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sabato 30 agosto 2014

§ 111 300814 Domenico Amoruso, Memorie di una famiglia. A capiddina, il DDT.

Di Domenico Amoruso, zzu Micucciu, (1916-2013), ricordo soprattutto lo scambio di lettere che intratteneva, lui emigrato a Moncalieri, con mio padre rimasto nel paese natale. E poco altro, come le cento lire che mi diede in premio per aver risposto immediatamente 'Amatore Sciesa!' alla sua domanda 'Chi disse tiremm innanzi?'; l'ultima volta che l'ho visto era ormai quasi cieco e appesantito dal dolore per la morte imminente di mio padre... lo trovai piccolo e imponente, fuor di ossimoro.
E' alquanto singolare - e importante - che un uomo 'di altri tempi', tempi assolutamente estranei alle comodità dell'informatica, abbia voluto lasciare queste memorie scritte con caparbietà e fatica, con l'intento - risultato poi vano - di farne un libro i cui proventi sarebbero dovuti essere devoluti ai Padri Passionisti. Caro zio... non poteva certo sapere, e probabilmente nemmeno immaginare, quanto candore ci fosse in quel suo intento. 
Rimane una importante attestazione familiare, a volte incerta, per il peso che gli anni esercitano sulla memoria, spesso claudicante quanto a scrittura, come è ovvio, come ci si può aspettare da una persona che non ha avuto la fortuna, per censo, solo per censo, di poter proseguire gli studi. Ma non c'è supponenza nell'enunciato, vi è invece la soddisfazione, la consapevolezza, di rovesciare il piatto: sembra quasi uscire sconfitto, dalla lettura del 'libro', il detto 'in piatto poco cupo poco pepe cape': pepe e piatto si adeguano a vicenda, si 'corrispondono', e le parole dicono quel tanto che vogliono 'significare', anche quando sembra che vogliano inoltrarsi in ambiti più difficili, come la storia di Cirò o la situazione italiana durante i due conflitti mondiali. E' una voce che narra, a parenti, amici, conoscenti, seduti intorno alla ruota in legno del braciere, al cui interno vive il fuoco, piccolo o grande non importa, della storia vissuta, cioè la memoria... quella che i libri possono cercare di tramandare, ma che i lettori devono saper recepire per farsene a loro volta custodi e portatori.

