Tempo di vendemmia, vendemmie sempre più procrastinate, rimandate, dilazionate, a quanto mi è dato sapere, vuoi per i cambiamenti climatici, per le mutevoli condizioni di mercato, per le speranze o l'attesa di un aumento di prezzo... o di peso delle uve dopo le piogge (che fa quasi lo stesso, mi pare, - e questo dico da profano della materia e di nullatenente terriero.)
I ricordi però sono tanti... uno su tutti, i salti sui cumuli di 'vinazza' da sopra i muri di una casa - non ho mai capito se in costruzione o in rovina - di via Roma, proprio vicino ad un deposito di casse da morto, dentro al quale, con grande paura (veramente la parola giusta sarebbe un'altra), non so come, né perché, mi ritrovai... forse giocando all'ammucciatedda, chissà... e come se non fosse bastata la pila di 'tavuti', uscito fuor del pelago alla riva, mi ritrovai dinnanzi una donna magrissima, altissima (la parola giusta sarebbe allampanata, o dinoccolata), con in volto una inenarrabile tristezza... la ricordo come una nobildonna in disgrazia, sì, lo era di sicuro, e spero non me ne voglia, dove ora certamente si trova... Però, bastò un momento, e, entrato nella casa adiacente al deposito, credo di essermi illuminato in volto, come sempre quando vedevo dei libri - all'epoca non è che si trovassero così facilmente nelle case - e tra tutti uno ne ricordo: l'opera di Adriano Tilgher, benché scritta, come tanti altri, in tedesco. Ricordo che la signora mi regalò un dizionarietto, oltre a farmi bere un po' d'acqua...
Bene, visto che sono sopravvissuto ai tavuti, vediamo cosa dice G.F. Pugliese di uve, vini, vigneti e vitigni nella sua 'Descrizione...'
Certo, i tempi sono cambiati, ma certe cose no, e, come potrete vedere, non sono poche, soprattutto per quanto riguarda quei 'fondamentali' che bisogna conoscere e possedere.
Aggiungo che quello che segue è Pugliese, poi ci sarebbe Padula, e il confronto tra i due è cosa molto interessante: mi ci sono provato, in un mio commento ad uso personale dell'opera di G.F. Pugliese, e devo dire che... beh, magari poi lo dico, in un'altra puntata.
E magari aggiungo altre note che qui mancano.
VIGNETI, VINI ED ACQUAVITE.
I Vigneti oltre le poche e ben
ristrette specie di uve da mangiare, e da stipa, tra le quali primeggia la Roja, o Ruggia; costituiscono
un ramo importante, e si coltivano da tutti generalmente perché non vi è chi
non avesse una piccola vigna. Sussistendo le promiscuità era facilissimo di
ottenere per due carlini di rendito o annuo canone un pezzo di terreno per
impiantarvi mille maglioli. Però l’ardore per accrescere tali proprietà, grande,
verso la fine del secolo passato, e massimo ne’ principii del presente, va a
gran dosi scemando. Tre arature profonde formano tutta la preparazione del
terreno ove debbe piantarsi la vigna, e queste arature ad intervalli per
concuocersi e sminuzzarsi il terreno come di ottima maggese. I magliuoli si
raccolgono in Gennaro e si pongono sotterra. Ad Aprile tre uomini piantano
mille viti: uno cava le fornelle tre palmi lunghe, due
larghe, uno e mezzo a due profonde: un altro pianta i maglioli mettendo il pedale
in faccia ad oriente, coricandolo alla profondità del letto, e rialzandone il
capo dal lato opposto, e sempre in fila parallele e quadrate: un altro colma e
pigia. Si mangia in questa occasione a stravizzo: si beve fino all'ebrietà, ed
in sei ore al massimo la piantagione è fatta. Perloppiù i terreni impiantati a pastine, denominazione
che si dà alle novelle viti, esclusivamente si addice ad orti di cocomeri e
melloni, che rinfrancano spesso tutte le spese: dopo 11 mesi si tagliano i capi
rasenti terra: si zappano e rincalzano bene, e si tornano a ripulire in maggio
o principii di giugno, ciò che dicesi ammajare.
Al 2° anno si fa la stessa coltivazione, e si mette il palo che perloppiù è di
canna. Al terzo anno comincia il prodotto, talché al sesto anno si dice pastinona.
