domande insistenti ed indiscrete che ognuno si crede in diritto di rivolgere al governo perchè il suo comune sia dotato della tale o tal altra opera pubblica del tale o tal altro ufficio. All'indiscreto domandare troppo compiacentemente ascoltato per diversi moventi dai nostri governanti da che il regno d Italia esiste, si deve, se ben esamineremo ascrivere in parte il dissesto finanziario in cui pur troppo ora versiamo Ad esso, per citare qualche esempio a tutti noto, va attribuito quello enorme sproposito che fu la concessione di una rete di ferrovie nella poco men che deserta Sardegna e nella penisola Calabrese per nulla adatta a questo genere di opere; ad esso lo sconsigliato disegno di rivalicare di nuovo l'Appennino nella direzione di Savona poco lungi ed a scapito della già aperta via dei Giovi. Perchè questi errori si facciano meno frequenti è tempo di incominciare a segnalarne al pubblico alcuni e fatti e predisposti perchè i primi servano di esempio, i secondi in quanto si possa abbiano a correggersi. Con ciò si renderà meno difficile la giusta resistenza di chi siederà al potere offrendogli un valido appoggio nella opinione che si verrà formando nelle masse.
   Per cominciare dall'una di queste opere, che a nostro giudizio, approfittando del riscatto accennato di sopra, si deve assolutamente ommettere dal fare, parleremo della arteria Calabrese, di quella cioè che da Taranto per Cotrone mette capo a Reggio.
   Avanti tutto diremo che una strada ferrata in Calabria ne pare cosa affatto inopportuna finchè quel paese perdura nelle presenti condizioni economiche e sociali. A chi conosce la località questa verità risulta evidente senza bisogno di dimostrazione; per chi invece non ha percorso quelle provincie diremo esservi la popolazione scarsa, non ricca nè industriosa. sicchè vive stentatamente dei prodotti delle terre, cui per giunta assai male coltiva. Una popolazione di questo genere è per sua natura sedentaria, siccome mancante di quegl'impulsi al viaggiare che sono il commercio e l'industria, ed invece legata alla propria dimora delle occupazioni agricole che più di ogni altra fissano al suolo che ne forma l'oggetto. Per di più le cattive condizioni economiche di queste popolazioni, cattive condizioni che sono appunto il frutto della mancanza di industria e di operosità, ostano materialmente a che il calabrese viaggi con una frequenza anche assai limitata, visto che al viaggiare così gli manca l'impulso del bisogno come i mezzi pecuniarj per poter seguire quest'impulso pur dato che vi fosse. Aggiungete a ciò una coltura assai scarsa che gli toglie quello stimolo che mette tanta gente per le strade in altri paesi, il desiderio cioè di istruirsi, e vedrete se si può aspettarsi che in Calabria vi sia un movimento di qualche rilievo. Questa conclusione, derivante da un ragionamento che pure non potrebbe tutti convincere, ebbe una dimostrazione palmare ed irrefutabile dal fatto. Il Com.e Guicciardi, allora quando era Prefetto di Cosenza, volle aver qualche dato sul movimento che aveva luogo sulla via nazionale Calabrese, quella cioè che da Reggio per Cosenza, Lagonegro ed Eboli conduce a Salerno e Napoli, che costituisce la vera arteria della penisola e dovrebbe per conseguenza avere il maggior transito. Istituite le osservazioni dal chiaro Ing. Caimi sul tronco da Cosenza verso Catanzaro ed in prossimità alla città di Cosenza, che pur deve essere cagione di un certo movimento locale come capoluogo di provincia, ne risultò che il transito si limitava in media a sei veicoli al giorno. Questo eloquentissimo risultato non ha bisogno di commenti. La configurazione speciale poi della Penisola Calabrese mette il problema dei trasporti in una condizione affatto eccezionale e radicalmente diversa dall'ordinario Qui abbiamo una lingua di terra assai ristretta che nei punti di maggior larghezza misura appena cento chilometri dall'un mare all'altro, occupata nella sua parte centrale da montagne elevate e quasi dovunque offrente un terreno rotto e solcato da molti corsi d'acqua sicché riesce assai mal agevole lo stabilirvi