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mercoledì 29 ottobre 2014

§ 122 291014 V. D'Avino, Le diocesi di Cariati, Cerenzia, Strongoli, Umbriatico, parte I.


L'importanza delle fonti di provenienza ecclesiastica è imprescindibile: molto spesso, anzi, sono le uniche fonti superstiti. Col termine 'fonti ecclesiastiche' intendo sia gli attestati e i documenti custoditi nelle chiese, parrocchie, e luoghi consimili, sia le opere scritte per mano di appartenenti al clero, come è evidente in tempi in cui l'analfabetismo la faceva da padrone nel Belpaese e soprattutto nella sua parte meridionale. Anche questi interessanti 'Cenni storici...' ci giungono per opera di un 'abate', uno dei tanti 'servitori' della cultura in abito talare. Quanto poco gradita fosse poi, per loro, questa condizione, è, in certi casi, di tutta evidenza: basti pensare al nostro Vincenzo Padula...
Fine dell'excursus e veniamo a parlare di Cariati secondo le note dell'abate Vincenzio D'Avino, pubblicate in Napoli nel 1848.
Se ne deduce, sic et simpliciter, l'importanza della presenza di una sede vescovile, la qual cosa ha conferito alla cittadina di Cariati, nei secoli, una importanza, almeno in ambito locale, non trascurabile. Tra le altre cose, nell'accostarsi alla lettura della storia delle nostre contrade, ve ne è una che mi sembra poco conosciuta o troppo trascurata, e cioè che Cirò e Cariati per lungo tempo appartennero alla stessa provincia, anzi, 'Intendenza'...
Segnalo - a chi ha le mie stesse manie, probabilmente - che le note del D'Avino sembrano quasi interagire con quelle del Pugliese della 'Descrizione'. Entrambi gli autori, mi pare di poter dire, si richiamano ad una consolidata tradizione storiografica, almeno per i loro tempi, prima metà del XIX secolo: quello era lo stato delle conoscenze, e non altro potevano dirci...
Rendiamo grazie a Google per la possibilità che offre ai comuni mortali di accedere a libri altrimenti difficilmente reperibili.
Amen.




venerdì 10 ottobre 2014

§ 120 101014 Giovan Francesco Pugliese: la morte a Cirò.