Le viti si sostengono col palo fin che non hanno acquistato robustezza. Non
si crescono di altezza maggiore di due palmi sul livello della terra, ed usciti di palo, vale
a dire sostenendosi per una discreta grossezza da per loro si dicon vigne
fatte. Una vigna appena piantata si valuta un grano a vite, poi
due, poi tre, e fino a cinque e non oltre la vigna fatta. L’ordinaria coltivazione
e bene intesa deve essere: un anno a dicembre o al più gennaro si scalza: a
marzo si zappa in piano: a giugno si ammaja e si ripulisce dalle erbe con
zappatura superficiale. A febbraro o marzo si puta, a giugno si
stralcia, che dicesi svitignare.
Questa puta e svitigna è sempre costante, e si usa la puta tagliando rasente
tutti i salmenti senza lasciare affatto cannello con due e tre occhi come
altrove, ma un solo occhio per posta, talché la testa della vite si forma come
cranio, e la diciamo volgarmente crozza. Il non aversi
però riguardo alla diversa natura ed esposizione de’ terreni rende vizioso questo
metodo, e già cominciano i diligenti coltivatori ad avvedersene. Più nella
contrada Marina la puta si esegue da febbraro a marzo, non cosi al Vallo, ove
si puta in aprile, e dopo che i salmenti cominciano a vegetare, e ciò perché si
teme la gelata in tal contrada. Pria della puta si spuntano i salmenti in
gennaro ed anche prima, ciò che dicesi approcciare. E
ritornando alla zappatura: nei 2 seguenti anni dalla scalzatura, si zappa
solamente e si ammaja. Vale a dire un anno scalzatura, o zappatura, per isbarbare
a fondo le viti, e farle godere l'influsso dell’aria: due anni zappa in piano.
Il prodotto varia dai 10 barili per
ogni mille viti a’ 30 barili: il medio generale è di 20 barili ogni
migliajo, che dicesi pezza.
La vendemmia comincia dalla metà di settembre per le pastine, e dagli
otto di ottobre a tutto il mese per le vigne vecchie. Questa operazione la più
interessante, forse è la meno curata. E’ la stagione in cui ricorre il travaglio
della preparazione delle terre per la semina de' cereali, della semina del
lino, della raccolta delle ulive; quindi una confusione, un imbarazzo, un
alternarsi di lavori che non si possono tutti con esattezza compire. Più, si ha
molta fidanza nella bontà de' terreni, e nella mediocre riuscita de’ vini
per non curare né la fermentazione né il tramutamento né la chiarificazione. La
massa della vendemmia si conta a palmentate. Quasi ogni vigneto ha il suo
palmento di fabbrica che consiste in una vasca superiore che sgorga per un
canale a prospetto sul sottoposto tino anche di fabbrica con intonaco di calce.
Alla base del palmento e lateralmente giace una trave orizzontale al terreno e
che dicesi dormiente, a questo si innalza rasente il muro
del palmento e verticalmente un legno alto detto ominello, che
di poco supera l'altezza dell’uomo. A questo s’incavicchia una salda traversa
anche di legno, detta traversagno che passa per un foro
bislungo dalla parte esterna del muro ove sta appoggiato il palmento. Le uve si
raccolgono da due o tre donne delle quali una le trasporta in grandi corbelle
al palmento fin che trovasi colmo. Un uomo robusto si scalza, entra nel palmento
e pigia le uve che scolano pel canale nel tino. Raccoglie quindi le scorze, i
graspoli, e tutta la vinaccia alla parte dove è piantato l’ominello vi
soprimpone il pressojo detto pisulo, quindi
sopra vi passa la traversa che incavicchia e ritiene in un capo all’ominello,
dall'altro vi applica una specie di culla, e che perciò dicesi naca, che si carica di pietre, per
premere bene le uve sotto il pressojo: dicesi questa la prima mano. Mentre che
scola l'uva pigiata, e messa sotto il pressojo, si mangia. Dopo si scarica la naca,
si ripiglia quel che dicesi concio, e si riunisce al lato opposto imponendovi
la pressione nello stesso modo: e questa è la seconda mano: la terza siegue a
notte avanzata. Questa è la vendemia ordinaria senza il rimescolo. Ma se questo
si voglia fare, ciò che si usa comunemente da' ricchi o commodi che hanno a
loro disposizione almeno due palmenti, dopo lo scolo di seconda mano, si spande
nel palmento la vinaccia, si chiude bene il canale, e con cati si prende il
mosto dal tino, e si versa nel palmento. Si lascia cosi per fino a mezza notte,
e poi si fa scolare, e si preme per due e tre mani la
vinaccia fino a rendersi asciutta. Nei mosti troppo densi si usa l’acquata, che
si mette nell’ultima mano, o sia nell’ultima pressione
della vinaccia. Non si sono usati mai strettoi; e perché l'attuai metodo di
pressione fa restare sempre una quantità di mosto , comunque la più debole, ma
la più carica di colore, son già circa 30 anni che si sono introdotti i trappetelli,
o piccoli torchi alla genovese co’ quali si spreme l'ultima vinaccia, e rende
da circa 2 barili, e non meno di uno e mezzo per ogni palmentata. Ne’ primi
tempi i trappetelli erano una speculazione di estranei alla vendemia, ora quasi
tutti i proprietarii di vigne l'hanno adottati, e ne risulta un vino più
colorito distribuendosi però con giusta precauzione. Se questo mosto si mette
solo degenera in aceto. Molte sarebbero le riflessioni che merita la nostra
vendemmia. Primieramente bisogna rimontare alle qualità delle uve. Cinquant’anni
fa le specie coltivate erano le nere in preferenza, dette: gaglioppo, forse l’aglianica di Napoli: Santa Severina: Lagrima: Canino; e piede-longo
e delle bianche il Greco, e la pizzutella.