Il passo che propongo viene riprodotto pari pari, ben lungi dal sottoscritto l'idea di emendarlo, edulcorarlo o renderlo più 'letterario' (sempre ammesso che io ne sia capace). E allora ecco cosa diceva zio Micuccio, errori compresi, a proposito di materassi, pulci, peronospera e DDT.
Erano i tempi, quelli del DDT, in cui i bambini si 'carusàvano', cioè venivano rapati a zero per eliminare le 'residenze' di lendini e pidocchi, e il termine 'cercare', usato in senso assoluto, senza complemento oggetto, significava liberare i capelli da quegli ospiti indesiderati, come fanno le scimmie a Superquark... Fortunatamente oggi basta scaricare una App, e con pochi clic sulla tastiera dello smartphone si possono avere teste immediatamente e perennemente disabitate... 
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Per quanto la parola verme possa apparire piccola ed insignificante, nominabile quasi con indifferenza, in realtà questo termine si poteva associare ad un vero flagello per il coltivatore di vigneti. Questo piccolo viscido esserino era infatti capace di mettere in crisi tutta la viticoltura del tempo, per chi di più per chi di meno, tanto da potersi paragonare ad una epidemia... era un'infezione come la peste, incurabile, non esistevano infatti preparati per poterla combattere e garantire così una perdita più esigua del prodotto. Mio padre tentava di tutto per riuscire a preservare il raccolto: prendeva subito l'iniziativa all'arrivo di un nuovo prodotto consigliato anche da suo cognato, Francesco Caruso, esperto di vigneti tanto che in quei tempi era chiamato "il professore". Irroravano così le viti con estratto di tabacco, con arsenico di piombo e altri preparati, ma per ottenere concreti risultati dovettero attendere la seconda guerra mondiale, durante la quale, dall'America fu importata una portentosa soluzione: il D.D.T. Il rimedio era un insetticida multifunzionale: efficace contro le pulci, le cimici, scarafaggi e pidocchi. Inizialmente se ne apprezzarono solo le funzionalità ignorando che potesse essere nocivo, assai nocivo per le persone. Solo anni dopo se ne ridimensionò l'utilizzo ma negli anni del dopo guerra questo "miracolo" liberò l'Italia da quella tortura, da quella peste. Fu importante anche perché utilizzato per lo sterminio dei pidocchi bianchi che si insinuavano numerosi nella vita di qualsiasi uomo, a prescindere a quale ceto sociale appartenesse e di quali agi usufruisse. Questi insetti si potevano ritrovare anche nella bianchissima biancheria dei neonati!
   Il dilagare di tale malessere era da attribuirsi alla guerra... il corpo era puntellato dai morsi delle pulci... che diventavano una tortura! Le cimici si annidavano nelle tavole del letto, all'interno della spalliera, persino nei materassi; quando si cambiava la paglia dal saccone e si metteva la nuova nel mese di agosto in quella vecchia le pulci somigliavano a formiche in movimento! Allora certo non c'erano i materassi con le molle e ci si accontentava del crine, oppure si utilizzava erba secca raccolta da terreni argillosi che in dialetto calabrese viene chiamata "capiddina", anche più resistente del crine.
   Per soddisfare la curiosità riguardo all'antico letto eccone di seguito una delucidazione: di seguito si metteva il saccone pieno di paglia e di sopra il materasso con la crine o capiddina! Così si faceva il letto di una volta! L'arrivo del disinfestante mise un giorno tutti in condizione di vivere e dormire in pace. Visto il successo dello sterminio di pulci e cimici e di pidocchi, per ben due anni la disinfestazione fu obbligatoria e gratuita in tutta la penisola italiana, in ogni città, paese e borgata.
    I medicinali venivano buttati nei pollai, nei porcili, nelle stalle, individuate dalla scritta dell'anno 1950, mese, giorno e la sigla D.D.T. In seguito il commercio divenne pubblico: in bustine era venduto nei consorzi che si occupavano di prodotti per animali.

    Chi ebbe per primo l'idea di utilizzare il disinfestante anche sul vigneto fu Giovanni Adorisio. Impiegato all'ufficio di collocamento di Cirò Marina, lui solo, ripeto, per primo trattò le sue vigne con il D.D.T. presso il suo terreno della contrada di Vriso, in agro di Cirò Marina. Quando arrivò la fine dell'agosto del 1952 i passanti poterono ammirare dei bei grappoli in nessun altro vigneto presenti perché infraciditi e consunti dal terribile e piccolo verme. L'apprezzamento si trasformava in invidia e incredulità. Chi attribuiva a tale conservazione solo la fortuna e nemmeno il suo fattore poteva credere a così tanta riuscita della sua idea! Aveva involontariamente posto fine o quasi ad una tortura che affliggeva i viticultori da secoli, i quali dopo tanto lavorare in un intero anno dovevano assistere inermi al deperire di un futuro raccolto. Oggi per fortuna il problema è stato risolto!

giovedì 28 agosto 2014

§ 110 280814 Segnalazioni: F. Vizza, Giano Lacinio di Cirò alchimista...

Segnalo con piacere e interesse l'articolo a firma di Francesco Vizza, pubblicato sul numero di gennaio-giugno (141/142, anno XXXVII)  del trimestrale 'Calabria Sconosciuta', dal titolo 'Giano Lacinio di Cirò alchimista francescano del XVI secolo'. Ancora una volta il ricercatore cirotano illumina la scena della Cirò cinquecentesca, popolata e animata - anche se a volte solo da lontano - dalle menti dei vari Lilio, Casopero, Basamo, Lacinio... e/o Terapo. Spero che quel mio 'e/o'  (per il quale chiedo venia: trovo sia un pessimo modo di esprimersi) possa spronare alla lettura del testo vizziano, ricco di riferimenti ed erudizione, stuzzicando la curiosità riguardo alla tesi che il Vizza qui lucidamente espone e che i lettori della rivista potranno apprezzare, non come uno scoop, ma come il frutto di una ricerca complessa e assidua che col tempo ha trovato la propria maturazione...
Ed ora una nota assolutamente personale: in calce al suddetto articolo, Francesco esprime la sua gratitudine a Giovanni Murano, a Ciccio Ierise e al sottoscritto. Richiesto del motivo dei ringraziamenti a me rivolti, affermava che alcune mie osservazioni gli sono state preziose... non ci credo, o non credo, ma la gentilezza che mi ha usato non può farmi altro che piacere. E questo significa che Francesco possiede una dote molto bella, che esprimerò nel nostro comune dialetto: 'unn è afferricàtu aru salàtu'! Grazie.