   Nella 'ciropedia' del Pugliese, segnatamente nel II volume della 'Descrizione ecc.' (quella che in questi scritti indico come 'DEIN 2') possiamo leggere questo IV § della P.te V, Cap. I, in cui il Nostro affronta il tema del 'lutto per morte', quasi sbottando in un 'altro non manca che il rogo', che indica chiaramente il disagio avvertito dal Pugliese, intellettuale avido di modernità e di sviluppo sociale, economico e culturale, di fronte alla persistenza di usi quant'altri mai, forse, legati alla tradizione e retaggio a stento sopprimibile di credenze, superstizioni, riti e rituali scaramantici. 
    Dopo tale lettura, cosa dire? Forse che le cose, a distanza di quasi due secoli sono cambiate solo in parte, dal momento che non mancano sopravvivenze degli usi descritti dal Pugliese, soprattutto negli strati più popolari, che sono poi, di converso e ovviamente, quelli più soggetti a cambiamenti sostanziali d'indirizzo, e a questo sforzo con maggior forza richiamati. 
    In tutta sincerità credo che il Pugliese non abbia deliberatamente calcato più di tanto la mano sulle usanze in caso di lutto: ancora oggi esiste, ed è innegabile, tutta una casistica tacitamente statuita e quasi universalmente in tali evenienze osservata, con notevole precisione, per quanto riguarda qualsiasi aspetto comportamentale, anche quello più impensato. Il rito funebre diventa quasi manifestazione e performance corale, in cui il ritorno ad una teatralità di origini greche, e non solo greche, è di tutta evidenza: il Pugliese lamentava taluni comportamenti risalenti alla prima metà del XIX secolo, ma se si guarda ancora oggi a certi 'schiamazzi', al ruolo di 'prefiche' - non so fino a che punto richiesto, peraltro - assunto da conoscenti o familiari, ai pianti 'alla longobucchese', ai capelli strappati, ai graffi sul viso, alle urla, alle bande nere sulle porte in caso di dipartita di un capofamiglia, alle richieste fatte al defunto di incontrare e salutare (questa forse è una piccola razionalizzazione del 'viaggio') i cari defunti, intercedendo presso questi ultimi per averne aiuti ultraterreni... cosa si può dire? Nulla, forse, dal momento che nessuno può sentirsi autorizzato a giudicare l'altrui modo di affrontare il lutto, e chissà che magari lo stretto attenersi ad un rituale ormai secolare non aiuti a meglio a superare - se ci si riesce - una prova così pesante... magari dedicandosi ('spurijànnu') a stilare le classifiche d'importanza dei partecipanti, a vario titolo, in ordine di apparizione, di importanza, di consistenza (corona, mazzetto, telegramma...). 
   Meglio non insistere e parafrasando il Pugliese, auspicare che almeno si finisse quella usanza di salutare i parenti schierati ai due lati della porta della chiesa... un rituale che mi sembra troppo pesante per i parenti del defunto, nella riaffermazione di una partecipazione al rito funebre che col dolore e l'affetto c'entra proprio poco poco. Ma queste sono mie considerazioni inutili, oziose, da perdigiorno in un pomeriggio di foschia padana...
   Buona lettura, toccando ferro.
IV. Lutto per morte. 
   Comunque a poco a poco la civiltà raddolcisse i costumi, e richiamasse al suo impero la ra­gione, pure in occasioni di lutto tra '1 popolo non si può da un'anima sensibile reggere nel sentire i schiamazzi, i piagnistei, e vedere i graffiamenti, le percosse, e ‘l denu­darsi la testa da tutti i capelli; e di alcune donne è cosi commovente il piangere, che dicesi repito, e laudo o lodo del defunto, che il cuore più duro si commuove, e parte­cipa al pianto ed al dolore. La stanza si scompiglia. Si siede sulla terra nuda, o sopra un paglione: si butta ciò che tro­vasi nella finestra e si rompono vasi, teste di erbe e fiori; si sbattono porte, e finestre, maggiormente se trattasi di capo di casa. Il cadavere si accompagna dalle famiglie schiamaz­zando fino alla chiesa, ed al camposanto. Non si va a mes­sa per più tempo , e si sta per più mesi all'oscuro, ripe­tendo gli stessi lai al trigesimo, ed all'anno. Gli uomini non si radon la barba per più tempo ed indossano il cap­potto di lana ove si avvolgono anche ne’ mesi della cani­cola, col cappello appannato sugli occhi, e se non la­sciano di frequentare le campagne, si astengono però di comparire il più che possono nelle publiche adunanze dell'abitato. Scoprirsi la testa è tra' popoli primitivi segno di sommissione e di rispetto per altrui; coprirsi la testa poi, e nascondersi il viso è segno di profondo duolo.
   Intanto meritano di esser notate alcune superstiziose usanze, ed altre pietose pratiche.
   Quando alcuno è agonizzante, la famiglia pensa al viaggio dello spirito, e prescindendo da' soccorsi della religione, fa dono al vicino più povero di un bocale di acqua, di piccola quantità di olio sufficiente per vivificare una nottata, e due pani, ovvero un piatto di farina. S'intende far precedere con quell'elemosina l'acqua per dissetarlo, il lume per guidarlo, e 'l pane per ristorarlo.
   Il suono delle campane indica le qualità naturali e ci­vili di chi è trapassato. Si usa il suono in gloria pei bam­bini, per le verginelle, e per le vedove, che han serbato lunga vedovanza e che si dicono avere riacquistata la ver­ginità. Si usa il suono della sola campana grossa a morto­rio per gli adulti di entrambi i sessi; e questo suono è ristretto alla classe più povera. La campana grossa è di proprietà, e di diritto pubblico, ed il parente o amico può suonarla senza nulla pagare. Si usa infine l’acclasso, o sia il suono successivo ed immediato di tre campane, battendo un colpo alla piccola, un altro alla mezzana, e '1 terzo alla grossa. Era questo il suono di onore accor­dato prima ai Vescovi, e Sacerdoti, poi a' nobili del pae­se, e gradatamente a' Professori, e si è già diffuso anche a' maestri d'arti, bottegai, massari, e persone che pos­sono pagare il diritto di suono al Clero, che lo compren­de a’ diritti funerarj della Cappa. E questo acclasso si unisce anche alle glorie, suonandosi per una vergine un ac­classo, ed una gloria successivamente. Ogni gloria si paga al sagrestano grana cinque.
   E’ antichissimo costume di recare i parenti o intimi amici alla famiglia in lutto una cena di refocillamento e per lo più di pesci, e non di carni; ma a poco a poco la gara fra' ricchi è cosi cresciuta, che trattasi ora di scan­dalosi stravizzi. E siccome i chiassi di verace dolore del­la gente bassa si fanno da loro, così presso famiglie ci­vilizzate, contenendosi piuttosto il duolo nell'animo che in inutili sfoghi, vi concorrono a fare il repito, o lodo quelle donne che si qualificano le più intime, ed affezio­nate, che rappresentano in certo modo le romane prefi­che; e queste per non solamente satollarsi ne’ lauti pran­zi e cene di tre giorni, ma per farsi la provista per più giorni, essendoché il costume porta che nulla deve es­ser restituito dopo entrato nella casa in lutto, e vi si at­tacca il mal augurio. A buon conto la festa per la morte di un ricco che abbia numerosa clientela è per cosi dire desiderato; e quel detto che più volte si sente pronun­ziare da qualche affettuoso ghiottone: «succeda ogni mese una simile festa», dovrebbe far moderare la vanità dei pranzi.
   Nel dì della commemorazione de' morti il popolo s'im­padronisce della campana grossa, e suona or l'uno or l'al­tro per tutta la sera, notte, e porzione del 2 novembre a mortorio. Crede ciascuno di mandar suffragio alle anime de' suoi trapassati con quel suono. Le donne sempre che entravano in chiesa quando le sepolture Ecclesiasti­che sussistevano, e maggiormente edificavano col recitar preci, coronelle del rosario, e spar­gere acqua benedetta sulle lapidi delle sepolture. Ed in questo giorno ogni famiglia commoda cuoce una e due fornate di focacce col lievito a forma di Buzzolato Buc­cellato, dette pitte cullure per dispensarle in suffragio delle anime de’ trapassati; e ciò oltre all'elemosine in da­naro, ed in Messe.
   Il tempo pel quale dura il segno del lutto con vestire a bruno, comunque sia diminuito per l'innoltrata civiltà, pure è vario. La vedova per loppiù non cambia vesti­mento nero se non colla morte, o se non passa a seconde nozze, ed ancora qualcuna conserva l'antico uso d'in­dossare camicia di lana nera sulle carni, o pure camicia affumicata ed annerita...
   E se io qui mi limito ad esporre il lutto come si usa a Cirò, non può però includersi che costume eguale sia nelle Calabrie. Gli usi variano da paese a paese, ed an­che da famiglia a famiglia con questo solo osservabile, che i luoghi marittimi ricevendo progressiva civiltà la­sciano a poco a poco ciò che sembra alla barbarie appar­tenere, mentre ne' paesi di montagna comunque non mancassero famiglie cospicue, gli antichi usi più rigidi e tenaci si conservano. A Cirò per esempio tutti i parenti intimi concorrono a celebrare il lutto di tre giorni in casa del trapassato; ma in San Giov. in Fiore ogni parente si ritira in casa propria e vi resta chiuso pei tre giorni; uo­mini e donne del volgo della famiglia del defunto non depongono la camicia che indossano nel giorno del tra­passo se non dopoché si è consunta e lacera sulle car­ni. In quasi tutti i casali di Cosenza la porta d'ingresso è appannata con una coperta di lana in nero; ed il lutto si prolunga per molto tempo precisamente dalle vedove, che o sono effettivamente o vogliono dimostrare di essere inconsolabili, talché agli strazii ed alle privazioni altro non manca che il rogo.