una ferrovia. Egli è evidente che per le accennate condizioni topografiche non potremo situare la ferrovia che sul lido del mare dall'uno o dall'altro lato della Penisola ed anche in tale poco favorevole giacitura la spesa di costruzione non sarà punto lieve. Tanto per accedere alla via ferrata che per imbarcarsi sui navigli, le persone e le merci dovranno percorrere sulle vie ordinarie un certo tratto che sarà il più delle volte a vantaggio e raramente a danno della via marittima e quindi la prima non potrà facilitare il movimento scemando il rotaggio che per pochi e parzialissimi casi. Considerata poi la superiorità incontestabile che quest'ultima presenta per la economia dei trasporti in confronto della via ferrata, è certo che per il nostro caso speciale di Calabria la lotta fra di esse riescirebbe impossibile nelle condizioni attuali delle provincie considerate. Giacchè il viaggiare sulle rotaje non avrà che il vantaggio della sicurezza e speditezza in confronto del viaggiare in vaporiera; ora questi vantaggi non ponno essere anteposti al sensibile maggior dispendio della piazza nel vagone che da popolazioni ricche, colte ed industriose quali le Calabresi pur troppo non sono. Più avanti dimostreremo con cifre la esattezza di questa conclusione. Con ciò non crediamo sconfortare i Calabresi che crederanno, come molt'altri trovare una panacea a molti loro mali nel veder correre la locomotiva presso i loro casolari; vogliamo solo far loro apprezzare più giustamente il magnifico dono che lor fece natura collocandoli fra due mari, dono che opportunamente utilizzato saprà rimpiazzare la ferrovia senza l'enorme spesa che occorrerebbe per aprirla. Infatti ove ogni centro di popolazione o di produzione dista non più di sessanta chilometri da un punto d'imbarco a che prò la ferrovia che è dimostrata non poter lottare con vantaggio sensibile colle strade ordinarie che sopra a percorrenze forti e superiori alla massima sopra indicata? 
Ma si potrebbe rispondere che le strade ordinarie non esistono ed i porti e gli imbarchi sono quali natura li creava e non più. E qui sta appunto il campo di operosità delle Calabrie e quanto giustamente ponno domandare al governo. Dall'apertura delle vie ordinarie e dal miglioramento dei porti deve solo aspettarsi quella economia e facilità dei trasporti dai quali a ragione la Calabria si aspetta il proprio rifiorimento economico e che erroneamente si volle domandare ad una ferrovia. Aprite strade inghiaiate, gettate moli e ponti sporgenti d'imbarco e farete lavoro utile non improduttivo quale quello di una ferrovia, in paese dove non si viaggia abbastanza da dar sufficiente lavoro a quell'immensa macchina che è una strada ferrata e dove già si può viaggiare assai più speditamente ed economicamente salendo sul ponte di una vaporiera. E qui, se alcuno ne opponesse che le opere pubbliche da noi propugnate costeranno quanto una ferrovia e forse più, diremo che le ordinarie fatte con senno e dirette da personale intelligente ed onesto a pari estensione, toccheranno ordinariamente il ventesimo e saliranno raramente al decimo della spesa che si deve erogare per una via ferrata e che i luoghi d'imbarco quando si adottino i ponti sporgenti in ferro di cui cosi numerosi esempj offre la costa inglese della Manica si potranno in moltissime località stabilire con non troppo grave dispendio. Tutte poi le opere che da noi si suggeriscono debbono egualmente farsi anche aperta che sia la arteria ferroviaria, perchè le strade ordinarie sono indispensabili per il movimento locale interno ed anche per accedere alle stazioni, e ciò molto più in Calabria dove le popolazioni stanno aggruppate sulle vette dei colli, ove la ferrovia non può essere avvicinata e donde ben lieve vantaggio ricaverebhero dal veder transitare i convogli nel sottoposto piano se non avessero modo di agevolmente scendere e trasportarvi le loro derrate. I porti poi necessitano per l'imbarco delle produzioni del paese che per la massima parte diretto al continente europeo ed alla Gran Bretagna non cesseranno mai dal preferire la via del mare.