lunedì 25 agosto 2014

§ 109 250814 Sopravvivenze belliche della II guerra mondiale in agro alecino. I ''piazzoli''.

  UN PICCOLO REPORTAGE SENZA PRETESE: I ''PIAZZOLI''.
FIG. 1: CARTA ELABORATA SU UNA VISIONE SATELLITARE DI GOOGLE, CON L'UBICAZIONE APPROSSIMATIVA DEI COSIDDETTI 'PIAZZOLI'.
Durante la seconda guerra mondiale, in previsione di uno sbarco alleato, e comunque a presidio delle coste joniche (ma anche di quelle tirreniche) vennero costruiti dei bunker, veri e propri eredi delle torri di avvistamento realizzate, sin dal XIII secolo, su quegli stessi lidi al fine di allertare le popolazioni locali in occasione degli sbarchi di pirati turcheschi e saraceni in genere. Come noto, in territorio di Cirò Marina insistono ben due torri di avvistamento, la Vecchia, in località 'Madonna di Mare' o 'San Cataldo', risalente al XVI secolo, e la 'Nuova', appena successiva alla precedente, oltre alle meno visibili e conosciute 'torre di Solaggi', la più antica, e di Santa Venere.
Fig. 2: Torre di Solaggi (XIII-XV sec.), da 'Cirò Cirò Marina', op. cit.
I bunker novecenteschi sono abbastanza numerosi, come illustrato dalle foto allegate a questo scritto, che rimane carente di ulteriori informazioni, pur richieste a suo tempo alla Marina Militare, e delle quali rimango in attesa.
   Questo scritto, evidentemente impreciso, è un abbozzo di catalogazione di tali manufatti. Manca all'appello uno di essi, almeno per quel che mi consta, situato in via Scalaretto, alle cosiddette 'Sante Croci' nel pressi del 'Calvario', demolito nel 1997 (se l'informazione che ho raccolto è esatta) per far posto ad una abitazione civile.
   Come è facilmente intuibile questi bunker, la cui costruzione, peraltro alquanto frettolosa, dovrebbe (sottolineo 'dovrebbe') risalire agli anni 1942-43, insistono soprattutto nei pressi dell'area di Punta Alice, località ideale per il controllo di ampi tratti di mare nonché per l'avvistamento di uomini e mezzi in avvicinamento alla costa, prestandosi, il 'promontorio alecino', ad essere una pressoché naturale sentinella sul limite meridionale del Golfo di Taranto.
Fig. 3:  Nella mappa ripresa da Google si può notare la posizione strategica di Punta Alice, sul limite meridionale del Golfo di Taranto; se ne deduce l'importanza del controllo e del possesso di tale punto, in quanto situato su una rotta quasi obbligata per i mezzi navali che da Taranto si dirigevano verso la Sicilia o il Tirreno. Pari importanza sembra rivestire il Promontorio Lacinio, sul quale insistono, come nella zona di Punta Alice, numerosi fortini.
   Provenendo da nord lungo la linea ferroviaria Taranto-Reggio Calabria, il primo 'piazzolo', peraltro difficilmente visibile dalla SS106, si incontra in territorio di Cirò, nei pressi della località 'Volvito', tra il torrente omonimo e Marinella. Lo indicherò, quindi, come 'Volvito'. La posizione è veramente splendida, come si può intuire anche dalla foto.
Fig. 4:  Piazzolo 'Volvito', difficilmente visibile, tra Volvito e Marinella, nel comune di Cirò.
   Il riferimento alla linea ferroviaria 'jonica' non è peregrino né casuale: un 'treno armato' presidiava la tratta da Crotone a Cariati e la linea jonica era stata inizialmente suddivisa in sette zone, poi ridotte a quattro, ad ognuna delle quali era stato assegnato un treno armato. Si legge infatti nell'ottimo 'KR 40-43, Cronache di guerra', di Giulio Grilletta, Pellegrini ed., Cosenza 2003, che tale treno, nei giorni dell'agonia della torpediniera 'Lince' (4-28 agosto 1943), era stata posizionato, a protezione di quell'unità navale, al Km 192 della linea ferroviaria Taranto-Reggio Calabria.
    Proseguendo verso Cirò Marina si incontrano gli altri 'piazzoli' di cui vado a parlare, e che, pur sembrando dislocati 'in ordine sparso', in realtà seguono - così almeno mi sembra di capire - una logica coerente con la loro ubicazione in prima o seconda linea rispetto al mare.
    Un altro bunker, che gli amanti di Madonna di Mare e dintorni avranno inconsapevolmente sorvolato tantissime volte con lo sguardo, è quello rappresentato in figura 5, che chiamerò, appunto 'Madonna di Mare 1'... chissà se qualche (eventuale) lettore sa dirmi dove si trova...
Fig. 5: Piazzolo 'Madonna di Mare 1'.
In figura 5, una delle 'capinere' più note e fotografate, che ben riassume, con la Torre Vecchia sullo sfondo, la funzione di tali manufatti. A ulteriore attestazione dell'importanza di Madonna di Mare come punto di avvistamento, credo si possa ricordare la presenza di quelle fondamenta, prossime alla chiesetta, che appartenevano - correggetemi se sbaglio - ad una caserma della Guardia di Finanza, mai portata a compimento. Il luogo era veramente ideale non solo per l'avvistamento, ma anche per gli sbarchi...

