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lunedì 17 marzo 2014

§ 066 170314 'Calabria Sconosciuta', G. Pisano: Antón Calabrés, un (forse) cirotano in America.

Una rivista interessante, dal taglio classico, nel senso che sotto la bella patina delle pagine si coglie un'altra patina, quella del tempo in cui le riviste si dedicavano effettivamente alla scoperta del patrimonio storico, geografico, demologico delle regioni d'Italia e non solo.
Questa bella rivista, fondata da Giuseppe Polimeni e diretta da Carmelina Sicari, si pubblica in Reggio Calabria ed è arrivata al suo XXXVI anno di vita, vissuta, immagino, in mezzo alle mille difficoltà che dalle nostre parti non solo non mancano mai, ma risultano amplificate dalle condizioni che potremmo definire, tutto sommato, sociali e ambientali. Ne consegue un dispendio di energie, da parte dei curatori della rivista, senz'altro notevole: spero che questo loro impegno non sia vano e che venga in qualche modo premiato... 
Sul numero di gennaio-marzo 2014 dovrebbe apparire un articolo del nostro Francesco Vizza sulla figura di Giano Lacinio, l'alchimista al cui studio il 'Prof' sta dedicando tanta attenzione.
'Rubo' uno stralcio dell'articolo, a firma Giuseppe Pisano, che parla del misterioso marinaio calabrese imbarcato nel primo viaggio di Cristoforo Colombo sulla rotta delle Indie, che potrebbe essere anche originario di Cirò/Ypsicrò, secondo una tesi esposta nell'articolo stesso. Altri lo vogliono, questo Antón Calabrés, proveniente da Amantea o Seminara... In mancanza di fonti certe, siamo alle solite: 'tutti afferricàti aru salàtu'... Il povero Calabrés, a ben guardare, oltre ad essere il primo calabrese a metter piede sul suolo americano, fu anche il primo nostro corregionale a rimetterci la vita da quelle parti, ad opera degli indigeni... Calabrés è quasi certamente non un cognome, ma quella 'denominazione d'origine' a volte - nel bene e nel male - ineliminabile: il cavaliere calabrese Mattia Preti, il calabrese Leonzio Pilato, il calabrese Barlaam, fino al ragazzo di Calabria, per non parlare di tutti i calabresi 'quegli altri'... non se ne esce.
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                               Antón Calabrés: il marinaio calabrese di Cristoforo Colombo

                                                               Giuseppe Pisano

   Fu il primo calabrese a varcare l'Ocea­no e a mettere piede in quel Nuovo Mondo in cui, nei secoli successivi tanti suoi conterranei lo avrebbero seguito. Si chiamava Antón Calabrés, marinaio, l'uomo che assieme ad altri seguì Cristoforo Colombo nel primo viaggio alla sco­perta del Nuovo Mondo a bordo della Pinta. Di lui si sa poco o niente e fino ad ora il suo nome è passato inosservato, nascosto fra le pieghe della storia, di­menticato fra le pagine dei documenti dell'epoca, confuso fra quelli dei tanti che parteciparono a quell'impresa, più di 500 anni fa. Solo nel 1982 il nome dì Antón Calabrés venne strappato per un attimo alle nebbie della dimenticanza quando António Quinto Pisano, all'epo­ca consigliere comunale di Soverato, pro­pose ed ottenne di dedicare una strada al misterioso navigatore, del quale aveva trovato menzione in antichi testi mari­nari. Poi più nulla! Ma chi era e da dove veniva Antón Calabrés? Su quest'ul­timo punto le nostre ricerche ci portano a formulare l'ipotesi che sia di Amantea, antico centro demaniale marinaro il cui porto, nel XV secolo, era il più attivo della costa tirrenica della Calabria centro-settentrionale e l'unico capace di ospitare imbarcazioni molto pesanti . Inoltre, si è potuto riscontrare che in Amantea - dove peraltro la presenza ge­novese a quel tempo era molto intensa - esiste una tradizione orale, in particolare tra gli abitanti più anziani del centro storico, che parla di un'antica commemorazione che si svolse in onore del marinaio amanteano il quale seguì Colombo nel primo viaggio di scoperta del nuovo continente e di lì a poco venne costruita, nella zona vecchia, una chiesetta denominata della Pinta.
   E proprio nella zona più antica di Amantea esiste un vico la Pinta e una fontanella del '500 detta della Pinta. Vi sono però pareri discordanti sulla figura e sulle origini di Antón Calabrés. Secondo lo studioso Gianni Aiello le ori­gini natie del marinaio calabrese di Colombo "potrebbero ricollegarsi in quel di Seminara, lo stesso luogo da dove proveniva Giovanni Calabrese, luogotenente di Carlo V e che guidò l'assedio di Tunisi". Per Bruno Aloi, membro del "Co­mitato Nazionale per Colombo" di Genova, si tratterebbe invece di "António Calabrese di Cirò, quando il paese si chiamava Ypskron". Di Calabrés, come dicevamo, si sa poco o niente. Il suo nome, infatti, compare per la prima volta proprio nei documenti riguardanti il primo viaggio di Colombo attraverso l'Oceano. Prima di quell'im­presa di lui non si hanno notizie, né si sa di suoi precedenti viaggi per mare; il suo nome indica una sicura origine ca­labrese, ma nulla sappiamo della sua famiglia né di suoi eventuali discen­denti. Antón Calabrés, dunque, entrò a far parte dell'equipaggio di Cristoforo Colombo nel luglio del 1492, assieme ad altri due italiani: il genovese Jacome el Rico ed il veneziano Juan Vegano. Per il resto l'equipaggio (90 persone comples­sivamente) era formato per la quasi to­talità da spagnoli (84), ad eccezione del portoghese Juan Arias e del negro delle Canarie Juan Portugués. Non era stato facile reclutare gli uomini. La storiogra­fia ufficiale dice che nessuno, nemmeno i più audaci o i più disperati, erano di­sposti a rischiare la vita in un'impresa che Juan Rodriguez de Mafra aveva de­finito "cosa vana e stolta", profetizzando per gli sventurati che vi avessero preso parte "pericoli orribili". Quando già Co­lombo era riuscito ad ottenere le tre navi (due caravelle, la Pinta di Gomez Rascón e Cristóbal Quintero e la Niña di Juan Niño, ed una caracca, la Gallega del bi­scaglino Juan de la Cosa, poi ribattezzata Santa María) solo quattro uomini, con­dannati alla pena capitale e ricercati dal­le guardie, avevano chiesto di essere ar­ruolati. I sovrani don Ferdinando e Isa­bella, infatti, per facilitare l'allestimento della spedizione, avevano promesso di accordare la grazia più ampia a quanti, già colpiti da pena di carcere o di morte, si fossero arruolati negli equipaggi co­lombiani. Così Alonso Clavijo di Vejer, Juan de Moguer e Bartolomè Torres di Palos e Pedro Yzquierdo di Lepe chiesero di essere ammessi all'equipaggio. Il Tor­res aveva ucciso, nel novembre del 1491, un certo Juan Martin, banditore di Pa­los, forse per una questione di donne. Imprigionato e condannato a morte, era evaso dalla piccola e incustodita prigione locale, grazie all'aiuto di tre suoi amici. Datisi alla macchia, i quattro erano riu­sciti fino a quel momento a farla franca e forse non avremmo mai saputo nulla di loro se la notizia della possibile grazia non li avesse spinti ad entrare nell'equi­paggio di Cristoforo Colombo e nella sto­ria. Ma per convincere gli altri ci voleva il carisma di un uomo di mare conosciu­to e stimato da tutti. Padre Marchena, fedele sostenitore ed alleato di Colombo, pensò allora di coinvolgere nell'impresa Martin Alonso Pinzón, pilota e capitano di mare, navigatore esperto e ricco pro­prietario di una nave con la quale aveva partecipato alla campagna contro i por­toghesi e si era recato anche a Roma, do­ve aveva potuto consultare negli archivi vaticani alcune carte nautiche che aval­lavano sorprendentemente le ipotesi di Colombo. Quando incontra Colombo, Pinzón ha cinquant'anni ed ha navigato tutto quello che c'era allora di navigabile. Gli bastano poche battute per compren­dere di trovarsi di fronte ad un uomo esperto di problemi marinari e dotato della luce del genio. Accetta di prendere parte all'impresa come comandante del­la Pinta ed annette subito anche suo fratello,Vicente Yánez, che sarà messo al comando della Niña. A quel punto, spin­ti dal carisma e dall'esperienza dei Pin­zón, furono in molti, nel giro di qualche settimana, a sottoscrivere il contratto di ingaggio. Fra di loro anche il nostro Antón Calabrés che probabilmente giunse al porto nella tenuta tipica dei marinai, con il berretto rosso conico e la cappa grigia. Per un anno, tanto è prevista la durata della navigazione, riceverà come gli altri dodicimila maravedìs ed ha dirit­to ogni giorno a circa 350 grammi di bi­scotto, ad un azcumbre di vino ed a 250 grammi di carne secca o di pesce. Assie­me a lui, sulla stessa caravella, anche il veneziano Juan Vegano.