Ammesso quanto abbiamo ripetuto fin qui che di strade ferrate per ora in Calabria non si debba costruirne, e lasciando a chi spetta di stabilire quale partito si debba cavare dai lavori già eseguiti che ne pare si dovrebbero adattare ad una via nazionale opportunissima sotto a tutto i rapporti, passeremo a considerare se, venuto il tempo di dotare la Calabria di una rete ferroviaria, il tracciato prescelto ora lungo il littorale del Ionio sia il più conveniente per lo scopo che si vuole raggiungere e quale per conseguenza abbia ad essere l'andamento di quella ferrovia che pur deve essere contemplata dal governo, onde preordinarvi i tronchi prossimi e gli altri lavori da eseguirsi immediatamente, benchè se ne rimetta la costruzione ad un'epoca di maggior floridezza e per la nazione e sopratutto per le Calabrie.
Forse qui si obbietterà che la via da Taranto a Reggio può avere utilità militare in caso di guerra marittima; ma esposta in quasi tutto il suo percorso al cannone di un nemico che fosse padrone del mare poco può contribuire alla difesa del nostro territorio. Per questo caso gioverà piuttosto predisporre un buon sistema di strade ordinarie che permettano di concentrarsi nell'interno e di là calare in massa a respingere chi tentasse occupare un punto qualunque del litorale.
La rete ferroviaria Calabrese quale fu stabilita nella legge di concessione, è costituita di una linea che seguendo il litorale del Ionio, va da Reggio a Taranto con una diramazione dalle foci del Crati a Cosenza. Questa rete si imbranca e forma sistema per i trasporti colla linea in progetto dalle foci del Basento a Potenza, Eboli e Napoli e coll'altra ormai compita da Taranto a Bari. Sarà, avendo di mira le linee ultime accennate colle lunghezze loro assegnate dalla Commissione parlamentare, che riferì sull'ultimo riordinamento delle ferrovie del Regno, che noi verremo trattando delle percorrenze dei trasporti. Premettiamo che gli scopi a cui si mirava colla costruzione della linea da Reggio a Taranto erano: facilitare le communicazioni delle Calabrie e della Sicilia col restante d'ltalia; favorire come sempre gli interessi delle provincie attraversate, cioè delle Calabrie. Ma sgraziatamente questi scopi non sono che imperfettissimamente raggiunti, come entriamo a dimostrare.
(omissis) dopo aver esposto gli esempi del caso ed essere pervenuto alla conclusione che ''Si può quindi conchiudere senza tema di errore che la ferrovia non trasporterà una sola tonnellata di merci da Napoli alla Sicilia, e ben pochi passaggeri ed anche questi nelle stagioni meno buone soltanto'', il Paravicini espone ''la preferenza da accordarsi ad un tracciato sul versante del Tirreno, piuttosto che su quello del mar Jonio'', basata su tre motivi così individuati - e spiegati nei tre relativi punti del testo -:
1° Maggior brevità della linea (la tirrenica);
2° Maggior densità della popolazione (dei comuni attraversati dalla ferrovia tirrenica);
3° Maggior opportunità per gli scambj col restante d'Italia all'infuori di Napoli. 