Ora le razze di uve si trovano accresciute, e per lo più moltiplicate
quelle che rendono più abbondanza. In generale le razze che si coltivano , e
che sono sparse in confuso per tutti i vigneti, sono:
Bianche da mangiare.
1. Moscarella, diversa dal moscado, o moscadello che poco si conosce. 2.
Malvasia 3. Agostarica (forse la spana) 4. Vesparula (forse la Rossana, o latina) 5.
Zibbibo 6. Sanginella 7. Duraca bianca 8. Nocellarica (forse la nocella) 9. Uva
pietra (forse la Tostola
che è da stipa ancora) 10. Corniola 11. Zinna di vacca 12. Zuccaro e Cannella (forse la Zuccarina ) 13. Catalanesca.
Bianche da mosto.
1. Greca (lagrima bianca) 2. Sprumentino 3. Scilibritto 4. D.a Laura, quasi simile alla
Sanginella 5. Guarnaccia, somiglia alla Malvasia 6. Pizzutella 7. Scricciaruola
(cattiva) 8. Mantonico bianco, quasi come lo Scilibritto.
Nere da mangiare e da stipa.
1. Damascena 2. Duracina nera 3. Uva pruna nera grossa, e bella a vedere 4.
Cerasuola 5. Testa di Gallo 6. Corniola 7. Zinna di vacca nera 8. Malvasia nera
9. Greco rosso anche da stipa 10. Ruggia, o Roja, che si stipa, e si divide in 2
o 3 specie.
Nere da mosto.
1. Gaglioppo di 3 specie per la diversa grossezza 2. Idem a testicoletto 3.
Piede longa (olivella) 4. Infarinata 5. Lagrima 6. Tenerella 7. Sanseverina (Colorino) 8. Canino, forse la
migliore per mosto 9. Lagrima a testicoletto, che anche si mangia 10. Norella,
o tintiglia (da poco introdotta).
Cirò avendo in questa
coltivazione prevenuto la
Provincia, di vini faceva estrazione significante pei Tarantini, i quali mi ricordo nella mia fanciullezza
che vi facevano caricamenti continui; ed un Padron Peppe da Taranto mi suona
ancora nell'orecchio. Ma per lo spirito d'industria le barche Tarantine e
caricavan vini e trasportavan migliaja di magliuoli per far colà vasti vigneti
come segui. Il vino
attuale di Taranto da me più volte osservato nelle cantine vicino al molo di
Napoli mostra origine comune co’ vini di Cirò ed al colore che è al rosso
cerasuolo, e melato, non al rosso-nero come gli altri principalmente quelli
della riviera di Reggio ec. ed al vigore. Non dispregiabile consumo lo faceva Cotrone città popolosa allora
commerciante e piazza di Armi con un battaglione di ottocento uomini di truppa
sempre di guarnigione. Eppure allora l’abbondanza del vino era una ricchezza, ed
il più gran prezzo, anzi l’ordinario era carlini trenta la salma. Noterò fra poco i pesi e le misure da noi usitate.
Diffuse le vigne da per dove si
pensò da’ Cirotani di sostenersi alla concorrenza accrescendone la quantità, e
perciò si moltiplicarono le uve troppo acquose, nere, e bianche mischiate, e si
scemò il prezzo derivante dalla qualità. In commercio si desidera vino colorito
brillante rosso cupo e spiritoso; quindi si usò da alcuno di mettere nelle
botti, e scorze di quercia giovine, e sugo di more, e tali altre materie
coloranti. Io ho provato coll'esperienza che il mosto del Vallo, o Pantano, che
è la contrada più bassa ed umida e che produce uve troppo zuccarine che
degenerano in acido, tratto dalle sole uve nere e messo in botte con la
vinaccia senza graspoli però, a fermentarvi per due mesi, poi travasato in
altra botte e ben chiuso, riesce non solo colorito, ma forte e durevole da
potersi ben bevere nel secondo anno.
