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venerdì 10 ottobre 2014

§ 120 101014 Giovan Francesco Pugliese: la morte a Cirò.

   Nella 'ciropedia' del Pugliese, segnatamente nel II volume della 'Descrizione ecc.' (quella che in questi scritti indico come 'DEIN 2') possiamo leggere questo IV § della P.te V, Cap. I, in cui il Nostro affronta il tema del 'lutto per morte', quasi sbottando in un 'altro non manca che il rogo', che indica chiaramente il disagio avvertito dal Pugliese, intellettuale avido di modernità e di sviluppo sociale, economico e culturale, di fronte alla persistenza di usi quant'altri mai, forse, legati alla tradizione e retaggio a stento sopprimibile di credenze, superstizioni, riti e rituali scaramantici. 
    Dopo tale lettura, cosa dire? Forse che le cose, a distanza di quasi due secoli sono cambiate solo in parte, dal momento che non mancano sopravvivenze degli usi descritti dal Pugliese, soprattutto negli strati più popolari, che sono poi, di converso e ovviamente, quelli più soggetti a cambiamenti sostanziali d'indirizzo, e a questo sforzo con maggior forza richiamati. 
    In tutta sincerità credo che il Pugliese non abbia deliberatamente calcato più di tanto la mano sulle usanze in caso di lutto: ancora oggi esiste, ed è innegabile, tutta una casistica tacitamente statuita e quasi universalmente in tali evenienze osservata, con notevole precisione, per quanto riguarda qualsiasi aspetto comportamentale, anche quello più impensato. Il rito funebre diventa quasi manifestazione e performance corale, in cui il ritorno ad una teatralità di origini greche, e non solo greche, è di tutta evidenza: il Pugliese lamentava taluni comportamenti risalenti alla prima metà del XIX secolo, ma se si guarda ancora oggi a certi 'schiamazzi', al ruolo di 'prefiche' - non so fino a che punto richiesto, peraltro - assunto da conoscenti o familiari, ai pianti 'alla longobucchese', ai capelli strappati, ai graffi sul viso, alle urla, alle bande nere sulle porte in caso di dipartita di un capofamiglia, alle richieste fatte al defunto di incontrare e salutare (questa forse è una piccola razionalizzazione del 'viaggio') i cari defunti, intercedendo presso questi ultimi per averne aiuti ultraterreni... cosa si può dire? Nulla, forse, dal momento che nessuno può sentirsi autorizzato a giudicare l'altrui modo di affrontare il lutto, e chissà che magari lo stretto attenersi ad un rituale ormai secolare non aiuti a meglio a superare - se ci si riesce - una prova così pesante... magari dedicandosi ('spurijànnu') a stilare le classifiche d'importanza dei partecipanti, a vario titolo, in ordine di apparizione, di importanza, di consistenza (corona, mazzetto, telegramma...). 
   Meglio non insistere e parafrasando il Pugliese, auspicare che almeno si finisse quella usanza di salutare i parenti schierati ai due lati della porta della chiesa... un rituale che mi sembra troppo pesante per i parenti del defunto, nella riaffermazione di una partecipazione al rito funebre che col dolore e l'affetto c'entra proprio poco poco. Ma queste sono mie considerazioni inutili, oziose, da perdigiorno in un pomeriggio di foschia padana...
   Buona lettura, toccando ferro.
IV. Lutto per morte. 
   Comunque a poco a poco la civiltà raddolcisse i costumi, e richiamasse al suo impero la ra­gione, pure in occasioni di lutto tra '1 popolo non si può da un'anima sensibile reggere nel sentire i schiamazzi, i piagnistei, e vedere i graffiamenti, le percosse, e ‘l denu­darsi la testa da tutti i capelli; e di alcune donne è cosi commovente il piangere, che dicesi repito, e laudo o lodo del defunto, che il cuore più duro si commuove, e parte­cipa al pianto ed al dolore. La stanza si scompiglia. Si siede sulla terra nuda, o sopra un paglione: si butta ciò che tro­vasi nella finestra e si rompono vasi, teste di erbe e fiori; si sbattono porte, e finestre, maggiormente se trattasi di capo di casa. Il cadavere si accompagna dalle famiglie schiamaz­zando fino alla chiesa, ed al camposanto. Non si va a mes­sa per più tempo , e si sta per più mesi all'oscuro, ripe­tendo gli stessi lai al trigesimo, ed all'anno. Gli uomini non si radon la barba per più tempo ed indossano il cap­potto di lana ove si avvolgono anche ne’ mesi della cani­cola, col cappello appannato sugli occhi, e se non la­sciano di frequentare le campagne, si astengono però di comparire il più che possono nelle publiche adunanze dell'abitato. Scoprirsi la testa è tra' popoli primitivi segno di sommissione e di rispetto per altrui; coprirsi la testa poi, e nascondersi il viso è segno di profondo duolo.
   Intanto meritano di esser notate alcune superstiziose usanze, ed altre pietose pratiche.
   Quando alcuno è agonizzante, la famiglia pensa al viaggio dello spirito, e prescindendo da' soccorsi della religione, fa dono al vicino più povero di un bocale di acqua, di piccola quantità di olio sufficiente per vivificare una nottata, e due pani, ovvero un piatto di farina. S'intende far precedere con quell'elemosina l'acqua per dissetarlo, il lume per guidarlo, e 'l pane per ristorarlo.