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sabato 15 marzo 2014

§ 065 150314 Norman Douglas, Old Calabria, il Cirò e Cotrone.



Norman Douglas, Vecchia Calabria (Old Calabria, Secker, London, prima ed. 1915),  dal Cap. XXXVII, ‘Cotrone’, pagg. 460-465 dell’edizione Giunti-Martello, 1967, 1983, traduzione di Grazia Lanzillo e Lidia Lax.
‘Old Calabria’ è un libro di assoluto valore, soprattutto – come è ovvio – tra quelli che trattano i viaggi nelle selvagge contrade del Sud d’Italia, in quei territori, cioè, avvertiti nel resto d’Europa come una propaggine del continente africano, senza stare troppo a sottilizzare e senza tanti fronzoli o finte accortezze. La Calabria rappresenta la punta più aguzza di questa pessima fama, essendo la sede privilegiata (!) della razza maledetta che da essa nasce, la abita, se ne allontana, a volte per scelta, il più delle volte per obbligo. Va dato atto quindi e reso merito a quanti da viaggiatori, da ‘esploratori’, da appassionati di geografie e popoli, o di antichità più remote – leggasi Magna Grecia – si sono avventurati dalle ‘nostre parti’ fornendone resoconti sotto diverse forme, dalle memorie di viaggio alle stampe che oggi chiamiamo ‘dell’epoca’… La prosa di Norman Douglas è eccellente, lineare, e il suo pensiero è chiaro e penetrante, e non manca di dimostrarlo in questo bel libro, degnamente tradotto.
Le pagine che seguono non sono le più profonde e nemmeno le più belle o interessanti del libro, le propongo perché vi si parla anche del vino di Cirò… I capitoli che preferisco sono quelli finali, dedicati a  Petelia, cioè l’odierna Strongoli, e alla ‘Colonna’. 
Leggendo ‘Vecchia Calabria’, il lettore potrà rendersi conto di quanto poco giovevole, se non deleteria, sia quella frase ‘non facciamoci conoscere’, di fronte alla perspicacia e all’occhio attento del viaggiatore, dello straniero che riesce a penetrare aspetti del convivere sociale che la quotidianità, le abitudini, l’uso reiterato, fanno entrare a far parte del modo di essere di una popolazione intera, con tutte le conseguenze negative che possono derivarne… E’ sbagliatissimo: bisogna farsi conoscere, bisogna uscire da quella nicchia angusta in cui per troppi secoli la nostra terra è stata artatamente ridotta, bisogna confrontarsi, vincere, perdere, darsele e tirare avanti, bisogna imparare… E questo cosa c’entra? C’entra, c’entra… date retta a un fesso. E domandatevi come mai ci siano voluti migliaia di anni, ad esempio, per riportare l’Università in questa terra che aveva accolto Pitagora, Alcmeone, Filolao… a parte il fatto che all’università non ci sono nemmeno andato (o meglio… l’ho abbandonata) e quindi molto meglio di me potrebbero dirlo altri…
Aggiungo solo che mi pare di notare che molti mei corregionali vivono questa condizione dell'essere calabresi quasi come un conflitto, non tanto irrisolto, quanto non meritevole di risoluzione...  Credo che non si sbaglino, ma che non abbiano ragione. Ce ne vuole per liberarsi di nostalgie, rammarico, assenze varie, sbagliando o no, questo non saprei dirlo... ce ne vuole per diventare apolidi, adespoti, anonimi, e capaci di vivere ovunque. 
copertina e risvolto