Anche il trasporto subitaneo e
tumultuoso dal palmento alle botti merita considerazione. Il mosto spremuto il
giorno innanzi si gonfia e comincia a bollire. Noi lo trasportiamo in barili di
legno di abete e co’ turacci di pampine di viti che maggiormente promuovono la
fermentazione. Durante il camino da’ palmenti al paese si perde almeno il decimo, e le strade che si
praticano si trovano alla fine di ottobre tutte intonacate di mosto.
La quantità totale che si perde
formerebbe la più vistosa rendita di un proprietario. Più lodevole è il costume
di que' paesi che lo trasportano in otri collo spiraglio che estrae il gas
carbonico che continuamente si sprigiona, e si spicca con sibilo. La pampina di
fico in certo modo reprime il bollimento; e dovrebbe esser preferita a quella
di viti.
Il travasamento non si usa, anzi
è pregiudizio inveterato che il vino tolto dalla mamma s’indebolisce,
e va all’aceto.
Il consumo deve compiersi nello
stesso anno, e perciò si bevono vini non ancora perfettamente depurati. Appena
in novembre cioè dopo un mese dalla vendemmia, cominciano a chiarificarsi cominciando
da' mosti deboli, e mano mano progredendo si barattano; e quando cominciano a
guastarsi si lambiccano per trarne acquavite. A buon conto nella fine di agosto
deve il vino che dicesi già vecchio trovarsi smaltito, salvo a’ ricchi di
tenersi la provista pei primi mesi del seguente anno e fino a che non è
chiarificato il vino nuovo. E questo nasce perché non abbiamo città popolose
con famiglie agiate che pel lusso delle tavole paghino i nostri vini con
vantaggio. Ecco a tal proposito l'accaduto nel 1844. I vini si tennero sempre
avviliti fino a tutto agosto; e ciascuno si affrettava di barattare. A
settembre si mostrò scarsezza perché i vini de' paesi di montagna non tanto si
reggono fino a tal epoca come quelli di Cirò; quindi da’ 1:0 a 1:20, a’ 1.50, a
2:00, e fino a’ 2:50 carlini a barile
se n’elevò giornalmente il prezzo. Un agiato popolano se ne trovava una botte
di circa 30 barili, e la conservò per ottobre e novembre sperando allora
migliore mercato; ma quale non fu il suo disinganno! Cominciò in tali mesi il
vino nuovo a carlini otto il barile. Questo divenne il prezzo regolatore senza
distinzione di qualità; e neppure a Cotrone trovò prezzo maggiore, perché
ognuno preferiva di bere il vino ancora mosto, ma brillante ad un grano la caraffa, e non pagare dippiù il buon vino di oltre l’anno!
La vigna a buon conto rende al
ricco ed a qualche industriante, ma non alla massa generale del popolo che
vende il mosto, e ricava appena la spesa e la contribuzione fondiaria. I ricchi
proprietarii ne fanno sciupo. Si semina col vino, si zappa, si ara, si miete e
sempre vino senza misura e senza calcolo, e pochi son quelli che usano
diligenza, economia, e speculazione nel conservare una botte per settembre. E
del popolo chi non vende il mosto al palmento, vende la botticella in novembre
o dicembre immediati per pagare le paricchiate, vale a
dire la fatiga de’ bovi per farsi il sementato.
Nel seguente quadro noterò
approssimativamente ed il consumo interno, e le quantità che si convertono in
acquavite. Di passi non occorre far menzione perché appena si usano per
provvista particolare.
Chi visitasse attentamente tutte
le parti di questo territorio, e precisamente i colli dintorno a Cirò, rinverrebbe
ad ogni passo viti inselvatichite, e ruderi di palmenti. Potrebbe da ciò
desumersi che tutto anticamente era vigneto? Per me penso di no. Ed opino che
ciò prova che dopo la distruzione della grande città marittima, divisa la
popolazione in drappelli, e disseminata in villaggi tra' boschi, ovunque si
piantò una piccola vigna; ma ricomposte le cose, e riformata una unione, i
vigneti si sono ridotti perloppiù nella contrada marina da Olivetello
a Manetta o Conticello, e Marinetto,
e ne’ valli detti Olmi, Pantano, Monitaro,
Trifini ec.