sommario dei post

sabato 6 dicembre 2014

§ 136 061214 Oggi parliamo di fame: Anna Mongiardo e Teresa Gravina Canadè.

Altri post attinenti (sempre se volete):
Per Teresa Gravina Canadè: 23.0.3 Teresa Gravina Canadè: I crustuli, da 'Una calabrese in cucina'.
Per Anna Mongiardo: 122 Tre arrivi, a Cona, a Cirò, a Sicrò Marina.

                                                       ************************
Non so fino a che punto sia evidente quello che in fondo è lo scopo di questo blog, cioè la raccolta di dati, fonti, ‘segnali’, di storia e società della terra che, pur non possedendone una sola zolla, mi porto attaccata dentro. Forse vi è un disegno, in questi scritti che vado annotando, che non è ben chiaro nemmeno a me stesso… non lo so, e forse sbaglio e mi sbaglio: non importa.
Oggi ripenso alla povertà che ha presieduto alla evoluzione, allo sviluppo, o comunque all’essenza stessa, quanto  statica, quanto dinamica, della società e dell’economia dei nostri territori, tutto aggredendo e ghermendo, nel quotidiano, con presa ferrea: una presa governata da quelle forze oscure che hanno nel malaffare e nella cattiva politica la loro massima e puntuale realizzazione.
Di queste condizioni ancora non sanate, ma solo modificate nei loro aspetti più esteriori – parlo dello sfoggio di ritrovati ultratecnologici o più in generale di oggetti che farebbero pensare ad un benessere diffuso che tale non è – credo dicano bene una ricetta (sì, una ricetta, o meglio: una usanza alimentare) tratta da ‘Una calabrese in cucina’, Rubbettino, 2000, dell’ottima Teresa Gravina Canadè, linguista di Corigliano Calabro, e un passo tratto da ‘Il cavallo dipinto’, Edizioni Nazionali, di Anna Mongiardo, maestrina a Cirò Marina (‘Sicrò Marina’) nei primi anni sessanta, del cui libro si è già parlato in questo blog.
Credo non ci sia molto da aggiungere, se non, forse, una considerazione: quello che chiamiamo ‘gap generazionale’, o semplicemente stacco generazionale, o d’età, non è una invenzione, una scusante o una pezza d’appoggio per non capirsi o per non concedersi alla reciproca comprensione, ma qualcosa di reale: è difficile, veramente difficile, intendere – e sentire, aggiungerei – il vissuto di quanti ci hanno preceduti o seguiti a distanza di un pugno di anni… Penso a mio padre, classe 1922, che mi raccontava del suo primo paio di scarpe, comprato in una Crotone raggiunta a piedi nudi o a mio fratello, classe 1947, che mi parlava di quello che era – e purtroppo, da qualche parte è ancora- lavoro minorile, ma potrei pensare anche alle mie vicissitudini, difficili da spiegare già ai miei figli… Cosa voglio dire con ciò? Che le cose che dicono le due autrici richiamate sono, per quanto possano sembrare oggi inverosimili, verissime, e vissute, purtroppo, da fasce di popolazione neanche tanto esigue. Del resto sono convinto che in Calabria anche il mestiere di ‘ricco’ o benestante, per quanto meno faticoso di quello del ‘povero’, sia meno agevole che in tante altre parti d’Italia. 
Una sola nota linguistica, dettata da curiosità e forse peregrina: a Cirò Marina ricorreva, in casi di penuria di ‘cibi’, una espressione come ‘ni manciàm ‘na capa ‘e ncidda’… ho sempre allegato la spiegazione di questa frase a qualcosa di estremamente volgare, con chiaro riferimento ad evidenze falliche (l’anguilla), in effetti, però le ‘ncille’ della ricetta trovano o troverebbero un esito linguistico cirotano in ‘ncidde’, e potrebbe trattarsi quindi di una contaminazione lessicale, tra il volgarissimo, quanto incolpevole, ‘ncidda’, ‘anguilla nel senso di membro maschile’ e ‘ncidda, usanza alimentare sortita dalla ‘creatività della povertà’… vabbè, scusate lo sproloquio e il turpiloquio. Comunque, e qui il discorso, benché basato soprattutto su supposizioni, si farebbe lungo, a Cirò Marina l’anguilla non ha perso la testa, nel senso che generalmente non si ha aferesi: quindi si dice ‘ancìdda’, per cui… vuoi vedere che niente niente ho indovinato con la storia della contaminazione?
Un utilizzo, delle zucche però, simile a quello esposto dalla dottoressa Canadè ho potuto peraltro verificare nel Sannio... sempre di Regno delle Due Sicilie si tratta!
E veniamo al brano tratto da ‘Il cavallo dipinto’ e ai piccoli muli della scuola di Servomalo, che altro non è se non la scuola pluriclasse di Salvogaro, dove andavano soprattutto gli scolari del Tirone.
Per quanto riguarda il passo della Mongiardo, dirò che la ragazza (all’epoca era ventenne, più o meno) mostrava molta sveltezza e che molte sue considerazioni sono ineccepibili, per quanto riguarda i cosiddetti ‘muli’… devo aggiungere, però, che la cosa non è così leggera come sembrerebbe dal testo: 'Ma era veramente scabrosa per lei, per loro (sta parlando della condizione femminile)? Per loro che sapevano non pensare, che vivevano alla giornata la loro vita semplice, senza complicarsela con l'orgoglio, la dignità, l'onore? Parole più grandi di noi, fabbricate dalla società per avvelenarci l’esistenza!', oppure 'Il Crotonese in generale e Sicrò Marina in particolare non è stato invasato dal punto d'onore, legge suprema per il resto della Calabria. A Sicrò le corna sono di ordinaria amministrazione. E questo non solo tra la “gentarella” abitutata a tollerare, anzi a gradire lo jus primae noctis, ma ancor più fra i “Nobili” per i quali le corna sono vincoli di più stretta amicizia, di  maggiore fratellanza', e ancora: 'E così seppi che i miei alunni erano tutti fidanzati, anche la piccola Ida che aveva solo sei anni. Dissi semplicemente “auguri” per non guastare  quell'innocente semplicità col mio scandalizzato stupore,  ma  non  sapevo fino a che punto fossero innocenti né fino a che punto  capissero  cosa  significava  fare l'amore loro che dormivano con i grandi, nella stessa stanza e, magari, nello stesso letto'... Non credo sia proprio così: ‘canu, mulu e figghju ‘e puttana’ (mi scuso di nuovo per il turpiloquio) è un mix di ingiurie che prelude allo scontro totale, quindi ci andrei cauto (muli, madri e morti meglio non toccarli…) perché anche qui il discorso si allungherebbe di molto, e si dovrebbe parlare del ruolo delle vessazioni nella società (faccio per dire) cirotana e calabrese dell’epoca, in un quadro che, come molti sanno, come si può vedere e ricordare, non è dei più edificanti, purtroppo, e il pensiero va quasi naturalmente alle favelas, anche se può sembrare incredibile... e magari lo fosse! 
Mo’ basta; buona lettura, se ne avete voglia.
                                                                  