L'aria è più fresca quando mi sveglio e, guardando fuori della finestra, mi rendo conto, dai morbidi effetti di luce, che il giorno sta calando. Verso quest'ora del crepuscolo la cupola ininterrotta del cielo subisce spes­so una breve trasformazione. Allora si possono vedere, concentrate in altezza, masse di nuvole che si vanno accumulando sopra le alture della Sila e raccolgono nuvole ausiliarie da tutte le parti; d'un subito i lampi giocano attorno ai vapori lividi e sporchi, più oltre si ode alto il brontolio del tuono, verso qualche scroscio dì pioggia inzuppante. Ma sulla pianura il sole continua a brillare con una benevolenza svuotata; nul­la si avverte della tempesta tranne nervosi aliti di vento che sollevano mulinelli di polvere dalle strade di campagna e frustano il mare in una falsa frenesia di ondine arruffate. E’ appena l'interludio. Presto le nubi nero-azzurre sono fuggite via dalle montagne che si stagliano, chiare e rinfrescanti, nel crepuscolo. Il ven­to si è smorzato, la tempesta è finita e Cotrone è, come al solito, assetata di pioggia che non viene mai. Tuttavia qui c'è il ritratto di una Madonna, una fa­mosa Madonna «nera», dipinta da San Luca, che «sempre procura pioggia quando la si prega».
Una volta, veramente, la coda di un temporale deve essere passata sopra le nostre teste, perché sono cadu­te poche e malinconiche gocce di pioggia. Mi affrettai a correr fuori, insieme con diversi altri cittadini, per osservare il fenomeno. Non vi erano dubbi al riguardo; era pioggia vera, le gocce si posavano a rispettabili in­tervalli sulla bianca polvere della svolta che porta al­la stazione. Un ragazzo, che passava di lì con una carretta, osservò che se fosse stato possibile raccogliere quella pioggia in un piattino o in qualche altro piccolo recipiente, sarebbe stata appena sufficiente a calmare la sete di un cucciolo di cane.
Di solito faccio un ultimo tuffo in mare, a quest'ora della sera. Dopo, è consigliabile incamerarsi uno o due gelati - sono eccellenti a Cotrone - e un bicchie­rino di Strega, per eliminare gli effetti dell'eccesso di lavoro. Poi, una breve passeggiata attraverso le strade pulite, ben illuminate e ora affollate, o lungo il viale Margherita, per vedere i militari e gli elegantoni pren­der aria vicino alle onde mormoranti, sotto i bastioni, simili a scogliere, del castello di Carlo V, e infine di lì si va a cena.
Questo pasto segna la fine dei miei compiti quoti­diani; non è permesso a nulla di serio di attirare la mia attenzione, quando il pasto è finito; chiedo una sedia e mi accomodo a uno di quei tavolini dal ripia­no di marmo, all'aperto sulla via, e osservo la folla che fluttua attorno a me, mentre mi fumo un sigaro na­poletano e trangugio alternativamente gelati e caffè finché, verso la mezzanotte, viene stappata una con­clusiva bottiglia di vino di Cirò - sigillo adatto alle fa­tiche diurne.
Si potrebbe dir molto in lode del vino calabrese.
Il suolo è pieno di piacevoli sorprese per l'enofilo, e un giorno o l'altro spero di dar corpo alle mie espe­rienze pubblicando una mappa dei vini della provincia con un testo descrittivo a lato. Coloro che la compre­ranno - se pur saranno pochi - saranno certamente del tipo giusto.
Il buon dottor Barth - e gliene sia resa lode! - ha già fatto qualcosa del genere per alcune parti d’Italia ma non cita neanche di sfuggita la Calabria. E tuttavia qui quasi ogni villaggio ha il proprio tipo di vino e ogni famiglia che si rispetti ha il proprio metodo particolare di preparazione, per quanto poco noti sia­no questi vini fuori del luogo di produzione, a causa delle leggi daziarie che soffocano il commercio in­terno ed eliminano ogni incentivo a fabbricare un buon articolo per l'esportazione. Questo vino dì Cirò, ad esempio, è il nettare più puro, e così è quello che si coltiva anche più vicino, nella classica valletta del Neto e che, molto tempo fa, fu decantato dal vecchio Plinio; e così sono almeno altre due dozzine. Perché, giusta­mente dice Gregorovius, come anche la più piccola comunità italiana possiede il proprio antiquario debi­tamente aggiornato, se si riesce a pescarlo, così, mi si permetta di aggiungere, ogni piccolo luogo in questi dintorni può vantarsi di avere almeno un individuo che vi fornirà del buon vino, se... se voi vi mette­te coscienziosamente al lavoro per scovarlo.
Ora, per quanto in gioventù il Bacco calabrese ab­bia una selvaggia beauté du diable che stuzzica l'espan­sività della gente, già comincia a barcollare a sette anni in una vecchiaia acida, decrepita. Balzargli ad­dosso nel momento psicologicamente più adatto, sco­prire in quali cantine fresche e ricoperte di ragnatele egli stia sognando l'estate dorata della sua virilità - questa è cosa che un forestiero non potrà mai, mai sperar di ottenere senza un competente aiuto locale.
A questo scopo, di solito, mi rivolgo ai preti. Non perché essi siano i più poderosi ubriaconi (lungi da quest'idea; sono bonariamente epicurei, o persino aste­mi), ma a causa della loro insuperabile conoscenza delle persone. Sanno esattamente chi ha potuto con­servare il suo vino dell'anno tale e tal altro, e chi è stato costretto a venderlo o adulterarlo parzialmente; sanno, dalle confessioni che ricevono dalle mogli, il perché e il per come di tutti questi affari di famiglia e condividono, con il farmacista, la capacità di vedere nel più profondo dell'intricata rete della vita familiare. Sono «gialosi», tuttavia, di queste loro cono­scenze e bisogna avvicinarli nello spirito giusto: uno spirito di umiltà. Ma se li portate con tatto sull'argomento, accennando alle innumerevoli difficoltà del viaggiare in terre straniere, alla vita scomoda nelle lo­cande, al cibo che lascia tanto a desiderare e, sopra tutto, al rozzo vino che sta già, temete grandemente, rovinando la vostra sensibile milza (un organo im­portante in Calabria), invocando una tendenza ipo­condriaca che porta a vedere tutte le bellezze di questa splendida terra in una luce odiosa e cupa - trasforman­do i vostri giorni in notti, cioè - deve trattarsi di uno strano prete davvero, se non è compassionevolmente spinto a impartire l'informazione desiderata circa l'u­bicazione del miglior vino di famiglia ottenibile in quel momento. In fin dei conti, non gli costa nulla fare un doppio favore: uno a voi e uno al proprietario del vino, indubbiamente suo vecchio amico, che potrà vendere il suo prodotto a uno straniero con il venti per cento in più del prezzo praticato a uno del posto.
E, in mancanza dei preti, vado da uno dei tipi più anziani di quella tribù di conoscitori dal naso rosso, i cocchieri, anime sempre assetate e mercenarie, e questi, per una piccola attenzione, è capace di svelare non solo il suo segreto ma anche altri, assai più mi­steriosi.
Quanto al padrone della vostra locanda, egli non solleva la minima obiezione al fatto che voi portiate vino d'altri in casa sua. Il suo stesso vino, vi dice, è del raccolto dell'anno precedente e piuttosto aspro (leggermente annacquato, potrebbe aggiungere) - e per­che no? I clienti ordinari sono commercianti che non badano minimamente a ciò che mangiano e bevono, pur che ve ne sia a sufficienza. Non fa alcuna orribile allusione in merito allo sturamento: al contrario, egli assaggia il vostro vino, fa schioccare le labbra e vi ringrazia per avergli fatto fare una pregevole scoperta. Pensa che ne acquisterà egli stesso qualche bottiglia per sé e per qualche intimo amico . . .
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La mezzanotte è venuta e andata. La strada si va vuotando. I passi dei pedoni cominciano a riecheggiare sordamente. Mi alzo per la mia solita passeggiata in di­rezione del cimitero, per intonarmi al riposo, scotendo di dosso le banali e instancabili immagini dell'umanità che potrebbero, altrimenti, perseguitare i miei sogni. Le visioni cittadine sono presto lasciate alle spalle; qui c'è molta tranquillità, sotto il cielo caldo, illuminato dalle stelle; nulla parla di uomini, salvo il faro che ammicca a intermittenze con attività fantomatica - no, è una luce fissa - sul lontano Promontorio della Co­lonna. E nulla rompe la calma salvo il ritmico re­spiro delle onde e un grillo solitario che non ha ancora terminato la sua razione giornaliera di musica stru­mentale, lontano, in qualche fenditura calda delle col­line. Una fragranza soave si leva dalla macchia stretta degli uliveti e dai fichi carichi di frutti e dai vigneti in maturazione che costeggiano il sentiero lungo la spiaggia. «L'albero di fico produce i suoi fichi verdi, e le vigne coi grappoli teneri mandano un buon profu­mo.»
Così procedo attraverso la sabbia, nel buio, circon­dato dalle tepide esalazioni della terra e del mare.
Un nuovo spirito è sceso su di me, uno spirito di bi­blica calma. Qui, allora, sorgeva «la città gaudente, che viveva spensieratamente, che diceva nel proprio cuore: io sono, e non c'è altri accanto a me; com'è divenuta desolata!» E’ difficile in verità persuadersi che su que­sta superficie sorgeva una città popolosa. Eppure è così. Ogni passo è un ricordo. Lungo questo stesso per­corso camminavano le sfarzose dame di Crotone, di­rette a deporre i loro vani gioielli dinanzi alla dea Hera, a un cenno di Pitagora. In questo punto, forse, sorgeva quell'aula pubblica edificata appositamente perché egli potesse pronunciare le sue lezioni.
Indubbiamente, la gente del luogo era stata affon­data nell'apatia del lusso: i tempi erano maturi per il Messia.
Ed ecco! Egli apparve.