(omissis) e veniamo alle conclusioni del Paravicini, che dice:
   Riassumendo tutto quanto abbiamo detto possiamo ripetere:
a) Che per ora di ferrovie in Calabria non se ne deve fare, lavori utili e produttivi non potendo essere che le strade ordinarie ed alcuni miglioramenti ai porti di mare. I soli interessi delle somme risparmiate colla sospensione dei lavori delle strade ferrate ponno bastare a promuovere energicamente le opere da noi appoggiate, visto che questi interessi saliranno ad oltre otto milioni all'anno, rappresentano cioè cinquecento chilometri di strade ordinarie, senza tener conto dei sussidj che si ponno imporre alle provincie e ai comuni.
b) Che aperte le strade comuni e sviluppatosi un maggior movimento commerciale in paese, la ferrovia che tornerà utile alle Calabrie sarà quella che segue il littorale del Tirreno; l'altra lungo il Jonio essendo in ogni modo da abbandonarsi affatto.
  Anche la ferrovia del Tirreno gioverà farla a tronchi di mano in mano che ne risulterà dimostrata la convenienza, ma i debbono essere costrutti partendo da Eboli e procedendo verso Reggio e non già a ritroso come si è fatto fino ad oggi per errore interamente inesplicabile. Partendo da Eboli la strada è subito utilizzabile e facilmente esercitata come prolungamento di linea maggiore che parte da un grosso centro. Partendo da Reggio non può giovare a niente e rende 10 o 12 lire per chilometro alla settimana come accade sul tronco da Reggio a Lazzaro, che costerà nello stesso periodo di tempo non meno di mille in ispese d'esercizio. Il risultato pratico qui come sempre, è la più forte prova dell'errore commesso, ma nel caso nostro in tale proporzione da obbligarci veramente a stigmatizzare chi con tanta leggerezza se ne è fatto autore. Per una sciocca passione politica di popolarità, per accontentare le puerili impazienze di alcune cittaduzze che volevano avere il trastullo di veder correre una locomotiva, si sono iniziati lavori ferroviarj, gli uni staccati dagli altri, inutili tutti ed anzi peggio che inutili perchè consumano somme ragguardevolissime per essere tenuti aperti all'esercizio. Così però, Messina, Reggio, Palermo, tutte ebbero il loro piccolo tronco sul quale farsi trasportare a sollazzo nei giorni festivi. Ma questo sollazzo per sè stesso innocentissimo quanto costa alla nazione? Non mi accingo a farne i conti perchè temo spaventare il lettore; certo ben caro. Se tutti gli sforzi si fossero invece concentrati sopra a quell'unica strada che ha per la Sicilia una importanza veramente reale sotto a tutti gli aspetti e politici e militari ed economici, sulla traversa da Palermo a Catania, quanto maggior utile ne avremmo ricavato!  
Un ostacolo forte alla soppressione della linea da Taranto a Reggio sarà fatto da chi ne tiene l'appalto di costruzione, ma se il governo vuole potrà ridurne le pretese a limiti ragionevoli, giacchè la sola minaccia di obbligare la Società Concessionaria ad adempiere i proprj impegni e quindi a dichiarare quel fallimento che in oggi è interamente compiuto, basterà a far raffreddare qualunque troppo ardente cupidigia.
Il testo integrale si può leggere a questo link:
http://books.google.it/books/about/Delle_Strade_Ferrate_in_Calabria.html?id=cPvYmgEACAAJ&redir_esc=y

venerdì 21 marzo 2014

§ 068 210314 MEZZOGIORNO A PETELIA. Norman Douglas, Vecchia Calabria, cap. XXXIX.



                            MEZZOGIORNO A PETELIA.
             Norman Douglas, Vecchia Calabria, cap. XXXIX.