   E non è da passarsi sotto silenzio che l'amor conjugale in Cirò forma la più bella virtù della maggior parte, comunque i matrimonj di vedovi non siano infrequenti, e per loppiù causate dal bisogno di un sostegno, o di aver prole. E potrei qui tesser l’elogio di molte vedove anche giovani che o han conservato rispetto costante alle ceneri del marito, educato e cresciuto i figli; ma di alcune che sono state vittima del dolore concepito per la perdita del marito, al quale han sopravissuto pochi mesi.

martedì 7 ottobre 2014

§ 119 071014 Tempo di vendemmia... Giovan Francesco Pugliese: 'vigneti, vini ed acquavite'.

Tempo di vendemmia, vendemmie sempre più procrastinate, rimandate, dilazionate, a quanto mi è dato sapere, vuoi per i cambiamenti climatici, per le mutevoli condizioni di mercato, per le speranze o l'attesa di un aumento di prezzo... o di peso delle uve dopo le piogge (che fa quasi lo stesso, mi pare, - e questo dico da profano della materia e di nullatenente terriero.)
I ricordi però sono tanti... uno su tutti, i salti sui cumuli di 'vinazza' da sopra i muri di una casa - non ho mai capito se in costruzione o in rovina - di via Roma, proprio vicino ad un deposito di casse da morto, dentro al quale, con grande paura (veramente la parola giusta sarebbe  un'altra), non so come, né perché, mi ritrovai... forse giocando all'ammucciatedda, chissà... e come se non fosse bastata la pila di 'tavuti', uscito fuor del pelago alla riva, mi ritrovai dinnanzi una donna magrissima, altissima (la parola giusta sarebbe allampanata, o dinoccolata), con in volto una inenarrabile tristezza... la ricordo come una nobildonna in disgrazia, sì, lo era di sicuro, e spero non me ne voglia, dove ora certamente si trova... Però, bastò un momento, e, entrato nella casa adiacente al deposito, credo di essermi illuminato in volto, come sempre quando vedevo dei libri - all'epoca non è che si trovassero così facilmente nelle case - e tra tutti uno ne ricordo: l'opera di Adriano Tilgher, benché scritta, come tanti altri, in tedesco. Ricordo che la signora mi regalò un dizionarietto, oltre a farmi bere un po' d'acqua... 
Bene, visto che sono sopravvissuto ai tavuti, vediamo cosa dice G.F. Pugliese di uve, vini, vigneti e vitigni nella sua 'Descrizione...' 
Certo, i tempi sono cambiati, ma certe cose no, e, come potrete vedere, non sono poche, soprattutto per quanto riguarda quei 'fondamentali' che bisogna conoscere e possedere.
Aggiungo che quello che segue è Pugliese, poi ci sarebbe Padula, e il confronto tra i due è cosa molto interessante: mi ci sono provato, in un mio commento ad uso personale dell'opera di G.F. Pugliese, e devo dire che... beh, magari poi lo dico, in un'altra puntata.
E magari aggiungo altre note che qui mancano.

                                                                       VIGNETI, VINI ED ACQUAVITE.        