giovedì 13 marzo 2014

§ 064 130314 P. La Rizza, Crimisa, da 'Crotone nella Magna Graecia'.



    In questo post riproduco le pagine 109-112 del volume ‘Crotone nella Magna Graecia’, di P. La Rizza, edizioni Calabria Kroton, Crotone 1990. Dell’autore non so dire altro, neppure il nome. Mi spiace, perché, al di là dell’eloquio ampolloso e ridondante - dipenderà dalla a me ignota epoca della stesura del testo? – l’impianto ‘scientifico’ del libro è abbastanza valido: vi si ritrovano notizie certo non eclatanti, ma onestamente raccolte e riproposte, come si può notare anche nelle pagine che seguono e che riguardano Punta Alice, Krimisa, l’acrolito di Apollo Aleo e gli scavi di Paolo Orsi.
    Il lettore che non sia a digiuno di letture relative alla Magna Grecia, rinverrà citati per l’ennesima volta i classici Licofrone, lo Pseudo Aristotele (qui passa per l’Aristotele ‘De mirabilibus ecc.), il più moderno Saint-Non, fino a Orsi e Zanotti-Bianco: del resto, non potrebbe essere diversamente.
   Segnalo come nello scritto del La Rizza venga avanzata l’ipotesi che autore dell’acrolito di Apollo Aleo sia quel Pitagora reggino omonimo del filosofo di Samo, ed è forse questo il punto saliente, per quel che riguarda Krimisa, di questo ‘Crotone nella Magna Graecia’.
    Un’ultima annotazione: chi avesse letto l’opera di Giovan Francesco Pugliese, si renderà conto illico et immediate di come, ancora una volta, l’opera dello storico cirotano sia sempre presente quando si parla di territori ipsicronei: i versi della 'Cassandra' e qualche dubbio avanzato dall'autore sono gli stessi che si possono ritrovare nel I° volume della 'Descrizione dell'origine... di Cirò'.