                                                   *****************************
Da 'Una calabrese in cucina', di Teresa Gravina Canadè:

Dal IV capitolo di 'Il cavallo dipinto' di Anna Mongiardo:

                                             IV

   I miei alunni erano tutti figli di servi della gleba.

   “Signorina, noi da trent'anni siamo a servizio da don Francesco”.

   “Noi siamo con don Mario da quattro generazioni, me l'ha detto il nonno”.

   E così, con orgoglio, vantavano la loro progenie di servi.

   Don Francesco, don Mario, don Ferdinando: li chiamavano semplicemente così ma, in realtà erano gli  onnipotenti  blasonati del luogo o, per meglio dire, della Calabria, con tanto di predicato e di latifondo salvato abilmente dalla legge Sila e dalla legge Stralcio.

   Gli alunni di Servomalo non avevano predicato. Molti non potevano dire nemmeno di Antonio, di Francesco, di Giovanni, ma di Iolanda, di Carmela, di Filomena. Allora, 1960, nonostante la legge per l'omissione, i superiori esigevano sui registri la paternità ed io mettevo, sotto quella voce, molte stanghette. Avevo molti “figli di stanghette”, molti “muli”, come dicevano loro.

   “Signorina, lo sapete che io sono il mulo dell'amministratore di don Mario?”

   Il mulo dell'amministratore, la mula del fattore, il mulo del signore o del servo del signore. Muli, muli, muli a non finire. E non si preoccupavano di non avere padre, c'era sempre una madre che lavorava per loro. I Persaro avevano addirittura due mamme. Sette alunni, tra fratelli e sorelle, veniva-no a volte con una mamma, a volte con un'altra, ed entrambe mi raccomandavano gli stessi figli. Spesso, uscendo di scuola, vedevo quelle due mamme sedute sulla stessa porta che allattavano altri figli.

   “ Antonio, chi è quella donna piccolina che sta allattando?”

   “E' mia madre, signorina.”

   “E quella donna alta che fa la calza, è tua zia?”

   “No, pure mia madre”.

   Per risolvere il mistero un giorno chiesi a mamma Teresa chi fosse la vera madre dei Persaro. Rispose che lo erano tutte.

   “Antonio, Francesco, Lina, Cataldo li ho fatti io. Giuseppe, Nicodemo, Giovanni li ha fatti Filomena, la cugina di mio marito”. 

   “E state insieme?”

   “Sì, stiamo insieme. Lei cucina ed io lavo, oppure va a fare la spesa ed io tengo i bambini”.

   “Mangiamo insieme, solo dormiamo in due stanze diverse”.

   “E vi volete bene?”

   “Sì  poverina, è tanto buona. La casa è mia ma ce la tengo con  piacere altrimenti mio marito se ne va con lei e mi abbandona. Così invece ci mantiene a tutti e dorme una sera con me e una sera con lei”.

   Ecco, pensavo, a che punto di aberrazione può arrivare il desiderio del maschio, la sottomissione al maschio, l'adorazione per il maschio, donne umiliate, schiave da millenni! Poi però guardavo le bocche affamate dei Persaro e pensavo che forse era l'amore, l'amore materno che portava una madre ad accettare una situazione tanto scabrosa.

   Ma era veramente scabrosa per lei, per loro? Per loro che sapevano non pensare, che vivevano alla giornata la loro vita semplice, senza complicarsela con l'orgoglio, la dignità, l'onore? 

Parole più grandi di noi, fabbricate dalla società per avvelenarci l’esistenza!





Nessun commento:

Posta un commento