   I Vigneti oltre le poche e ben ristrette specie di uve da mangiare, e da stipa, tra le quali primeggia la Roja, o Ruggia; costituiscono un ramo importante, e si coltivano da tutti generalmente perché non vi è chi non avesse una piccola vigna. Sussistendo le promiscuità era facilissimo di ottenere per due carlini di rendito o annuo canone un pezzo di terreno per impiantarvi mille maglioli. Però l’ardore per accrescere tali proprietà, grande, verso la fine del secolo passato, e massimo ne’ principii del presente, va a gran dosi scemando. Tre arature profonde formano tutta la preparazione del terreno ove debbe piantarsi la vigna, e queste arature ad intervalli per concuocersi e sminuzzarsi il terreno come di ottima maggese. I magliuoli si raccolgono in Gennaro e si pongono sotterra. Ad Aprile tre uomini piantano mille viti: uno cava le fornelle tre palmi lunghe, due larghe, uno e mezzo a due profonde: un altro pianta i maglioli mettendo il pedale in faccia ad oriente, coricandolo alla profondità del letto, e rialzandone il capo dal lato opposto, e sempre in fila parallele e quadrate: un altro colma e pigia. Si mangia in questa occasione a stravizzo: si beve fino all'ebrietà, ed in sei ore al massimo la piantagione è fatta. Perloppiù i terreni impiantati a pastine, denominazione che si dà alle novelle viti, esclusivamente si addice ad orti di cocomeri e melloni, che rinfrancano spesso tutte le spese: dopo 11 mesi si tagliano i capi rasenti terra: si zappano e rincalzano bene, e si tornano a ripulire in maggio o principii di giugno, ciò che dicesi ammajare. Al 2° anno si fa la stessa coltivazione, e si mette il palo che perloppiù è di canna. Al terzo anno comincia il prodotto, talché al sesto anno si dice pastinona. Le viti si sostengono col palo fin che non hanno acquistato robustezza. Non si crescono di altezza maggiore di due palmi sul livello della terra, ed usciti di palo, vale a dire sostenendosi per una discreta grossezza da per loro si dicon vigne fatte. Una vigna appena piantata si valuta un grano a vite, poi due, poi tre, e fino a cinque e non oltre la vigna fatta. L’ordinaria coltivazione e bene intesa deve essere: un anno a dicembre o al più gennaro si scalza: a marzo si zappa in piano: a giugno si ammaja e si ripulisce dalle erbe con zappatura superficiale. A febbraro o marzo si puta, a giugno si stralcia, che dicesi svitignare. Questa puta e svitigna è sempre costante, e si usa la puta tagliando rasente tutti i salmenti senza lasciare affatto cannello con due e tre occhi come altrove, ma un solo occhio per posta, talché la testa della vite si forma come cranio, e la diciamo volgarmente crozza. Il non aversi però riguardo alla diversa natura ed esposizione de’ terreni rende vizioso questo metodo, e già cominciano i diligenti coltivatori ad avvedersene. Più nella contrada Marina la puta si esegue da febbraro a marzo, non cosi al Vallo, ove si puta in aprile, e dopo che i salmenti cominciano a vegetare, e ciò perché si teme la gelata in tal contrada. Pria della puta si spuntano i salmenti in gennaro ed anche prima, ciò che dicesi approcciare. E ritornando alla zappatura: nei 2 seguenti anni dalla scalzatura, si zappa solamente e si ammaja. Vale a dire un anno scalzatura, o zappatura, per isbarbare a fondo le viti, e farle godere l'influsso dell’aria: due anni zappa in piano. Il prodotto varia dai 10 barili per ogni mille viti a’ 30 barili: il medio generale è di 20 barili ogni migliajo, che dicesi pezza.
La vendemmia comincia dalla metà di settembre per le pastine, e dagli otto di ottobre a tutto il mese per le vigne vecchie. Questa operazione la più interessante, forse è la meno curata. E’ la stagione in cui ricorre il travaglio della preparazione delle terre per la semina de' cereali, della semina del lino, della raccolta delle ulive; quindi una confusione, un imbarazzo, un alternarsi di lavori che non si possono tutti con esattezza compire. Più, si ha molta fidanza nella bontà de' terreni, e nella mediocre riuscita de’ vini per non curare né la fermentazione né il tramutamento né la chiarificazione. La massa della vendemmia si conta a palmentate. Quasi ogni vigneto ha il suo palmento di fabbrica che consiste in una vasca superiore che sgorga per un canale a prospetto sul sottoposto tino anche di fabbrica con intonaco di calce. Alla base del palmento e lateralmente giace una trave orizzontale al terreno e che dicesi dormiente, a questo si innalza rasente il muro del palmento e verticalmente un legno alto detto ominello, che di poco supera l'altezza dell’uomo. A questo s’incavicchia una salda traversa anche di legno, detta traversagno che passa per un foro bislungo dalla parte esterna del muro ove sta appoggiato il palmento. Le uve si raccolgono da due o tre donne delle quali una le trasporta in grandi corbelle al palmento fin che trovasi colmo. Un uomo robusto si scalza, entra nel palmento e pigia le uve che scolano pel canale nel tino. Raccoglie quindi le scorze, i graspoli, e tutta la vinaccia alla parte dove è piantato l’ominello vi soprimpone il pressojo detto pisulo, quindi sopra vi passa la traversa che incavicchia e ritiene in un capo all’ominello, dall'altro vi applica una specie di culla, e che perciò dicesi naca, che si carica di pietre, per premere bene le uve sotto il pressojo: dicesi questa la prima mano. Mentre che scola l'uva pigiata, e messa sotto il pressojo, si mangia. Dopo si scarica la naca, si ripiglia quel che dicesi concio, e si riunisce al lato opposto imponendovi la pressione nello stesso modo: e questa è la seconda mano: la terza siegue a notte avanzata. Questa è la vendemia ordinaria senza il rimescolo. Ma se questo si voglia fare, ciò che si usa comunemente da' ricchi o commodi che hanno a loro disposizione almeno due palmenti, dopo lo scolo di seconda mano, si spande nel palmento la vinaccia, si chiude bene il canale, e con cati si prende il mosto dal tino, e si versa nel palmento. Si lascia cosi per fino a mezza notte, e poi si fa scolare, e si preme per due e tre mani la vinaccia fino a rendersi asciutta. Nei mosti troppo densi si usa l’acquata, che si mette nell’ultima mano, o sia nell’ultima pressione della vinaccia. Non si sono usati mai strettoi; e perché l'attuai metodo di pressione fa restare sempre una quantità di mosto , comunque la più debole, ma la più carica di colore, son già circa 30 anni che si sono introdotti i trappetelli, o piccoli torchi alla genovese co’ quali si spreme l'ultima vinaccia, e rende da circa 2 barili, e non meno di uno e mezzo per ogni palmentata. Ne’ primi tempi i trappetelli erano una speculazione di estranei alla vendemia, ora quasi tutti i proprietarii di vigne l'hanno adottati, e ne risulta un vino più colorito distribuendosi però con giusta precauzione. Se questo mosto si mette solo degenera in aceto. Molte sarebbero le riflessioni che merita la nostra vendemmia. Primieramente bisogna rimontare alle qualità delle uve. Cinquant’anni fa le specie coltivate erano le nere in preferenza, dette: gaglioppo, forse l’aglianica di Napoli: Santa Severina: Lagrima: Canino; e piede-longo e delle bianche il Greco, e la pizzutella.
Ora le razze di uve si trovano accresciute, e per lo più moltiplicate quelle che rendono più abbondanza. In generale le razze che si coltivano , e che sono sparse in confuso per tutti i vigneti, sono:

Bianche da mangiare.
1. Moscarella, diversa dal moscado, o moscadello che poco si conosce. 2. Malvasia 3. Agostarica (forse la spana) 4. Vesparula (forse la Rossana, o latina) 5. Zibbibo 6. Sanginella 7. Duraca bianca 8. Nocellarica (forse la nocella) 9. Uva pietra (forse la Tostola che è da stipa ancora) 10. Corniola 11. Zinna di vacca 12.  Zuccaro e Cannella (forse la Zuccarina ) 13. Catalanesca.
Bianche da mosto.
1. Greca (lagrima bianca) 2. Sprumentino 3. Scilibritto 4.  D.a Laura, quasi simile alla Sanginella 5. Guarnaccia, somiglia alla Malvasia 6. Pizzutella 7. Scricciaruola (cattiva) 8. Mantonico bianco, quasi come lo Scilibritto.
Nere da mangiare e da stipa.
1. Damascena 2. Duracina nera 3. Uva pruna nera grossa, e bella a vedere 4. Cerasuola 5. Testa di Gallo 6. Corniola 7. Zinna di vacca nera 8. Malvasia nera 9. Greco rosso anche da stipa 10. Ruggia, o Roja, che si stipa, e si divide in 2 o 3 specie.
Nere da mosto.
1. Gaglioppo di 3 specie per la diversa grossezza 2. Idem a testicoletto 3. Piede longa (olivella) 4. Infarinata 5. Lagrima 6. Tenerella 7. Sanseverina (Colorino) 8. Canino, forse la migliore per mosto 9. Lagrima a testicoletto, che anche si mangia 10. Norella, o tintiglia (da poco introdotta).

   Cirò avendo in questa coltivazione prevenuto la Provincia, di vini faceva estrazione[1] significante pei Tarantini, i quali mi ricordo nella mia fanciullezza che vi facevano caricamenti continui; ed un Padron Peppe da Taranto mi suona ancora nell'orecchio. Ma per lo spirito d'industria le barche Tarantine e caricavan vini e trasportavan migliaja di magliuoli per far colà vasti vigneti come segui. Il vino attuale di Taranto da me più volte osservato nelle cantine vicino al molo di Napoli mostra origine comune co’ vini di Cirò ed al colore che è al rosso cerasuolo, e melato, non al rosso-nero come gli altri principalmente quelli della riviera di Reggio ec. ed al vigore. Non dispregiabile consumo lo faceva Cotrone città popolosa allora commerciante e piazza di Armi con un battaglione di ottocento uomini di truppa sempre di guarnigione[2]. Eppure allora l’abbondanza del vino era una ricchezza, ed il più gran prezzo, anzi l’ordinario era carlini trenta la salma. Noterò fra poco i pesi e le misure da noi usitate.
   Diffuse le vigne da per dove si pensò da’ Cirotani di sostenersi alla concorrenza accrescendone la quantità, e perciò si moltiplicarono le uve troppo acquose, nere, e bianche mischiate, e si scemò il prezzo derivante dalla qualità. In commercio si desidera vino colorito brillante rosso cupo e spiritoso; quindi si usò da alcuno di mettere nelle botti, e scorze di quercia giovine, e sugo di more, e tali altre materie coloranti. Io ho provato coll'esperienza che il mosto del Vallo, o Pantano, che è la contrada più bassa ed umida e che produce uve troppo zuccarine che degenerano in acido, tratto dalle sole uve nere e messo in botte con la vinaccia senza graspoli però, a fermentarvi per due mesi, poi travasato in altra botte e ben chiuso, riesce non solo colorito, ma forte e durevole da potersi ben bevere nel secondo anno.
   Anche il trasporto subitaneo e tumultuoso dal palmento alle botti merita considerazione. Il mosto spremuto il giorno innanzi si gonfia e comincia a bollire. Noi lo trasportiamo in barili di legno di abete e co’ turacci di pampine di viti che maggiormente promuovono la fermentazione. Durante il camino da’ palmenti al paese si perde almeno il decimo, e le strade che si praticano si trovano alla fine di ottobre tutte intonacate di mosto.
   La quantità totale che si perde formerebbe la più vistosa rendita di un proprietario. Più lodevole è il costume di que' paesi che lo trasportano in otri collo spiraglio che estrae il gas carbonico che continuamente si sprigiona, e si spicca con sibilo. La pampina di fico in certo modo reprime il bollimento; e dovrebbe esser preferita a quella di viti.
   Il travasamento non si usa, anzi è pregiudizio inveterato che il vino tolto dalla mamma s’indebolisce, e va all’aceto.
   Il consumo deve compiersi nello stesso anno, e perciò si bevono vini non ancora perfettamente depurati. Appena in novembre cioè dopo un mese dalla vendemmia, cominciano a chiarificarsi cominciando da' mosti deboli, e mano mano progredendo si barattano; e quando cominciano a guastarsi si lambiccano per trarne acquavite. A buon conto nella fine di agosto deve il vino che dicesi già vecchio trovarsi smaltito, salvo a’ ricchi di tenersi la provista pei primi mesi del seguente anno e fino a che non è chiarificato il vino nuovo. E questo nasce perché non abbiamo città popolose con famiglie agiate che pel lusso delle tavole paghino i nostri vini con vantaggio. Ecco a tal proposito l'accaduto nel 1844. I vini si tennero sempre avviliti fino a tutto agosto; e ciascuno si affrettava di barattare. A settembre si mostrò scarsezza perché i vini de' paesi di montagna non tanto si reggono fino a tal epoca come quelli di Cirò; quindi da’ 1:0 a 1:20, a’ 1.50, a 2:00, e fino a’ 2:50 carlini a barile se n’elevò giornalmente il prezzo. Un agiato popolano se ne trovava una botte di circa 30 barili, e la conservò per ottobre e novembre sperando allora migliore mercato; ma quale non fu il suo disinganno! Cominciò in tali mesi il vino nuovo a carlini otto il barile. Questo divenne il prezzo regolatore senza distinzione di qualità; e neppure a Cotrone trovò prezzo maggiore, perché ognuno preferiva di bere il vino ancora mosto, ma brillante ad un grano la caraffa, e non pagare dippiù il buon vino di oltre l’anno!
   La vigna a buon conto rende al ricco ed a qualche industriante, ma non alla massa generale del popolo che vende il mosto, e ricava appena la spesa e la contribuzione fondiaria. I ricchi proprietarii ne fanno sciupo. Si semina col vino, si zappa, si ara, si miete e sempre vino senza misura e senza calcolo, e pochi son quelli che usano diligenza, economia, e speculazione nel conservare una botte per settembre. E del popolo chi non vende il mosto al palmento, vende la botticella in novembre o dicembre immediati per pagare le paricchiate, vale a dire la fatiga de’ bovi per farsi il sementato.
   Nel seguente quadro noterò approssimativamente ed il consumo interno, e le quantità che si convertono in acquavite. Di passi non occorre far menzione perché appena si usano per provvista particolare.
   Chi visitasse attentamente tutte le parti di questo territorio, e precisamente i colli dintorno a Cirò, rinverrebbe ad ogni passo viti inselvatichite, e ruderi di palmenti. Potrebbe da ciò desumersi che tutto anticamente era vigneto? Per me penso di no. Ed opino che ciò prova che dopo la distruzione della grande città marittima, divisa la popolazione in drappelli, e disseminata in villaggi tra' boschi, ovunque si piantò una piccola vigna; ma ricomposte le cose, e riformata una unione, i vigneti si sono ridotti perloppiù nella contrada marina da Olivetello a Manetta o Conticello, e Marinetto, e ne’ valli detti Olmi, Pantano, Monitaro, Trifini ec.