   Come abbiamo accennato, trattando della geografia della Regione, sul promontorio di Crimisa (Punta dell'Alice), di fronte all'ampio mare, sorge­va un santuario dorico, di modeste proporzioni, sacro ad Apollo Aleo. Alcu­ni antichi autori ne fanno menzione, fra cui Licofrone nella Cassandra ed Aristotele (De mirabilibus mundi). Quegli attribuisce a Filottete la fondazione del tempio di Crimisa, che chiama Crimissa parva civitas Oenotriae; ed indi, narrando la profezia di Cassandra della morte dell'eroe, combattendo con­tro gli Enotri, fa dire alla vergine troiana questi commossi accenti:
Crhatis autem monumenta videbit occisi  
Econtra Alei Patarei delubrum:
che, cioè, il Crati vedrà il sepolcro dell'ucciso Filottete di contro al tempio di Apollo Aleo Patareo (dall'Oracolo di Patara).
    Aristotele dice: ...apud Sybaritas (aiunt) Philoctetem, qui ex Troia profugus inhabitavit... in Apollinis Halei tempio consacravit. L'uno e l'altro, i due autori greci, fanno errore di ubicazione di Crimisa e del suo tempio, collocandoli nel territorio sibarita, nella valle del Crati. Aristotele lascia incerto il fondatore del tempio, che, d'altronde, non può essere stato il mi­tico Filottete; ma i Greci, come sappiamo, si compiacevano di queste origini divine o eroiche! Strabone tace del fondatore del Santuario di Crimisa. Al­l’incontro, Giustino (XX, 1) convalida la leggenda, affermando che il fon­datore di Crimisa e del Tempio di Apollo fosse l'eroe Filottete, il quale avesse in quello deposto con religiosa cura e fervore l'arco e le frecce, dona­tegli da Ercole, che erano state sì fatali a Troia.
Saint-Non (Voyage Pittorique, Vol. III, pag. 90) ribadisce l'esistenza del Santuario da cospicui indizi archeologici rinvenuti personalmente sulla Punta dell'Alice.
La tradizione, inoltre, attraverso i secoli romani e medievali, aveva tra­mandato certe notizie di questo tempio, avvalorate dalla trasformazione di esso in una chiesetta cristiana, dell'età bizantina, dedicata alla venerazione dei Santi Pietro e Paolo. Ma niuno sapeva dove fosse; l'ubicazione dell'edi­ficio era sparita dalla superficie della terra, travolto senza dubbio dalla fu­ria saracinesca e dalle bieche forze della natura in quel litorale ionico non rassodato e malfermo, per cause alluvionali e sopra tutto geologiche, come altrove dicemmo. Occorreva cercare e ricercare, sondare con acume clinico e amore di scienziato e d'artista. A tale impresa si accinse animoso Paolo Orsi. Egli volle, chiudendo la sua sacra missione archeologica nelle venerate terre della Magna Grecia, aggiungere questo nuovo fulgido titolo di bene­merenza alle sue scoperte nel fecondissimo suolo. E, dopo prove infruttuo­se e saggi vani in tutta la muta sterile zolla del promontorio, fin dal 1915, il suo mirabile intuito clinico lo sospinse felicemente verso la vagheggiata meta, su un terreno acquitrinoso, fra Torre Vecchia e il Faro, avvolti dal­l’amplesso del mare, ove era pervenuta per scoscendimenti e dislocazioni bradisismiche, negli oscuri tempi dell'alto e basso medioevo, progressiva­mente sempre più avanzando verso il vorace elemento, una vistosa estremità del classico promontorio.
   Ad iniziativa, dunque, delle Società della Magna Grecia, specie del suo più autorevole e benemerito esponente Umberto Zanotti-Bianco, nel­l’aprile del 1924, aveva affidato all’Orsi la felice campagna archeologica per la ricerca del leggendario tempio; ed alfine, nel maggio consecutivo, lo sco­priva nel greto limaccioso della spiaggia di Cirò, insieme ai reliquati delle sovrapposizioni bizantine.
Non ci attarderemo a descrivere in tutti i dettagli il materiale rinvenuto e gli elementi architettonici e decorativi venuti alla luce dalla fausta scoper­ta, nel loro arcano millenario, dei quali, come al solito, furono presi gli ade­guati rilievi e disegni con felice ricostruzione ideale dal valoroso Rosario Carta, plasmando e completando l'opera dell'Orsi.
Lo stilobata, che doveva servire di base di sostegno alla colonnata del pronao, è in deplorevole stato di conservazione, ridotto a miseri ruderi, nei quali si scorgono le parvenze architettoniche del monumento.
Succedono immediatamente gli avanzi murali della cella rettangolare, nella quale si concentra tutta l'attenzione e lo sforzo dell'Orsi, guidato dal­l’agile e penetrante sensibilità del suo temperamento; ed in quella, dopo ripetuti scavi e affannose ricerche, emerge dalle rovine, dove l'avea cacciato la rabbia iconoclasta cristiana, e su cui era passata l’invida onda dei secoli, l'insigne scoperta dell'Idolo, del divo invitto Apollo, consistente nell'intera testa marmorea con sottile parrucca di bronzo, una mano e due piedi, anche di marmo, appartenuti allo stesso Apollo. Così, è quasi al completo la parte scultoria dell'Idolo, che, consistendo appunto in un acrolito, avea le sole estremità marmoree ed il tronco foggiato con drappo adatto su scheletro di legno, alla guisa dei simulacri dei santi delle chiese cattoliche di villaggio.
Insieme alla principale scoperta, rividero il sole d'Italia, dopo lunghi secoli di silenzio, ed ebbero l'onore della considerazione del mondo ideale altri preziosi cimeli, fra cui varie riproduzioni, in piccole proporzioni, del Nume venerato e venerabile, nei tre metalli; nonché modanature fittili, terrecotte architettoniche, monete, foglie e decorazioni in argento e oro, fram­menti marmorei architettonici ecc. e un cippo lapideo, che dovea essere stato il piedistallo dell'Idolo.
Nel recinto del Tempio erano le case dei sacerdoti, delle quali restano i ruderi. A qual epoca appartengono il Santuario dorico e l'acrolito di Apollo Aleo?
Paolo Orsi, confortato dal parere di altri illustri archeologi, fra cui Rizzo, Majuri e due greci Philadelpheos e Milonas, li giudica originali e indi­geni, e li assegna alla prima metà del V Sec. av. Cr., cioè del periodo prefi­diaco: epoca, in cui visse e rifulse il sommo scultore Pitagora di Reggio, l'ineffabile autore del bronzeo Auriga di Delfo e della statua di Filottete ferito, come riferisce Pausania; è quindi non improbabile che l'Apollo di Crimisa sia uscito dal suo divino scalpello (o, meno, di qualche prediletto suo discepolo), a giudicare dallo stile, dalla linea risoluta e decisa, diritta, dignitosa e soave, dalla molle anatomica tornitura delle guance, del mento e del collo; tutto un insieme armonico di venustà e di grazia virile e slancio di giovinezza, che ricordano l'aspetto del celebrato Auriga.
D'altronde, bisogna tener conto che l'eroe Filottete, scolpito dal Pita­gora, era appunto il mitico venerato fondatore di Crimisa; il che presume una intimità e cordialità di rapporti fra essa e l'artista; e quindi, niente di più verosimile che egli sia stato adibito alla fattura del divino patrono della città, come lo fu del fondatore. Dal cumulo, pertanto, di siffatti indizi e coincidenze, di purezza di stile, di perfezione, di epoca e di opportunità occasionale, emerge chiara la prova che l'Acrolito di Crimisa è uscito dalle mani del sommo Scultore reggino, il primo scultore anatomista dell'antichi­tà greca, caposcuola e maestro, vincitore di Mirone in una gara d'arte scul­toria in Grecia (Pausania); e quindi opera eminentemente indigena delle auspicate terre della Magna Grecia, di già evoluta e luminosa nella calda e vigorosa sensazione e rappresentazione del grande e del bello.
L'ineffabile dio delle arti e della poesia, della bellezza in tutte le sue smaglianti suggestive manifestazioni, etiche, naturali, artistiche, spirante da­gli occhi l'eterna voluttà della vita, sarà collocato ad un posto d'onore nel­l'imminente Museo reggino della Magna Grecia, e circonfuso dall'aureola e dal fascino di un nuovo culto non meno soave e solenne, e più illuminato e profondo, di quello che le pie e venuste donne della Magna Grecia e gli eroi della Patria, i guerrieri e gli artisti gli tributarono.

domenica 9 marzo 2014

§ 063 090314 Luigi Siciliani, Giovanni Fràncica, note erranti.