Fig. 6: 'Castore'..., capinera 'Madonna di Mare 2', con la 'Torre vecchia' sullo sfondo.

   In definitiva questi bunker, o casematte, o cirotanamente 'piazzoli', da altri indicate anche come 'capinere' - sono entrati a far parte del paesaggio urbano e rivierasco cirotano, nonché dell'immaginario infantile, diventando presenze abituali, depositarie spesso di paure e di misteri svaniti con il passare degli anni e con l'affievolirsi dei ricordi.
Fig. 7: ...e Polluce, capinera 'la Cervara', a Madonna di Mare, verso la Cervara.

   Io ritengo che un interesse documentale, queste che mi ostino a chiamare 'capinere', alla maniera di mio padre, reduce dalla guerra nel Dodecanneso e di mio zio Michele, reduce della guerra d'Abissinia, lo abbiano. E magari una mappatura, anche alla buona, non guasterebbe, sebbene creda che da qualche parte esista già. Intanto gli ho affibbiato dei nomi a mio piacere, quelli di cui sopra...


Fig. 8: 'Elmo di Achille', si trova in via Cataldo Tridico, vicino a 'Il Gabbiano'.
   Un breve inciso personale: il piazzolo in figura 8 si trova in una via intitolata a 'Cataldo Tridico, eroe del mare': tanti anni fa domandai a mio padre, classe 1922, marinaio di stanza nel Dodecaneso durante la II guerra mondiale, se avesse avuto dei commilitoni compaesani che avevano combattuto con lui in Grecia... mi rispose che c'era stato un suo grande amico, Cataldo Tridico appunto, che 'non ce l'aveva fatta', e me lo disse con grande dispiacere. Mi fa piacere che Cirò Marina si sia ricordata di questa giovane vittima della guerra.
Fig. 9: 'Apollo Aleo', nelle vicinanze dell'ingresso del tempio di Apollo Aleo.

Fig. 10: 'Krimisa', dal nome dello stabilimento balneare nel quale si trova inglobato.
   Ora due piazzoli che ritengo 'di seconda linea': l'uno, pochissimo noto, l'ho battezzatto 'Santu Jennàru', l'altro 'Fatagò', dal nome delle località in cui trovano (ma anche 'Cannarò', per il primo, andrebbe  bene), il terzo 'Vurghe'.
Fig. 11: Piazzolo Santu Jennàru.