[1] esportazione
[2] …e quindi potenziali consumatori!

sabato 4 ottobre 2014

§ 118 041014 G. Ferrari, L'identità della memoria, 1.

Mi sento in dovere di introdurre questo scritto con le parole della signora Simona Ferrari, figlia del compianto maestro Giuseppe Ferrari (1931-2001), poste in chiusura, in quarta di copertina, per l'esattezza, di ''L'identità della memoria, Cirò Marina 'a ri tempi 'e na vota'', Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli, 2002, volume della cui revisione del manoscritto, stanti le condizioni di salute del papà, ella stessa ha dovuto farsi carico:
''Trasformare la memoria e il dolore in impegno ha dato senso ad una morte altrimenti dimenticata. Mio padre, persona giusta, intelligente e fi­nemente colta, innamorato fin troppo del suo paese, ha dedicato tutta la sua attività letteraria e pittorica al recupero di antichi valori.
Con la pubblicazione di questa sua pregevole opera, ricca di storia, la­scia agli anziani una dolce rimembranza e a noi giovani una preziosa co­noscenza del vivere di un tempo, perché esso possa essere preso a modello per il futuro sviluppo morale e culturale della nostra comunità.''
Aggiungo alle parole di Simona Ferrari un mio personalissimo ricordo, visto che stiamo parlando di memoria e memorie: la copia in mio possesso di quel volume non mi è stata 'regalata' dai miei genitori, ma 'tramandata', con un moto quasi di fiero compiacimento negli occhi di mio padre e un guizzo di materna umanità in quelli di mia madre, che per inciso del maestro Ferrari era (e vorrei tanto dire: 'è'...) cugina, mentre affermava, nella sua semplicità, che 'Peppino è tanto bravo', coniugando al presente quel verbo essere, in quello che ho letto come un omaggio, magari inconscio, alla persistenza della memoria, e all'opera, di Giuseppe Ferrari. Credo che questi siano gli 'anziani' dei quali si parla in quella 'quarta di copertina'. Al curatore di questo blog rimane quel libro, e la certezza, ormai, di una catabasi, di un ritorno, che non ci sarà... anche a questo servono i libri, quelli sentiti: a dare portabilità alla identità e alla memoria, e alla riedizione del vissuto.