   In questo post torno a considerare l’opera, ingiustamente trascurata dalla critica, di Luigi Siciliani (Cirò 1881-1925)… ingiustamente trascurata  non rende bene l’idea, forse, dell’ottuso ostracismo di cui l’opera e la personalità del poeta cirotano sono state fatte oggetto; a tale ingiustizia o sommarietà di giudizio sopperisce, per quanto è possibile, la riedizione, da parte dell’editrice ‘La Città del Sole’, dell’unico romanzo pubblicato dal Siciliani, ovvero quel ‘Giovanni Fràncica’, apparso, in prima edizione, a Milano nel 1910, per i tipi del ‘Dottor Riccardo Quintieri’, e subito ben accolto dalla critica. L’importanza del Siciliani negli ambienti politici ed intellettuali italiani di primo novecento è fuori discussione: si vedano, ad esempio, le corrispondenze con Giovanni Pascoli e tantissimi altri poeti, critici, letterati dell’epoca; qui mi preme sottolineare l’assoluta autorevolezza di questo autore, ormai sconosciuto ai più, per quel che riguarda la traduzione sia di classici greci e latini, sia di autori moderni, e da lingue che spaziavano dall’inglese, al francese, al portoghese…
    ‘Le lettere d’amore di una monaca portoghese’, anche queste, apparse a Parigi nel 1669, furono tradotte dal francese (non esiste un originale portoghese) dal Siciliani, nel 1912, e non dovrebbe essere trascurata l’importanza, in certa letteratura epistolare, di queste animose lettere attribuite, a torto o a ragione, ad una Mariana Alcoforado, ma che probabilmente furono scritte da un nobile francese, il conte di Guilleragues. Per la cronaca, anche un mostro sacro della poesia europea, tale Rainer Maria Rilke, si cimentò nella traduzione di quelle cinque lettere…
   Tornando a Luigi Siciliani, ritengo, nel mio piccolo, che il tema dell’amore, oltre a quello della classicità intesa come sogno non avulso dalla realtà, sia fondante nella sua opera. Egli traduce, infatti, oltre alle cinque lettere, gli erotici latini e greci… e li traduce con maestria, non nascondendosi dietro ad escamotages o insistite ridondanze retoriche, quando si tratta di affondare la penna in versi o situazioni per così dire ‘pruriginose’.
   ‘Giovanni Fràncica’ è un romanzo più o meno meritevole di lettura, né più né meno di tanti altri, anzi, a mio modesto parere, in questo caso direi ‘di più’, almeno per il suo valore documentale, poiché parla, anche se non esclusivamente, di quello che fu sicuramente un lembo di Magna Grecia - quindi Crimisa, Crotona, la loro passata grandezza - e di quella incerta particula d’Italia rappresentata da Cona, con il suo secolare abbandono e il suo disperante presente: un divario insostenibile. La voce 'Crotona' usata dal Siciliani non è peregrina, nel senso che già altri autori (si veda nell'opera che ho altrove citato dell'abate Romanelli) volevano accomunare l'etimo di Crotona con quello di Cortona... diciamo che quello di Siciliani è un vezzo o un espediente narrativo: ne sapeva troppe per inciampare in piccoli dettagli del genere.
    Nel romanzo di questo parziale ‘alter ego’ del poeta, narratore in questo caso, si legge anche del disagio di quelle persone (come Fràncica) di un certo peso, non solo locale, che, facendo parte di famiglie che per censo e prestigio avrebbero dovuto guidare le plebi - ché in fondo di questo si trattava - del meridione verso un progresso civile che, oltre a non avere nulla da spartire con gli antichi splendori megalellenici, tarda a tutt’oggi a dar segni di sé… Il Siciliani ne era perfettamente consapevole, dell’arretratezza della sua fantomatica ‘Cona’, e ne parla con cognizione di causa, anche in quest’ultimo capitolo del suo unico romanzo.
   Noto con piacere, a margine, una ‘trovata’ narrativa che, con un po’ di pazienza, il malcapitato lettore di queste mie note erranti potrà facilmente cogliere: ovvero l’apparizione nel romanzo del Siciliani medesimo, attraverso quegli ‘esametri di un nostro corregionale’, che Filippo Moncadi offre al proprio interlocutore durante l'escursione a Capo Lacinio… un po’ come il regista che appare all’interno della pellicola che egli stesso ha diretto… non male, no? La scena, come si può vedere, è quella del ‘sogno pagano’ che si intitola ‘Capo Crimisa’, con un piccolo spostamento spaziale: i personaggi del romanzo si trovano a Capo Colonna anziché a Punta Alice, il resto della scena è immutato o quasi, se non per qualche particolare, e si chiude, purtroppo, con una delle immagini più ricorrenti, ma spero solo malinconica e non lamentosa o piagnona, che appare da tanta letteratura dei vinti: gli occhi pieni e le mani ‘vacanti’.  
   Tutto sommato, Giovanni Fràncica non ha lesinato il suo impegno civile, e, seppure in tanta desolazione, non è caduto, in qualche modo, nella trappola della rassegnazione, dell'abbandono, del disinteresse, dell'apatia… e di tutti quei difetti dai quali, chissà perché, bisogna dimostrare di non essere affetti 'per costituzione'.
Buona lettura,
Cià.


