Nell'imminente ricorrenza della festività di San Cataldo, si propone qui uno
scritto, solo graficamente modificato dallo scrivente, per cura di Salvatore Salomone
Marino (1847-1916), apparso sul primo fascicolo (Gennaio-Marzo 1882) della
rivista trimestrale dell'Archivio per lo studio
delle tradizioni popolari, edita in Palermo da
Luigi Pedone Laurel, e diretta, oltre che
da Salvatore Salomone-Marino, dal grande, grandissimo,
Giuseppe Pitrè (1841-1916), la cui opera
benemerita, in un campo irto di inciampi come potevano essere quello delle nascenti o balbettanti scienze umane come l'antropologia culturale o l'etnografia (diremmo oggi, allora demopsicologia o
folk-lore, col trattino), non è forse adeguatamente conosciuta e lodata, fatti
salvi gli addetti ai lavori e forse qualche altro sporadico estimatore. Notato
che la cultura siciliana, italiana ed europea persero nello stesso hanno questi
due grandi studiosi? Tornando all'Archivio, o
meglio alla sua rivista, essa si pubblicò dal 1882 al 1906 e rappresenta un vero patrimonio di
conoscenze e cultura, dove l'interesse per il folklore non conosce limiti
spaziali o temporali e qualsiasi 'fatto' umano vi viene accolto e consegnato ai
lettori e alla posterità. Cosa c'entra San Cataldo? Beh, leggete, e si vedrà di quale importanza sia investita la figura di San Cataldo in una pratica di assoluta importanza, nel mondo agricolo, come la trebbiatura fatta sull'aia, che in cirotano si chiama pisèra: al nostro compatrono si levano i voti affinché due condizioni fondamentali, il vento e il caldo, si mantengano, persistano, per sua intercessione, garantendo la buona riuscita della trebbiatura, nei tempi sperati. Il testo del Salomone-Marino, oltre alla 'chicca' relativa a San Cataldo, peraltro venerato in un buon numero di località siciliane, rimane e costituisce una buona memoria di come si svolgeva 'a pisera'. Buona lettura, se vi va.
CatàvurAmorusu.
IV. Intorno all'aja.
È il tempo della trebbiatura: andiamo a rivedere il nostro contadino a
quel lavoro che, coronando le speranze e le fatiche di otto mesi, gli porterà
finalmente in casa la grazia di Dio, che servirà all'annua provvisione (mància) e a saldare qualche debituccio
contratto nei giorni improduttivi del maggio. È questo il lavoro a cui si può
nel senso rigoroso del vocabolo applicare il versetto del Genesi: Vesceris pane tuo in sudore vultus tui. In
piena canicola, con questo po' po' di raggi africani che dardeggiano la
Sicilia, immaginate che sorta di tormento (mi servo della precisa ed efficace
parola del villico) sia la trebbiatura. E pure ei la compie cantando: nella poesia,
sposata alla religione, attinge lena e sollievo e il lavoro va innanzi
allegramente e rapidamente.
Siamo tra le 10 e le 11 del mattino; da due ore le mannelle, tolte alla
bica che sorge lì presso, sono già scomposte e sparse nell'aja, sì che il sole
n' ha rasciutta la brina. L'ajata d'ordinario si batte a mule appajate: più di
rado vi si cacciano i buoi o gli asini. Il numero delle coppie di mule (cucchietti) è proporzionato alla vastità
dell'aja: ogni coppia ha un reggitore o guidatore (caccianti) che dal centro dell'aja regge le redini e mena
incessantemente la sferza di fune (capu),
non tenendosi fermo, ma senza posa correndo dietro alle coppie che si fanno
girar in tondo sempre di trotto. Gli altri lavoratori stanno attorno (turnanti) e col forcone (tradenta, tridente) riaccostano all' aja
le spighe che i pie' delle bestie correnti fanno saltar fuori, e insieme
aggiustano il cerchio di essa (attùnnanu)
che, com'è naturale, si vien guastando durante la trebbiatura. Caccianti e turnanti
si dànno spesso la muta, perché sia da tutti portato il lavoro più pesante dei
primi; ma di regola i soli giovani assumono la parte di guidatori, i più
anziani rimanendo sempre lavoratori col forcone. Sì i primi che i secondi indossano
camicia e mutande di tela, e in testa un largo cappello di foglia di
cerfuglione (cappeddu di curina).
Quando le spighe sono state
battute una buona ora, le coppie delle mule si cavan fuori dell'aja; e
mentr'esse mangiano un poco di biada, tutt' i lavoratori si dànno premurosi a
rimescolare e rivoltare l'ajata (vùtari
l'ària), per far che tutta ugualmente rimanga battuta e granelli non
restino entro le lolle. Questa si dice la prima battuta, la prima càccia; poi
succede la seconda, poi la terza, e talora anche la quarta, secondochè porta la
più o men buona qualità e grossezza delle spighe e il caldo della giornata.