Generalmente i piazzoli sembrano godere di un certo rispetto o fortunata disattenzione... non è proprio così, poiché vicino all'entrata di quello di Volvito si notano delle lastre di eternit e quello di Santu Jennaru è abbellito dalla presenza di alcuni copertoni abbandonati.
Fig. 12: Piazzolo 'Fatagò', con l'ulivo che sembra la piuma di un elmetto da bersagliere.


Fig. 13: 'Vurghe', in prossimità dello stabilimento Syndial.

Fig. 14: la Torrenova.
   Bene, ho rovistato un po' tra le mie foto e i ricordi cirotani: questo scritto non ha alcuna pretesa storica, vorrebbe solo fungere da sprone a non dimenticare, visto che oggi, coi moderni smartphone, telefonini, macchinette digitali eccetera, non è poi così difficile fissare le cose anche piccole, consegnandole ad una memoria condivisibile e sempre più facilmente accessibile. Non so se esistano altri 'piazzoli' nel cirotano, oltre ai dieci (più uno demolito)* di cui ho parlato, né per quanto tempo ancora esisteranno, ma mi sembrava giusto segnalarne la presenza. Eventuali segnalazioni sarebbero ovviamente gradite.
    * L'amico Quintino Farsetta, mi segnala quanto segue:
1) Ciao Cataldo, aderisco alla tua richiesta di partecipare all'interessantissima individuazione e localizzazione dei ''piazzoli'', come amo chiamarli io. Ti ho segnalato quello che manca. Pensa che quello che sorgeva sulla via Roma è stato demolito con mazzetta e scalpello, non potendosi usare, ovviamente, esplosivi. Su quell'area mi sembra che il signor Bruno Guarascio abbia edificato e vi si trovi il negozio d'arte gestito da un certo Elio. Ho seguito tutte le fasi della demolizione perché tutte le mattine e la sera vi passavo quando andavo a scuola a Crotone. Un caro saluto.
2) La descrizione collima con quanto io sapevo e so. Manca solo ''u piazzolo 'e don Mmicenzu'': sorgeva nell'area vicino alla villa degli Amantea, ufficiali postali. Da bambino era un mio posto preferito per giocare o armare tagliole; inoltre era un luogo dove si portavano in ... gita le scolaresche, era più o meno dove sorge il lido ''Gemelli'' ed è stato probabilmente demolito per realizzare il lungomare verso la Torrenuova.
                                                                                              **************
    In base alle due segnalazioni ricevute si ricava, per ora, che almeno altri tre 'piazzoli' (l'altro era alle Sante Croci) erano presenti a corona di Punta Alice, per un totale di ben 13 postazioni: solo quella che ho denominato 'Volvito' sembra essere isolata, mentre le altre formano piccoli presìdi di due o tre unità, come si può vedere dalla figura 1... vuoi vedere che vicino al piazzolo di Volvito ce n'è un altro che non conosco, o che, probabilmente, esso faceva parte di un altro tipo di catena di posti di avvistamento, isolati, a presidio di punti particolari oppure situati ad una data distanza l'uno dall'altro?... Chissà!

domenica 24 agosto 2014

§ 108 240814 Corrispondenze, fùja quantu vo': ccà t'aspetttu.

Riprendo questo scritto, a distanza di qualche tempo. Ieri, 26 ottobre, una delle mie figlie, la grande, mi ha domandato il perché di tanta mia dedizione a quella che lei vede forse come la mia personale 'causa calabra'. Ho farfugliato qualcosa... intanto che ricorrevo alla definizione alla quale ero giunto la sera precedente: un debito d'origine; e intanto soggiungevo, tra me e me 'come un peccato, il più evidente', ma questo non gliel'ho detto.
                                                                       §§§§§§§§§§§