   Il suono delle campane indica le qualità naturali e ci­vili di chi è trapassato. Si usa il suono in gloria pei bam­bini, per le verginelle, e per le vedove, che han serbato lunga vedovanza e che si dicono avere riacquistata la ver­ginità. Si usa il suono della sola campana grossa a morto­rio per gli adulti di entrambi i sessi; e questo suono è ristretto alla classe più povera. La campana grossa è di proprietà, e di diritto pubblico, ed il parente o amico può suonarla senza nulla pagare. Si usa infine l’acclasso, o sia il suono successivo ed immediato di tre campane, battendo un colpo alla piccola, un altro alla mezzana, e '1 terzo alla grossa. Era questo il suono di onore accor­dato prima ai Vescovi, e Sacerdoti, poi a' nobili del pae­se, e gradatamente a' Professori, e si è già diffuso anche a' maestri d'arti, bottegai, massari, e persone che pos­sono pagare il diritto di suono al Clero, che lo compren­de a’ diritti funerarj della Cappa. E questo acclasso si unisce anche alle glorie, suonandosi per una vergine un ac­classo, ed una gloria successivamente. Ogni gloria si paga al sagrestano grana cinque.
   E’ antichissimo costume di recare i parenti o intimi amici alla famiglia in lutto una cena di refocillamento e per lo più di pesci, e non di carni; ma a poco a poco la gara fra' ricchi è cosi cresciuta, che trattasi ora di scan­dalosi stravizzi. E siccome i chiassi di verace dolore del­la gente bassa si fanno da loro, così presso famiglie ci­vilizzate, contenendosi piuttosto il duolo nell'animo che in inutili sfoghi, vi concorrono a fare il repito, o lodo quelle donne che si qualificano le più intime, ed affezio­nate, che rappresentano in certo modo le romane prefi­che; e queste per non solamente satollarsi ne’ lauti pran­zi e cene di tre giorni, ma per farsi la provista per più giorni, essendoché il costume porta che nulla deve es­ser restituito dopo entrato nella casa in lutto, e vi si at­tacca il mal augurio. A buon conto la festa per la morte di un ricco che abbia numerosa clientela è per cosi dire desiderato; e quel detto che più volte si sente pronun­ziare da qualche affettuoso ghiottone: «succeda ogni mese una simile festa», dovrebbe far moderare la vanità dei pranzi.
   Nel dì della commemorazione de' morti il popolo s'im­padronisce della campana grossa, e suona or l'uno or l'al­tro per tutta la sera, notte, e porzione del 2 novembre a mortorio. Crede ciascuno di mandar suffragio alle anime de' suoi trapassati con quel suono. Le donne sempre che entravano in chiesa quando le sepolture Ecclesiasti­che sussistevano, e maggiormente edificavano col recitar preci, coronelle del rosario, e spar­gere acqua benedetta sulle lapidi delle sepolture. Ed in questo giorno ogni famiglia commoda cuoce una e due fornate di focacce col lievito a forma di Buzzolato Buc­cellato, dette pitte cullure per dispensarle in suffragio delle anime de’ trapassati; e ciò oltre all'elemosine in da­naro, ed in Messe.
   Il tempo pel quale dura il segno del lutto con vestire a bruno, comunque sia diminuito per l'innoltrata civiltà, pure è vario. La vedova per loppiù non cambia vesti­mento nero se non colla morte, o se non passa a seconde nozze, ed ancora qualcuna conserva l'antico uso d'in­dossare camicia di lana nera sulle carni, o pure camicia affumicata ed annerita...
   E se io qui mi limito ad esporre il lutto come si usa a Cirò, non può però includersi che costume eguale sia nelle Calabrie. Gli usi variano da paese a paese, ed an­che da famiglia a famiglia con questo solo osservabile, che i luoghi marittimi ricevendo progressiva civiltà la­sciano a poco a poco ciò che sembra alla barbarie appar­tenere, mentre ne' paesi di montagna comunque non mancassero famiglie cospicue, gli antichi usi più rigidi e tenaci si conservano. A Cirò per esempio tutti i parenti intimi concorrono a celebrare il lutto di tre giorni in casa del trapassato; ma in San Giov. in Fiore ogni parente si ritira in casa propria e vi resta chiuso pei tre giorni; uo­mini e donne del volgo della famiglia del defunto non depongono la camicia che indossano nel giorno del tra­passo se non dopoché si è consunta e lacera sulle car­ni. In quasi tutti i casali di Cosenza la porta d'ingresso è appannata con una coperta di lana in nero; ed il lutto si prolunga per molto tempo precisamente dalle vedove, che o sono effettivamente o vogliono dimostrare di essere inconsolabili, talché agli strazii ed alle privazioni altro non manca che il rogo.

   E non è da passarsi sotto silenzio che l'amor conjugale in Cirò forma la più bella virtù della maggior parte, comunque i matrimonj di vedovi non siano infrequenti, e per loppiù causate dal bisogno di un sostegno, o di aver prole. E potrei qui tesser l’elogio di molte vedove anche giovani che o han conservato rispetto costante alle ceneri del marito, educato e cresciuto i figli; ma di alcune che sono state vittima del dolore concepito per la perdita del marito, al quale han sopravissuto pochi mesi.

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