Ho estrapolato da quel volume alcune pagine (sperando nella clemenza dei detentori dei diritti d'autore) che mi sembrano profetiche, o che comunque, e di questo sono certo, descrivono quasi perfettamente lo stato della Cirò Marina dell'epoca della stesura del testo e i suoi successivi sviluppi che, con dispiacere di quanti amano quel luogo, hanno dato in gran parte ragione alle previsioni del maestro Ferrari.
Chiudo la mia riflessione aggiungendo che l'ultima considerazione del Ferrari ne richiama un'altra, parimenti fervorosa, e purtroppo 'favolosa' o troppo avveniristica (il riferimento al porto-canale) dello storiografo cirotano Giovan Francesco Pugliese: ritengo che si tratti, in pratica, di una condivisione di desideri di questi due eminenti psicronei... un desiderio e una visione troppo alti, forse, perché potessero trovare realizzazione a certe latitudini. Ad ogni buon conto, quando 'a Marina s'allaga' potete saperne, dalle parole del Ferrari, il perché: ma questo 'perchè' non sono i canaloni, costruiti con intelligenza - almeno credo - ma chi li ha interrati. O no?
Le pagine che seguono sono quelle da 32 a 35 del testo; con 'NdA' ho indicato le note in calce presenti nell'originale.
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Cirò Marina, situata sulla costa ionica a pochi metri di altezza rispetto al livello del mare, non aveva la pendenza sufficiente da consentire il deflusso delle acque piovane. Pertanto quando cadevano abbondanti piogge il paese era soggetto ad allagarsi, anche perché lungo le pendici delle colline che lo circondavano si formavano innumerevoli rigagnoli di acqua e di fango che precipitavano verso l'abitato, confluendo nelle zone basse. Queste com­prendevano un'ampia fascia che interessava l'attuale piazza Diaz, parte di via Roma, di via Carducci e di via della Libertà. Altra depressione territoriale oc­cupava una vasta area posta a nord del paese, denominata Vùrighi (Vurghe, NdA), com­prendente i ruderi del tempio di Apollo Aleo. In queste zone l'acqua rista­gnava, creando paludi affollate di rane, di insetti e soprattutto di uccelli.
Nell'opera di bonifica e di risanamento del territorio promossa dal go­verno fascista fu costruita una rete di canali per la raccolta e il deflusso del­le acque che, partendo dai piedi delle colline, finivano per varie diramazioni al mare. Due erano i canaloni principali: il primo, proveniente da Manca da rina (Località ‘a sinistra della rena del mare', NdA), attraversava per un buon tratto la campagna dividendosi in due tronchi. L'uno proseguiva verso est arrivando al mare nella località Gammittta; l'altro si dirigeva verso settentrione, attraversava le Vurghe e terminava sulla costa nord di Punta Alice. Il secondo canalone percorreva l'attuale via Ro­ma. Aveva quattro diramazioni, due per ogni lato, che abbracciavano l'inte­ro abitato e il territorio circostante. Due rami si dipartivano all'altezza della "Santa Croce". (Era questa un'opera di scultura realizzata dai Padri Passionisti a ricordo di una loro missione religiosa in paese. Era costituita da una grande croce in legno di colore nero, circondata da una bassa inferriata qua­drangolare e da gradini, sui quali le persone in estate dopo la lunga passeg­giata serale solevano sedersi. Anni addietro è stata demolita e al suo posto esiste ora un pietoso rifacimento.) Uno di quei canali per un breve tratto si allungava verso sud, poi piegava verso est e al termine del suo percorso fini­va al mare (l'attuale via Togliatti oggi vi si estende di sopra); l'altro, diretto a settentrione, attraversava il paese confluendo nel canale di Punta Alice.
'La Gammitta', agosto 2013, al suo sbocco al mare; successivamente è crollato ciò che restava della parte finale. 'Gammitta è termine di uso comune, nella forma 'gambitta', in molti dialetti calabresi e siciliani. A Cirò Marina credo sopravviva solo nel toponimo di questa località.

Scendendo verso l'abitato, all'altezza dell'attuale via della Libertà, il gran canalone si ripartiva in altri due bracci: l'uno verso sud si collegava al canale di via Togliatti, e l'altro verso nord dopo un lungo percorso termina­va nel canale della Gammitta. Detti canaloni erano allora a cielo aperto e ve­nivano periodicamente ripuliti onde evitare impedimenti allo scorrimento dell'acqua piovana. Siccome attraversavano un vasto territorio più o meno coltivato, qua e là le due sponde erano collegate da pontini (ponticelli, NdA) di cemento con corrimano di ferro. Oggi quei canali di bonifica non sono più funzionanti, sono stati coperti da case e da strade asfaltate, per cui quando le piogge ca­dono abbondanti il paese torna ad allagarsi. La rete fognante stracarica fa sal­tare i chiusini e il liquame dilaga in superficie soprattutto nelle zone basse, dove l'aria s'impregna del puzzo di fogna a danno della salute pubblica.