XXIV.
Il giorno seguente di buon mattino una piccola barca a vela salpava dal porto antico di Crotona, dal porto dove forse si erano ormeggiate le antiche triere degli Achei venuti a conquistare pri­mamente quel lembo d'Enotria e a fondarvi la città più vasta e più possente di tutto il litorale jonico, dal  promontorio di Crimisa all'Eraclèo. In essa, celebrata allora per la salubrità dell'aria e per  le  bellissime  donne  donde  Zeusi trasse l'immagine di Elena, erano fioriti Pitagora e la sua scuola, erano cresciuti gli atleti gloriosi per il maggior numero di vittorie riportate in Olimpia, era sorta una per quei tempi mirabile scienza di medici, dei  quali taluno, partendosi, era andato sino in Asia a curare Dario re dei persiani. Da quello stesso porto donde ora la  barca salpava era salpata la trireme armata da  Faillo,  la sola dai greci italioti  spedita  alla battaglia di  Salamina. E ivi poi, decadendo  la città  lentamente, s'erano ormeggiate vincitrici le flotte di Dionisio e di Agatocle siracusani e più tardi le navi fenicie, che rifornivano Annibale negli ultimi  anni della sua lotta contro Roma.  E su quella  spiaggia, e finanche rifugiati presso il delubro di Hera, non mai sino allora violato, il Cartaginese, prima di lasciare per sempre l'Italia aveva  fatto  saettare le  bande  inermi   dei   soldati Campani, Sanniti, Lucani, Bruzzi, che avevano rifiutato di seguirlo in Africa, per impedire che i romani potessero, lui partito, ascrivere quegli adusti veterani nelle proprie legioni.
Il sole s'era da poco levato sull'orizzonte ed irraggiava il mare che, calmissimo, increspava appena l'azzurro dei suoi flutti.
La barca, guidata da due marinai dal volto e dalle mani del colore dell'uliva strafatta, radette  prima la molle sabbia del lido meridionale sopra cui si leva nuda di vegetazione una catena di collinette argillose, con ciuffi qua e là di verdura, pascolo aereo di capre. Biancheggiando sulla costa occidentale s'allontanava Crotona, levata sull'arce antica dei greci e dominata dal labente castello, eretto dagli architetti di Carlo V imperatore e memore delle orgie delle orde sanfediste del cardinale diacono Ruffo. Dietro essa, come una ineguale fuga di giganti, le cime dei monti parevano tendere verso il riposo sull'altipiano della  Sila.
Il cielo era corso da qualche nube candida,  lucente come il latte su cui battono i raggi del sole.
— Non sono nubi di tempesta queste — disse  scoprendo i denti bianchissimi uno dei marinai a Giovanni Fràncica, che sedeva a poppa con ac­canto Filippo Moncadi e teneva volti in alto gli occhi come a dissetarli di azzurro.
    Filippo Moncadi era triste. Poco prima aveva detto a Giovanni: — Gli abitanti della nostra terra nulla vedono oltre il tornaconto immediato e strettamente personale. Non intendono come ogni uomo debba vivere in armonia con quelli che lo circondano e come tutte le forze debbano essere tese verso la formazione di una civiltà nuova espressa dal nostro suolo. Quasi tutti i signori di qui sono collettori di antichità; ma nessuno di là dalla materia cerca l'anima antica, non osano, non dico volere, ma neppure deside­rare uno stato migliore. L'apatia li preme come un giogo di ferro. Stimano vera nobiltà i pregiudizi spagnoleschi che hanno ereditato. La stessa bor­ghesia agricola e industriale, che potrebbe esser libera, si modella su loro; ne prende la vacua pompa,  scambiandola con  la forza e il vigore.
   Io ho lottato, ho voluto essere moderno, e mi sono inimicata la mia casta e non ho conservato i1 favore della moltitudine. Troppo in basso è questa, che io chiamo plebe, e non oserei chiamare popolo!
Egli infatti nel suo sindacato, spirato appena da pochi mesi, s'era fatto iniziatore di un movimento nuovo nella sua città. Il sogno dello splendore di Crotona lo tormentava e lo assillava, ed egli aveva pensato di risospingere i suoi concittadini sulla strada maestra della grandezza di un tempo. Se una città poteva in Calabria risorgere questa era Crotona. Favorita dalla sua posizione sul mare, propizia agli approdi, tutte le energie della Sila, della Magna Sila virgiliana, potevano confluire in lei. Bonificando poi le terre traversate dal Neto, padre di gran messi, tutto il malarico Marchesato si sarebbe potuto ridurre ad un giardino.
Egli riprese a dire: — Acqua verminosa bevevano e bevono con la ricchezza di tante fonti che zampillano là nelle montagne. E perchè io ho voluto, essi fra due mesi avranno l'acqua salubre. La città non sarà più infestata dai mondezzai: ho iniziato la costruzione delle cloache. E i morti anche dormiranno in pace nel cimitero che ho popolato di arbusti e di fiori.
Tutta l'anima di Giovanni Fràncica rideva di gioia. Ritrovava nelle parole del suo compagno quel senso della bellezza che più di ogni altri cosa gli pareva esulato dall'anima dei suoi conterranei, tanta era la miseria civile e morale cui erano stati per secoli e secoli soggetti.
— Che importa — disse — se la vostra casta (da noi esistono pur troppo vere e proprie caste e sono necessarie, tanta è la viltà della plebe! vi ha misconosciuto e ha impedito la vostra rielezione. Voi vi siete coronato da voi stesso, e nessuna corona si porta meglio di quella che si cinge al proprio capo da soli. E poi, bisogna bene che il seme si strugga e si annienti perché l'albero cresca. Forse anche io a Cona avrò 1a vostra sorte.
La barca si teneva ora al largo: evitava gli scogli malfidi che sembrano intorno intorno cu- stodire con la loro scabrosità il rialto dove si levava il tempio della misteriosa divinità sotterra­nea di Hera. La leggenda antica li dice popolati dalle Sirene e memori ancora della astuzia di Ulisse. I due compagni tacevano guardando l’onda coprire di una molle carezza gli irti macigni e scivolar poi giù rapida, senza forza, frangendosi in lembi balbettanti di spuma, per ricominciare eternamente il suo gioco fatto come quello dell'amore di amarezza e di grazia.
  Canta una canzone — disse il  marchese Moncadi al marinaio di prua.
Questi non si fece pregare e intonò con voce strascicata e nasale:
  Nu jornu jvi a nu scogghiu de mari
Stapia cunsiderannu li mei peni;
De dintru l'acqua mi ntisi chiamari,
Donna pariva ed era la Sirena.
Idda mi dissi : Tu chi chiangi a fari,
Mentre a su munnu nun avrai chiù bene?...[1]