Quello che segue è il penultimo capitolo delle peregrinazioni di Norman Douglas in Calabria, anche se, a dispetto del titolo, il viaggiatore britannico inizia il suo viaggio da Lucera, e solo dal XIV° dei quaranta capitoli che compongono il libro comincia a descrivere luoghi e realtà calabresi… un po’ come il giro d’Italia, quando parte da Parigi o dall’Olanda…
  Mi pare che Douglas colga benissimo alcune note caratteriali… a cominciare dalla ‘amica del Museo di Catanzaro’ che confonde Strongoli, l’odierna Petelia, con Stromboli – qui si sente il sarcasmo tutto britannico verso una persona che dovrebbe essere ‘introdotta' nella materia storica - e giù fino al pastore che vorrebbe approfittare (‘vurpignu’ si direbbe, ma non troppo) della presenza di quello che ritiene essere un americano per cercare di ‘imbarcarsi’, per il tramite di quest’ultimo’, in una improbabile avventura transoceanica.
   Nel paragrafo iniziale si legge la staticità che connota certe situazioni… l’attesa, il rinvio, la rinuncia, quasi fatale, a compiere anche una escursione da Cotrone a Capo Lacinio. In ‘Vecchia Calabria’, Douglas indica con ‘Cotrone’ la città attuale e con ‘Crotone’ quella magnogreca… in effetti il cambio di denominazione è avvenuto nel 1929, e qui siamo, all’epoca della pubblicazione, nel 1915: tutto normale, quindi.
   Non mancano i riferimenti alla mitica, strenua, fedeltà di Petelia a Roma, in opposizione ad Annibale, e altresì il richiamo a Teocrito che dei pastori di queste terre cantò nei suoi versi. Su un altro versante, anche il resoconto sull’operato della ‘guardia di finanza’ è molto chiaro… in definitiva, credo che Norman Douglas conoscesse molto bene la materia calabra, molto più di quanto si sia propensi a credere. O ad essere creduti…
   Un giorno dietro l'altro, continuo a contemplare quel­le sei miglia di mare che mi separano dal promonto­rio di Lacinia e dalla sua colonna. Come raggiungerlo? I barcaioli hanno voglia di compiere questo tragitto: tutto dipende però, mi dicono, dal vento.
Un giorno dietro l'altro - una calma mortale.
«Due ore... tre ore... quattro ore... secondo!» e indicano il cielo. Un po' di brezza, aggiungono, si alza qualche volta, di mattina presto; una vela si può issare.
«E per tornare a mezzogiorno?»
«Tre ore . . . quattro ore ... cinque ore ... secondo! »
La prospettiva di dondolare in una barchetta per mezza giornata, sotto un cielo ardente, non è proprio il mio ideale di passatempo, tanto più che quest'espe­rienza il sapore di novità l'ha ormai perso da molti anni. Decido di aspettare; di dedicarmi nel frattempo all'antica Petelia - la «Stromboli» della mia amica del Museo di Catanzaro ...
Da Cotrone a Strongoli, che si ritiene sorga sulle fondazioni della antica, tanto assediata città, è una facile gita di un giorno. Strongoli sorge in cima a un colle e la diligenza, che aspetta il viaggiatore alla pic­cola stazione ferroviaria, impiega due ore a raggiun­gerla, arrampicandosi per la salita in mezzo agli ulivi, con ampie curve e svolte.
Anche a così breve distanza di tempo, i miei ricordi di Strongoli sono confusi e vaghi. Il percorso nelle luci splendenti del mattino, il grande caldo dei giorni precedenti, e due o tre notti insonni a Cotrone, ave­vano molto diminuito il mio desiderio di novità. Ricordo di aver visto nella chiesa alcuni marmi romani e d'essere stato poi guidato ad un castello.
Più tardi riposai, in alto, sotto un ulivo, osservando in basso la valle del Neto, che poco lontano da qui si getta nell'Ionio. Pensavo a Teocrito, cercando di raf­figurarmi questa valle come doveva apparire agli occhi suoi e dei suoi pastori: le selve sono scomparse, e le piogge invernali, rovinando lungo i declivi di terriccio, hanno rimodellato il volto di tutto il paese.