Dei pochi che mi corrispondevano tanto, rimane, grazie a Dio o a non so cosa, la parte più coriacea, quella che non cede al lenocinio della lontananza. Rimane una madre con le sue mani che tante spine hanno cercato di separare, a volte riuscendoci, altre invano. Rimangono soprattutto ricordi intimamente fusi, e perciò difficilmente scindibili, isolabili, e non cancellabili, se non cumulativamente, come sarebbe prassi di sommari colpi di spazzola.
Rimane altro, certo, di troppo intimo perché valga la pena di affidarne a parole l’esposizione, che ne risulterebbe comunque vaga e al di là della portata del mio dire. Fatica inutile sarebbe, quindi, parlarne.
Rimane lo Ionio, a destra, e la piana che annuncia la Presila a manca, se guardo verso Borea, o il contrario, come in un gioco di mani o in un cambio di punto di orientamento.
Rimane un paese che non conosco, che avevo abbandonato in cerca di nulla, neanche di un approdo, un posto a caso, con la scusa di un lavoro o di un qualsiasi motivo che mi portasse lontano, a sopravvivere senza troppi patemi d’animo, ad annullarmi in un luogo dove la risultante del dare e avere fosse uguale a  zero, o almeno molto prossima a questa cifra-non cifra.
Di quei pochi che mi corrispondevano tanto, in gran parte diffusi quasi a spaglio per l’Italia, invece, mi è rimasto tanto, tanto da non dover ricorrere a parole, per dire. Nemmeno i soli gesti basterebbero a camuffarci o confonderci, ogni sguardo, ogni gesto, risultando impeccabilmente preciso.
Di tanti che hanno compartito con me il mistero di questa terra, rimane, irripetibile, ineffabile, il senso di una appartenenza innegabile e irrinnegabile.
‘Fuja quantu voj’, questo scriverei sui cartelli all’uscita dei paesi del mio ‘sfasciume pendulo sul mare’.
‘Corri quanto vuoi che qui ti aspetto’, un refrain arcinoto, da queste che saranno sempre le sole ‘mie parti’, quelle da cui provengo, e mai altre, con tutto il rispetto.
Cosa sia la Calabria io in fondo non l’ho mai saputo né capito del tutto, forse perché la amavo e la amo troppo, forse perché troppo presto l’ho abbandonata, o da lei mi sono fatto abbandonare, non saprei.
Di un amore vero, in fondo, spesso non si capiscono bene i motivi e un amore da spiegare difficilmente potrà risultare imperituro, pur rimanendo nell’ambito della umana misura del tempo e dell’eternità.
Rimangono piccole, ineludibili, generiche ‘cose’ di quel tempo, di quei vent’anni che ho vissuto tra i sogni e le speranze che puntualmente si andavano vanificando. Però è stato bello, come bello è sognare, e doloroso, come doloroso è sentirsi incapace di cedere ai sogni. Forse i sogni bisognerebbe sconfiggerli per farne realtà…
Rimarrà sempre meno tempo, mi rimarrà sempre meno tempo per queste mie parti, per queste solitudini azzurrate di mare, di cieli e di favolose nuvole bianche di bambagia., questi bozzoli lenti dei sogni e dei pensieri.
O forse non mi rimarrà nulla che possa ripetere o ritrasmettere, appena, magari, il silenzio degli oleandri, i loro colori che esplodono senza freni, o il profumo dei gigli di mare, irresistibile, ancor più quando il giorno declina e nella sera è puro piacere poterne inspirare la grazia combattiva, essenziale, sottile. Questo sì, forse questo mi rimarrà, e forse qualcos’altro che non so dire, che non oso dire, perché è solo mio – almeno così mi illudo che sia – e intangibile, o incomunicabile; per mia manifesta incapacità, lo ammetto.

E allora la pianto, perché è notte, perché è tardi, perché non ho altro modo per dire dei silenzi in cui mi rifugio, tanto… non fuggo, so dove mi aspetti.   

venerdì 22 agosto 2014

§ 107 220814 terra terra terra

terra terra terra
terra a nescia e codda sulu
e scrini ca lassinu signi
funni come rappe
e varchi, varchi ca mumulìjnu a mar
cchi nn'è statu 'e sa terra e d'a riva luntana
e s'agùstu virdu a Netu
com unn'è mai statu
cchi nn'è de s'eriva
mon c'un serva
a nuddu
a ncunu ciùcciu tostu
a ncuna vacca ca si ciància l'ossi
cchi nn'è statu
'e tanta speranza e tantu chjàntu...
addùve va sa giuventù 'e beddi speranzi
adduvi va sa pruveràta in cerca d'occhj
ca lassinu spioggiàta...
addùv va su sulu arraggiàtu
sutti i pàmpini di viti
dduv van
si quattr'ossi 'e vecchj ca salùtinu
com na bannera strazzata...