Dopo ciascuna càccia, si rimescola e
rivolta l'ajata; eccetto nell'ultima, perché dopo essa i lavoratori, preso un
boccone, si fanno del saccuni un cappuccio
(ad evitare che la loppa vada loro giù per le reni) e si mettono prontamente a
spagliare prima che, col cadere del giorno, cada il vento.
Or il reggitore della coppia di mule, pur correndo e frustando, canta
verso a verso ed a voce altissima alcuni mottetti proprj della trebbiatura (muttetti di lu pisutu) , i quali per la
loro importanza e non dubbia antichità mi paiono degni che si conoscano. Sono
versi di lode e ringraziamento a Dio ed ai Santi, di incitamento alle bestie,
di accenni alle fatiche stragrandi della ricolta ; e mi richiamano a mente
altri consimili della Corsica, riferiti dal Tommaséo (Canti pop. corsi, p. 300); ma a questi non mi fermo perchè, come il
lettore avrà visto, io ometto a bello studio i numerosi confronti che de'
costumi contadineschi delle varie regioni d'Italia si potrebbero instituire.
Al primo cominciare a
romper l'ajata, il caccianti si segna divotamente e dice:
Sia
lodato e ringraziatu
lu
santissimu Sacramentu.
E i turnanti rispondono:
Sia lodatu e ringraziata
sempri
ogn'ura, ogni momentu.
Il guidatore dà
una frustata, le mule trottano. E' le comincia a chiamare per nome: O baja! —O muredda! —O farba ! —O
pulita! —O mirrina! —O valenti! — e
aizzandole sempre più, vien gridando ad
intervalli e verso a verso :
Allegramenti,
cori cuntenti !
....................
Giria e vota
comu 'na bedda Greca batiota !
vota e girìa
comu 'na Greca
dintra la batia !
...........................................
Arrispìgghiati, curuzzu,
damu volu a lu piduzzu !
damu lena ! damu ciatu !
Viva Diu Sagramintatu !
..................................
Viva sant' Ùrsula
cu la santa cumpagnia !
Arrispìgghiati, vita mia !
Regolarmente, ad ogni strofa nuova cala un colpo di ferza;
e tra
l'una e l'altra passando un certo spazio di tempo, si tramezzano di tratto in
tratto le parole di incitamento: Allèghira ! — Occhiu vivu! — Vulamu
!—Avanti, avanti! — e di nuovo: O baia! — O muredda ! —
ecc. Il caccianti va guidando le mule or verso un capo soltanto
dell'aja, or al centro, ora alla periferia; egli accompagna questi atti co' versi:
E damu a
stu cantu
cà cc'è l'Àncilu santu;
e damu a sta testa
cà cc'è l'Àncilu ch'aspetta;
ed a
lu menzu
cà cc'è San Vicenzu.
...............................................
E dàmucci a lu fora,
cà l'armaluzza cu lu ventu vola !
e dàmucci a lu centru
cà l'armaluzzi vannu cu lu ventu !
Quando si
fa alle coppie voltare spalla, cioè
girare in senso opposto di prima, il guidatore, eseguita la conversione, dice :
Arrispìgghiati, curuzzu,
arriventa la spadduzza;
arriventa e cogghi ciatu,
viva Diu Sagramintatu !
E Sagramintatu sia,
viva Gesuzu, Giuseppi e Maria !
Allorché ogni càccia sta per compirsi e le coppie debbon esser tratte fuori dell'aja, il guidatore canta :
Ed arrèggiti, gran mula,
ca t' he dari 'na bona nova.
— E chi nova è chista ?
— Vai a lu ventu e t'arrifrisca.
Tu va' a lu ventu,
eu a lu turmentu:
sia lodatu lu santu
Sagramentu!
...................................
Santu Nicola!
Beddu lu santu,
bedda la parola;
a la turnata
l'armaluzzi fora.
............................
E unu pri tia,
e unu pri mia,
e unu pri la virgini Maria!
E sì dicendo si compiono tre
giri, e le mule sono tratte fuori dell'aja.
Nell'ultima càccia, allorché i mannelli si
vedono ridotti in paglia e il frumento già tutto sgusciato, il
guidatore, dopo d'aver incitato le mule con le parole: Allèghiri, muli, ca la pàgghia è fatta!,—
intona una nuova serie di mottetti co' quali dà compimento alla fatica delle trafelate bestie:
Ed arrèggiti, gran mula,
ca t'hè dari 'na bona nova.
— E chi nova è chista ?
— Va' a lu ventu e t'
arrifrisca.
Tu va' a lu ventu,
eu a lu turmentu:
lodatu lu santu
Sagramentu !
.........................................
È ditta,
è
ben ditta,
'n Celu si trova scritta:
l'Àncilu sia lodatu
e Diu Sagramintatu.
Vui dàtinni cuncordia,
Sìgnurì
di misiricordia,
cà scatta (scoppia) lu Diàvulu.