In passato le strade del paese erano pavimentate con pietre di varie di­mensioni incastonate tra loro. Vi erano due carreggiate per agevolare il tran­sito di andata e di ritorno dei carri e dei traini. La parte centrale di esse era leggermente arcuata e consentiva alla pioggia di defluire verso i marciapiedi. Anche questi erano costruiti con pietre; però u bàsulu (il cordolo, NdA) era costituito da re­sistenti lastroni di basalto, di colore grigio scuro. Le vie, ai lati delle quali co­minciavano a sorgere nuove case, erano di terra battuta. Tra esse quelle di maggiore insediamento urbano erano via Tirone, via Vittorio Emanuele, via Cesare Battisti e in parte via Muraglione. Le strade oggi non hanno più le pie­tre di una volta, sostituite con l'asfalto, e i marciapiedi con moderni sampie­trini esagonali. Dove sono andati a finire quei lastroni di basalto che rac­chiudevano i marciapiedi di via Vittorio Emanuele e di via Cesare Battisti? Con la loro perdita è venuta a mancare un'altra occasione di conservare un aspetto dell'autentico vecchio paese: noi moderni, abituati a recidere con in­differenza le nostre radici, facilmente seppelliamo, deformiamo e sostituiamo gli aspetti duraturi di antico valore con più appariscenti ed effimere so­vrastrutture.
Come sarebbero apparse diverse e ricche di fascino oggi via Tirone e via Vittorio Emanuele se avessero conservato il volto  di un tempo. I forestieri e gli abitanti del luogo avrebbero avuto motivo di utile lettura, continuando gli aspetti del passato con le nuove vie e le uniformi costruzioni che si sono via via sovrapposte alle vecchie, ricche di semplici motivi architettonici. Con le loro pagine antiche avrebbero raccontato alla gente che vi transita o vi sosta la loro bella e significativa storia. Una donna conserva il suo t'ascino solo se la si lascia nel suo vestito d'epoca, con gli ori e la pettinatura del suo tempo. Purtroppo la politica e la dirigenza raramente si sposano con la sensibilità artistica e la mo­rale. Vanno invece spesso a braccetto con la speculazione e il denaro.
E che dire poi del ginepraio delle costruzioni sotte senza controlli ai lati di via Roma e a nord di piazza Cremissa! Negli anni 1930 e 1940 vi erano ampi spazi pianeggianti, rigogliosi di giardini di aranci e di seminati qua e là segnati da qualche vasto caseggiato o da qualche casupola. Ora quel verde territorio, data la progressiva espansione del paese, è occupato da lunghe file di abitazio­ni concatenate tra loro come vagoni di treni, distanziate da strette strade senza luce e respiro. Mancano adeguati spazi e piazze, che sono i luoghi pubblici di riunione delle persone in un paese degno di rispetto. Non a caso "Shanghai" è il nome ironicamente dispregiativo dato a questi nuovi insediamenti umani per il brulichio degli abitanti. Purtroppo il procedere a zigzag appartiene a quattro categorie di esseri: ai politicanti, ai ladroni, ai serpenti e agli ubriachi.
Altra considerazione negativa riguarda il muraglione e la spiaggia. L'u­no, a sud e a nord del paese, ha subito continua appropriazione indebita che ha tolto ampi spazi di territorio demaniale destinati a più comoda viabilità e a fasce di verde pubblico; l'altra, col suo arenile meraviglioso dal colore del­l'oro, che avrebbe rappresentato un richiamo per il turismo è stata aggredi­ta e deturpata da inutili e dispendiose scogliere, fino a giacere ora sotto un ammasso di cemento armato che chiamano porto. Esso dovrà fare i conti con le grandi mareggiate, che periodicamente si abbattono sulla nostra costa con impeto spaventosamente distruttivo. Detti uragani provenienti dal mare arrivano puntuali dopo un certo numero di anni: ce lo insegna la passata esperienza. Essi non sono determinati da venti o da temporali, anche se questi concorrono ad esaltarne la devastante potenza, ma da correnti marine che in maniera precisa e costante, percorrendo da sempre il medesimo itinerario, aggrediscono violentemente la costa sempre nello stesso punto. In tutta la sua storia marinara il nostro paese ha perduto una sola imbarcazione, perché i vecchi pescatori, avvezzi a fiutare e a leggere il tempo, mettevano al riparo tra le case le barche prima che il mare scatenasse la sua indomabile furia. Oggi i pescatori, sicuri dell'attuale rifugio portuale, in previsione di un'eventuale mareggiata non procederanno di certo a collocare in altro posto sicu­ro i loro natanti. Ed anche se lo volessero non potrebbero farlo, perché im­pediti dall'attuale struttura litoranea realizzata, la quale nel futuro non sarà sempre all'altezza di fronteggiare le forze immani della Natura.
Un porto canale scavato lungo la zona bassa delle Vurghe, collegante la Gammitta con la costa settentrionale di Punta Alice, avrebbe risolto in ma­niera ottimale il problema dell'importante attività peschereccia del paese per diverse ragioni: si sarebbe costruito un utile bacino di carenaggio da essere anche un sicuro rifugio per le imbarcazioni; lo sbocco sui lati sud e nord del litorale avrebbe consentito ai pescatori di uscire in mare aperto nel punto do­ve le condizioni meteorologiche sarebbero state più favorevoli; si sarebbe la­sciata la spiaggia prospiciente il paese libera di poter accogliere i turisti e gli abitanti del luogo durante la stagione estiva, fronteggiando le grandi mareg­giate con adeguate dighe che la tecnologia mette a disposizione; la zona del­le Vurghe avrebbe offerto maggiore spazio per realizzare le varie strutture at­tinenti al commercio del pesce. Ciò non avrebbe impedito sull'isola felice di Punta Alice, scaturita in seguito al taglio del canale, la messa in opera di im­pianti di attrezzature balneari che, insieme a quelle sportive e di svago, avreb­bero richiamato numerosi turisti. La realizzazione del progetto aveva biso­gno solo di un'oculata programmazione, che è mancata nel tempo dovuto. Le attività in argomento sono state realizzate isolatamente, una dopo l'altra, e non inserite in un piano complessivo. Gli esiti sono stati e continueranno nel tempo ad essere disastrosi sia per il bilancio economico pubblico sia per la deturpazione del territorio. Da certi progetti cervellotici traggono benefì­ci solo gli ambulanti della politica e i "gratta-gratta" della speculazione.
A poco a poco della vecchia Cirò Marina non resterà nulla, perché l'in­dolenza, l'egoismo, la corruzione, l'impreparazione e la presunzione insediati ai posti di comando opereranno sempre nuovi abusi e danni fino a cancella­re ogni parvenza del passato e a strutturare in maniera sbagliata l'immagine del territorio futuro. Allora non resterà che volare sulle sepolte rovine con i nostri ricordi, perché solo l'identità della memoria è capace di erigere un mo­numento duraturo alle sembianze di una civiltà che scompare.
''A poco a poco della vecchia Cirò Marina non resterà nulla, perché l'indolenza...''




mercoledì 1 ottobre 2014

§ 117 011014 Segnalazioni: Francesco Vizza e il suo gruppo di ricerca su ChemSusChem.

   Segnalo con piacere la cover, decisamente 'primaverile', che il numero di settembre c.a. della prestigiosa rivista scientifica in lingua inglese ''ChemSusChem'' (che tratta, come da 'epigrafe' di Chemical Sustenaibility Energy and Materials) dedica a Francesco Vizza e al suo gruppo di ricerca.
   Il soggetto della cover potrà far storcere, di primo acchito, il naso a qualche (troppo) benpensante... ma a ben guardare l'accostamento all'opera botticelliana non è poi così irriguardoso o irriverente: vi si può leggere - perché no? - l'essenza delle stagioni e l'essenza degli elementi... chimici!

   E poi, dopo i reiterati abusi, quanto mai spregevoli, di opere d'altissima arte piegata a fini meramente commerciali e più genericamente di lucro... credo che l'uso de 'La Primavera' calzi proprio bene, in siffatto contesto, ad indicare e significare la freschezza delle stagioni della terra che da un rinnovato e virtuoso studio delle energie non possono che trarre nuovo vigore e giovarsi di quel doveroso rispetto troppo spesso trascurato se non dimenticato.
PS: la rivista di cui sopra ha un IF ('Impact Factor') di circa 7,77... che non sono 'bruscolini', per l'editoria scientifica internazionale.

Ad maiora, Francisce Vitia Ypsichronensis.