  È troppo malinconica questa canzone, cantane un'altra — disse Giovanni.
L'uomo, sullo stesso tono, riprese:
Chiantai nu nucepersicu a la vigna
Chidd'annu chi de tia mi nnamurai !
« 0 persicu, ti chiantu cu disignu :
Si non vinciu l'amure morirai».
E 'n capu all'annu ci jvi a la vigna,
      Lu persicu jurutu lu trovai;
      Lu persicu mi disse : Va vattinni !
      Segui l'amure ca lu vincerai.[2]
Il canto si perdeva tra cielo e mare.
— Ammaina! — disse il compagno rivolto al cantore che aveva terminato la sua canzone. Entrambi si posero a sciogliere le scotte e a raccorre la vela; poi profittando di una piccola cala che si apriva tra gli scogli spinsero avanti col remi la barca, fino al lido coperto di grossi ciottoli politi e consunti. Approdarono. Il marinaio senza canto rimase alla custodia del legno, l'altro, il cantore, seguì i due pellegrini, che presero a salire una breve erta scoscesa. Quando furono al sommo apparvero ai loro occhi le rovine, distese inerti sulla terra arida. Avanzarono per il leggerissimo pendìo calpestando con i loro piedi piccoli frammenti di muratura e di suppellettili antiche, triti, resi ormai simili a ghiaia. Giovanni ne raccolse qualcuno: pezzi di calcinaccio levigati da un lato, v'apparivano ancora le tracce di un colore rosso vivo su cui s'era indurita la polvere degli anni, e frantumi di terrecotte dipinte.
Tranne un enorme blocco di muratura romana, di quella che veniva chiamata opera reticolata, inclinato e mirabilmente in bilico sulla base sgre­tolata e più in là, a cento metri, una colonna di ordine dorico, nulla restava delle costruzioni anti­che: altro non si vedeva che le incomposte vaste fondamenta del tempio e sovrapposto ad esse qualche masso squadrato di pietra granulosa, dura. Una secolare ingordigia si era nutrita di quelle magnifiche rovine, parendo volesse farne perire perfino il ricordo: un vescovo contemporaneo di Giulio II e di Leone X ne aveva tratto le pietre per il suo palagio, gli architetti di Carlo V il materiale per il Castello, i riattatori del porto antico e i costruttori dell'inutile porto moderno i macigni da opporre all'impeto dell'onda, i pochi privati che hanno eretto alcuni simulacri di ville, a poca distanza da esse, le pietre delle case e dei chiusi.
E la maledizione della dea pareva pesare sul luogo: tranne qua e là qualche piccola macchia di mirti, di lentischi, di eriche frutescenti nulla più vi cresceva. Non v'era segno che là presso si fosse alzato, secondo il costume dei greci in sacro recinto, il bosco della dea.
— A che cosa è ridotta tutta la bellezza di un tempo! — esclamò il marchese Moncadi. — A primavera, quando il terreno si copre qui intorno di timo, più d'una volta le vacche che lo pascono vengono a cercar l'ombra breve di queste rovine per sfuggire all'assillo.
    Il pensiero di Giovanni Fràncica corse al Foro Romano. Egli disse: — Anche a Roma è accaduto lo stesso; il suo Foro si è per secoli chiamato il Campo Vaccino. Quando gli italiani, dopo quindici secoli, si sono ricordati della loro vecchia anima pagana, allora il piccone è sceso sopr'esso e ha scavato e ricercato le vestigie sacre: le interroga oggi e le custodisce Giacomo Boni.
— E verrà mai tempo che il piccone scenda anche, non più sacrilego o furtivo, come sinora, ma guidato da mano sapiente sopra queste rovine? — chiese con amarezza il Moncadi.         
Erano giunti presso la colonna, che si leva su alcuni massi rettangolari corrosi, posti su tre sca- glioni, anche essa profondamente corrosa nelle sedici scannellature del suo scapo, con l'ovolo e l'abaco al sommo spezzati dalla salsedine, dalla canicola e dalla tramontana: s'ergeva scabra verso il cielo quasi affinandosi nella chiarità e digradando rapida al sommo, unica e decrepita testimone della grandezza e della forza antica. Negli anfratti del precipizio dirupato che s'apre a picco sott'essa, l'instancabile ondeggiare dei flutti pareva per l'amplissima distesa del mare venire dall'Ellade opposta a darle con un singhiozzo l’estremo saluto.
Filippo Moncadi riprese: — Lo spirito che crea la bellezza è forse quello stesso che la distrugge. Nello stesso luogo dove si ergeva il tempio di Hera Lacinia, il più bello dei santuari della costa ionica, noi non sappiamo più costruire una casa| dalle linee armoniose. Con la coscienza civile si sono perdute la ricchezza e 1' arte. Non è molto ho letto alcuni esametri di un nostro conterraneo che esprimono come non potrei meglio il mio sentimento. Forse li conoscete, ma mi è caro ripe­terli davanti a queste rovine:
Noi che chiamati fummo greci, ma greci più grandi,
noi, ora siamo negletti in solitario abbandono.
Densa la tenebra grava dove splendette la luce
ch'arde pel mondo, che accende dovunque fiaccole nuove;
ma scorre lungi più sempre dal suo focolare nativo.
Ricca d'armenti è la terra, ferace di grani, di viti
e di cinerei ulivi fuggenti dai monti sul piano.
Fischiano al vento le forre donde zampillan le fonti.
Agita il faggio, il pino, l'abete, il castagno le fronde:
s'alzano i tronchi grandi di centenaria potenza.
Forti son gli uomini, saldi, acuti di mente, tenaci;
ma per il piano li sbianca la trista malarica febbre,
per le montagne li preme la necessità della vita
ed i loro occhi non sanno la grande bellezza passata.
Il marinaio, che ascoltava qualche passo indie­tro, s'arrischiò a dire: — Don Filippo, questa che dite deve essere di certo una canzone; ma io non riesco a capirla; e ne so tante!
Filippo Moncadi sorrise e non rispose. Trista­mente, con gli occhi chini, a fianco di Giovanni Fràncica egli prese la via del ritorno.
FINE
Non cerchi il troppo diligente lettore sulle carte geo­grafiche il nome di Cona; non lo troverebbe. Il modo con cui in essa si vive è un poco quello di tutti i piccoli paesi della Calabria, disseminati sulle estreme pendici della Sila.


[1]Andato un giorno a uno scoglio sul mare
Io stavo considerando le mie pene ;
Da entro l'acqua m'intesi chiamare,
Donna sembrava ed era la Sirena.
Ella mi disse : Tu che piangi a fare,
Quando nel mondo non avrai più bene?...
[2] Piantato ho un nocepèsco nella vigna
Quell'anno che di te mi innamorai !
« Nocepèsco, ti pianto con disegno ;
Se non vinco l'amore morirai ».
E in capo all'anno tornato alla vigna
Fiorito il nocepèsco ritrovai;
Il nocepèsco mi disse : Va via !
Segui l'amore che lo vincerai.