'n terra, penzca
nta terra mìa c'un tegnu
nta terra nosta ca ti porti all'occhj
terra ca mi votu
e ci sì semp
com nu jùru c'un zì po' cògghjre
com na lingua c'un zi po' accittàre.

terra terra terra
terra a nasci ed esci sole
e segni che lasciano le ortiche
profondi come rughe
e barche, barche che mormorano a mare
cosa ne è stato di tanta terra e tanta riva lontana
di questo agosto verde a Neto
come mai è stato
cosa ne è ora di questa erba
che più non serve
a nessuno
a qualche asino testardo
a qualche vacca che si piange le ossa
cosa ne è stato
di tanta speranza e tanto pianto...
dove va questa gioventù di belle speranze
dove va questa polvere in cerca di occhi
che la lasciano desolata...
dove va questo sole rabbioso
sotto le foglie delle viti
dove vanno
le quattro ossa di vecchi che salutano
come bandiere stracciate...

in terra, forse
nella terra mia che non ho
nella terra nostra che ti porti agli occhi
la terra che quando torno
sempre ci sei
come un fiore che non si può cogliere
come una lingua che non si può zittire.







martedì 19 agosto 2014

§ 106 190814 Nu juru avestru.

Nu jùru avèstru
Juru ca nascia, sulu
Sul ca nescia, àvitu
Subba a rina er i sbentùri
Juru ca s’aza
Virdu, com dìcinu, a šperanza
Dduv unn’arrìva
Arraggiatìzza, l’unna
Juru ca ti difènni
Jùru ca avèstru ‘e l’aria
Un cerchi nente
Nu pocu ‘e lùcia, sulu
dinta a su pizz ‘e munnu
Na guccia ducia
‘e acqua
Mmenz a tanta rina
A dire basta ranna
Juru ca dici tuttu e un t'offenna nuddu
Juru ca l’anima t’avàsta
e campi, tu sulu
Juru,
ca mi potìssi abbastàre
S'un fossa, 
comu u gigliu  du maru
Avestru.


Un fiore a parte
Fiore che nasce, solo
Sole che sale, alto
Sopra la sabbia e le sventure
Fiore che s’alza
Verde, come dicono, la speranza
Dove non giunge
Rabbiosa, l’onda
Fiore che ti difendi
Fiore che a parte
L’aria
Nulla chiedi
Un po’ di luce
In quest’angolo di mondo
Una goccia dolce
D’acqua
In mezzo a tanta sabbia
A dire basta
Fiore che tutto dici e nulla t'offende
Fiore che l’anima ti basta
e vivi, tu solo
Fiore
che mi potresti bastare
Se non fossi
Come il giglio del mare
A parte.


giovedì 14 agosto 2014

§ 105 140814 ancora n'atu pocu

ancora n'atu pocu...
e mi sugnu votàtu
verz u muru
ntu ròitu du calendàriu
è statu com na jùta mmacànte
l'avìjnu pittàtu
u muru
e c'era sulu nu chjòvu
com na pena
o nu signàlu
'e tutti i facci mancanti
ca du bucu ntunn u muru
mi guardàvin
facennu 'nzinga
ari jurni passati e ari carti faglianti

cchì sarà statu?...

manca solo un poco...
e mi sono voltato
verso il muro
nel posto solito del calendario
è stata come un'uscita a vuoto
l'avevano ridipinto
il muro
e rimaneva solo un chiodo
come una pena
o un segnale
di tutti i volti ormai mancanti
che dal foro intorno al muro
mi fissavano
ammiccando
ai giorni andati
e alle carte mancanti

cosa sarà stato?...