Eppure, sia la natura come può, gli uomini torne­ranno sempre verso colui che così melodiosamente canta delle verità eterne, dei doveri e delle necessità umane, che nessun mutare di secoli può in realtà mu­tare. Come sembra poeta moderno a noi, che siamo stati messi in contatto con la sua verità spirituale da un Johnson-Cory e da un Lefroy! E quanto incredi­bilmente remoto è invece quell'ellenismo alla Bartolozzi che li precedette. Che dire, ad esempio, di quel famoso pseudo-Teocrito, Salomone Gessner, che pure nella sua Daphnis cantò questa stessa valle del Neto? Ahimè, il buon Salomone ha percorso la strada della noia; è morto, più morto del re Psammetico; e ora va facendo il moralista in qualche dignitoso paradiso, tra greggi di pecore in porcellana di Dresda e giovanetti e fanciulle sciropposi. Chi riesce più a leggere il suo tanto tradotto capolavoro, senza provare dolorose trafitture? È morto come un chiodo !
Per quel che ricordo, nella Daphnis ci sono un'in­finità di baci. Era un'epoca sentimentale e l'idillio pa­storale greco, trasferito in un ambiente svizzero del 1810, non poteva finire che in piagnisteo e smanceria. La verità è che i pastori hanno numerose occasioni di giocare con Amaryllis nell'ombra dei boschetti; occa­sioni che certo, a mia conoscenza, non trascurano. Teocrito lo sapeva benissimo, ma in generale è avaro con la preziosa merce dei baci; sembra aver concluso che in letteratura, se non nella realtà, si può essere sazi anche di una cosa piacevole. Senza contare che, essendo un meridionale, non poteva aver fiducia che i suoi giovani eroi restassero in eterno allo stadio dei ba­ci, secondo i modelli offerti dai nostri innamorati bri­tannici, tanto simili ai pesci. Una simile condotta dove­va apparirgli impossibile; e forse anche immorale...
Dal punto in cui sedevo si può scorgere la strada che sale addentrandosi verso la Sila, oltre Pallagorio. Lun­go i bordi si allineano strani monticelli rotondi, da cui esce del fumo: sono le miniere di quello zolfo scuro che avevo visto trasportare sui carri, per le vie di Cotrone. Mi hanno spiegato che vi sono otto o dicci miniere, sco­perte circa trent'anni fa - grosso errore, perché già se ne fa cenno in testi del 1571 - dove lavorano parec­chie centinaia di minatori. Avevo avuto intenzione di visitarle, ma ora, nel caldo meridiano, esitavo; la di­stanza che mi separava anche dalla più vicina, mi sembrava assurdamente grande e proprio quando avevo deciso di cercare una carrozza per farmici por­tare (che maledizione la coscienziosità!) un gentilissimo abitante della città mi invitò a pranzo. Supe­rando le mie deboli resistenze, mi condusse in uno stanzone a volta e là, tra il pasto di specialità campa­gnole e la conversazione di sua moglie, tutti i miei progetti svanirono. Invece che le statistiche sullo zolfo, appresi uno stralcio di storia locale.
«Lei si meraviglia di come siano vuote le strade di Strongoli » raccontò il mio ospite, «eppure, sino a poco tempo fa, qui non si verificava movimento di emigra­zione. Poi tutto è cambiato, e le spiego io come e perché. C'era qui una guardia di finanza, un tipo qualsiasi, che stava al dazio. Per elevare il nome della sua fami­glia prese in moglie un'ereditiera; intendiamoci, non per avere figli, ma... insomma ! E si mise a comprare terra tutt'intorno. Piano, con metodo e con prudenza, finché, a forza di minacce e di intrighi è diventato padrone di quasi tutto il paese. Metro per metro, se lo è preso tutto, con i soldi della moglie. Secondo lui, quello è il modo di perpetuare il proprio nome. Tutti i piccoli proprietari, privati delle loro terre, se ne sono andati in America per non morire di fame e adesso enormi tratti di terra ben coltivata sono quasi abban­donati. Guardi in che condizioni è la campagna! Ma un giorno o l'altro riceverà anche lui il suo compenso. Sotto le costole, sa!»