E viva la Madonna dì la Grazia !
......................................
L'ura
vinni,
la
grazia scinni,
e scatta
lu Diàvulu.
E viva la Madonna di la Grazia !
.....................................
Ed ogni
ura, ogni mumentu
sia
lodatu e rìngraziatu
lu santìssimu e divinìssimu Sagramentu !
E qui tutti gli altri lavoratori ripetono anch' essi
questi tre versi a voce più bassa. Indi il guidatore
recita il Credo, pronunziando a chiara voce solo le
prime parole ; similmente vien poi recitando
molti Pater per molti Santi, protettori delle loro fatiche e delle loro
bestie. Così se n'ha uno per San Catàuru (Cataldo), chi
mantegna lu ventu e lu càudu, tanto necessarj a quegli infelici perché si sbrighino presto del compito del dì; uno
per Sant'Aloi, chi proteggi l'armali ora e poi; uno per San Marcu
glurienti, chi nni li manna
pròspiri li venti, ecc. ecc. In
fine, mentre le coppie delle mule fanno gli ultimi giri nell'aja, il
guidatore canta gli ultimi versi:
Torna, ben torna:
viva san Giusippuzzu
e la Madonna !
la Madonna e lu
Signuri,
e viva lu santissimi!
Salvaturi !
..................................
Santu Nicola !
beddu lu Santu e
bedda la parola:
e a la turnata
l'armaluzzi fora.
.......................
Santa Anna !
Sant'Anna ch' è la mtiri d' 'a Madonna,
viva la pruvidènzia chi nni manna !
...........................
San Cucuddu !
Quannu chi manciu eu nun vegna nuddu.
E finuti di manciarì
ni nni jamu tutti a spagghi'ari.
...................................
San
Lorenzu !
San
Vicenzu !
La pàgghia è fatta, e li muli 'n menzu.
..........................
San
Simuni !
Porta
l'acqua e l'acitu, e lu mazzuni.
...........................
San
Pricopu !
Acchiana,
scinni, e pìgghiati lu locu !
Quest'ultimo verso viene ripetuto in
tre tempi; e le mule non appena sentono l'ultima parola che per pratica intendono,
scappano
allegramente saltando fuori dell'aja. Il guidatore allora, preso il mazzuni (mazzetto
di fili di sparto o altra erba) ch'egli ha chiesto nel mottetto penultimo e
inzuppatolo nell'acqua e aceto, lava alle mule le feritucce che con la sferza ha prodotte; e quindi abbeveratele, le conduce alla pastura.
Di prima sera, finiti di spagliare (nisciuta
la pàgghia), e mentre attendono che la minestra venga a
rinfrancarli, i nostri contadini rimangono tutti sull'aja : qualcuno siede sul
pagliolo o vi appoggia il dorso; i più si stendono su' vigliacci,
quasi sempre bocconi, per dar riposo alle reni
intormentite, com' essi si esprimono. Il
vento è caduto, luccicano le stelle o splende la luna, la campestre quiete è solo interrotta dal monotono stridere
delle cicale. Così scorre qualche quarto d'ora; poi la minestra viene, in certi
catinetti di terra cotta di forma e misura invariabili, che si addimandano limmunedda, e si mangia allegramente e si
dànno frequenti baciozzi al fiasco.
Da questo momento cambia la scena.
Nell'aja si inizia un cicaleccio animatissimo, sorgono i motti pungenti, le frasi
equivoche
e a doppio senso, gli scherzi, le barzellette, i giochi, le sfide. I più maturi duellano con la lingua e gareggiano di spirito; i più vigorosi fanno prove di forza ed esercizj di lotta;
i più giovani, capitomboli o giochi infantili, che
sull'aja non si disdegnano da chi non è più fanciullo.
Se c' è un poeta nella brigata, il che non
è raro, egli improvvisa canzumi d'ogni fatta, rispondendo pronto e
arguto agl' inviti, ai frizzi, alle ingiurie che gli si volgono a bella posta per eccitarlo di più: ogni canzuna ha un
séguito di applausi con voci alte e battimani,
e talora anche qualche altro suono di labbra
imitante quello del Barbariccia dantesco, per provocare una archilochea risposta del poeta a protrarre così il canto
improvviso a cui tutti pigliano gusto infinito. Nè
difettano mai gli strambotti tradizionali ed i fiori o
stornelli, i quali vengono cantati solitamente
da' giovani con accompagnamento di scacciapensieri (mariolu,
'nganna-larruni) o di zufolo (friscalettu), strumenti ch' essi
abitualmente sogliono recar in tasca. Così
lietamente si spassano una o due ore, finché grado a
grado la brigatella si dirada, essendoché Marcu è venuto alla chetichella
con la sua rete a inviluppare l'un dopo
l'altro quella bonissima gente. Marcu è un pescatore cosmopolita, che piglia tutti, anche quelli che lo sentono
nominare ora la prima volta: è il sonno!
salvatore salomone-marino.