Con quella meditata restaurazione di un feudalesi­mo all'antica, quel tizio era riuscito a diventare l'uo­mo più odiato della regione.
Ma venne ben presto il momento di lasciare i miei cordiali ospiti per andare a visitare, nel sole cocente, le altre antichità di Petelia. Non mi sono mai sentito così poco attirato dal fascino dell'antiquariato e del­l'archeologia. Sarebbero state tanto più piacevoli quel­le ore in qualche fresca osteria! Tuttavia ripresi il cam­mino, per scoprire con gioia che non vi era quasi più nessun «pezzo» antico, tranne delle mura presso un convento in rovina, in blocchi di pietra e mattoni del­l'epoca romana. Il Comune condusse degli scavi in questo punto fino a pochi anni fa, recuperando qual­che pezzo che andò subito disperso. Forse qualcuno di essi è fra quelli del museo di Catanzaro. Avuta notizia degli scavi, il provvido e paternalistico Stato si impa­dronì del luogo e vi si adagiò sopra; i ruderi già scavati furono di nuovo coperti di terra.
Mentre, come era mio dovere, mi aggiravo lì in­torno, saltò fuori dalla terra stessa un capraio, un ometto triste, che si offrì di farmi da guida non solo a Strongoli, ma per tutta la Calabria. Il suo segreto desiderio divenne presto evidente: voleva scappare dal suo paese e trovare la strada per l'America sotto la protezione mia e del mio passaporto. Era la sua grande occasione: uno straniero (americano) che prima o poi sarebbe tornato in patria! Con ingenuo fervore egli insistette sull'argomento; invano cercavo di spie­gargli che esistevano anche altri paesi nel mondo, che io  non sarei andato in America. Lui scuoteva il capo e infine saggiamente osservò: «Ho capito. Lei crede che
il mio viaggio costerebbe troppo. Invece deve capire anche lei: una volta trovato lavoro, io le restituirò fino all'ultimo soldo.»
Gli offrii delle sigarette per consolarlo. Ne accettò una, riflettendo, ancora non rassegnato.
I caprai non soffrivano di così acuti desideri, ai tempi di Teocrito.

martedì 18 marzo 2014

§ 067 180314 A. Piromalli, Gian Teseo Casopero.



   Un nome alquanto irrituale, 'Gian Teseo', al punto che è diventato, in cirotano, 'Centessèi', come la strada che passa per Cirò Marina... e hai voglia di scervellarmi, quando ero bambino, su come mai ci fosse qualcuno che portava lo stesso nome di una strada statale... e lo stesso cognome di un umanista, ma questo l'ho scoperto dopo. 
   Trattandosi di una storia della letteratura le notizie relative al Casopero sono alquanto ristrette, ma comunque interessanti. Cosa aggiungere? Che l'umanista cirotano discendeva da famiglia salentina, se può interessare, ben radicata a Cirò e anche a Cirò Marina, con una e soprattutto due 'pi', Casòppero, e che esiste anche, secondo tradizione ormai in disarmo, anche un 'chiru 'e Casòppiru'... ma di queste indicazioni localistiche mi riprometto di parlarne un'altra volta...
 
   Prima di passare alle pagine del Piromalli, occorrerà forse ricordare - o premettere - che l'ambiente letterario della prima metà del cinquecento, in Calabria - a Cosenza, per meglio dire - è assolutamente degno di nota, grazie all'impegno e all'opera di letterati quali Aulo Giano Parrasio, fondatore dell'Accademia Cosentina, Antonio e Bernardino Telesio, Quattromani, Franchini... intellettuali che già allora si sparsero per varie parti d'Italia - Milano, Parma, Venezia, Roma, e ovviamente Napoli - per esercitare il loro apprezzato magistero.
   Quelle che seguono sono le note relative a G. T. Casopero, tratte da 'La letteratura calabrese' di Antonio Piromalli, Guida editori, Napoli 1977.   
  
 
   Al discepolato ideale del Parrasio appartiene Giano Teseo Casopero, nato a Cirò il 10 aprile 1509. Studiò a Rovito, sotto la guida di Niccolò Salerni che dopo avere insegnato a Roma, Pavia, Napoli, era ritornato in patria. Il Salerni insegnò il latino a Casopero il quale fu avviato dai familiari allo studio del diritto. Sul Casopero  ha  scritto una  equilibrata,  monografia  Gregorio Cianflone*, il quale ci informa dell'amore di Casopero per Fastia, una  donna sposata, dell'amicizia  con Antonio Telesio e Luigi Giglio. Nel 1532 il Casopero si reca a Napoli dove incontra i co­sentini umanisti colà dimoranti, Franchini, Telesio, i Martirano, quindi, imbarcandosi a Crotone, va a Padova per studiare legge. A Padova ebbe come maestri Mariano Socino e Giovanni Antonio De' Rossi, ma continuò a coltivare gli studi umanistici te­nendosi stretto, nelle sue prose, a Cicerone, intorno alla cui prosa fervevano in quel tempo vaste controversie. A Padova conobbe anche Paolo da Montalto, calabrese di Squillace, che sarà il suo primo biografo, in quella città sì laureò nel 1537 ma dopo tale data mancano altre notizie di Casopero né sappiamo quando e dove sia morto.
Il Casopero scrisse gli Amores per Fastia (1535), Sylvae (1535) contenenti elegie, epigrammi, compose anche epistole, orazioni e due carmi politici. Virgilio e Tibullo si avvertono dietro il giro  ritmico delle Sylvae, talvolta Ovidio. Indubbiamente gli aggettivi  esornativi sono convenzionali e letterari, si avverte che i com- ponimenti appartengono alla letteratura e non alla poesia ma  l'esercizio letterario è dignitoso, fa parte di un devoto amore  verso l'umanesimo come eleganza di atteggiamento spirituale di  fronte alla vita. Nella letteratura umanistica è difficile ritrovare  profondità di visioni e ricchezza di idee; l'umanista pare appa­garsi della bellezza formale che alita sui versi, di solito c'è nel  poeta la capacità di comporre un quadro sereno, di effondere  sentimenti lievi e misurati. Ma l'imitazione formale restringeva  in confini limitati la libertà espressiva. Si osservi lo sguardo di contemplazione del Casopero che descrive la pace raggiunta dopo il trattato di Cambrai:
Vir mulierque canat, sensibus sociata juventus 
argutum pulset festivo sedula plectro
barbitum, ad astra poli numeros jactetque canoros,
perque domos et templa deum predivite luxu
fulgida sternantur rutilis aulaea figuris.
Casopero negli Amores canta una figura di donna inquadrata in un piccolo mondo paesano, una figura di donna bella per i capelli biondi e gli occhi neri, le labbra rosse. Da Fastia sembra prendere luce ogni cosa:
Panditur et mundi facies, oscuraque cedunt  
nubila, quumque profers, Fastia, poste caput;
clauditur atque atra nitidum caligine coelum 
tecta refers intra cum tua mox faciem.
A Fastia che si reca al santuario di Loreto per implorare la guarigione del padre il poeta invia gli auguri di un felice viaggio, certamente difficile mentre i Turchi infestano le coste della Calabria.
Nei libri degli Amores Casopero sa esprimere in semplici versi sentimenti di amore appassionato ma anche contenuto e riesce a rendere situazioni concrete e vicende minute in modo da comporre un canzoniere garbato e non indegno di avere un suo piccolo posto fra quelli dei contemporanei.
*G. Cianflone, Casopero e gli umanisti calabresi e veneti, II ed. Napoli 1955.