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domenica 27 luglio 2014

§ 103 270714 Mario Fortunato e il Grand Tour.

   'Mario Fortunato e il Grand Tour', ma forse sarebbe più congruente 'Il Grand Tour di Mario Fortunato'... 


Lo incontrai una volta sola, in un tempo ormai perso quasi del tutto, se non fosse per questa mia incapacità di dimenticare completamente che non mi abbandona mai. Parlo di un incontro reale, tra persone. Non ebbi modo di rivederlo, benché dalle cronache, non più locali, io abbia avuto modo successivamente di apprendere cosa stesse combinando in giro per il mondo. Quel giorno lo vidi mentre passeggiava dalle parti dello scalo ferroviario, per strade che erano un po' il mio piccolo inalienabile mondo, e questo rappresentava per noi, 'quelli della stazione', quasi un attacco, una incursione da parte di estranei. Lo giudicai ben vestito, elegante, un ragazzo garbato, come i suoi due amici... erano quasi una nota stonata, in quel posto dove vivevo troppo spesso mimetizzato, parlando da solo, nella mia mente troppo incline alla rinuncia, di Borges o di Baudelaire, di Cielo d'Alcamo o Coluccio Salutati, così, magari a vanvera, come mi veniva, purché nessuno mi sentisse.          

    Declamava, a voce abbastanza alta ma controllata, una poesia che parlava di una rosa. Il bianco era il colore prevalente nei vestiti di quei tre ragazzi. Ero sudato, le mani sporche di pallonate e le scarpe erano le solite, sfregiate dai calci e dalle frenate sull'asfalto - i freni delle 'Graziella' prese in prestito erano sempre rotti - e bisognava usare i piedi, come nei cartoni animati degli Antenati. Li seguii per un po', a debita distanza, cercando di carpire parole e gesti, così come si segue una preda che non si catturerà mai, un pesce argentato che non ammette reti né esche di nessun genere. Forse parlavano di una poesia in latino, non saprei, non riuscii a catturarla... e intanto pensavo, ascoltando di nascosto, a Diego Vitrioli, al Reghium Julii, al premio di poesia latina Amstelodamiense... Pensieri fuori luogo, senz'altro, il pallone era finito dall'altra parte della strada e rotolava via in quella che chiamavamo 'a conetta', che a un certo punto spariva alle viste, in quanto coperta dal cemento, inghiottendo palloni, sudori, rabbie, e lasciando, forse, a incancrenire, solo echi di bestemmie.
Altro che poesie latine.

Sfogliando 'Quelli che ami non muoiono', Bompiani 2008, di Mario Fortunato, mi rendo conto di parecchie cose, non tutte facili da dire. Magari scopro che non ero il solo, nemmeno a Cirò-Macondo, ad amare Borges, o Adolfo Bioy Casares, e che forse avrei dovuto parlarne prima, con persone reali, di queste mie passioni letterarie che col tempo si sono svuotate alquanto, ma mai del tutto. Non importa. Dicono che volere sia potere, e spesso è così. Così credo sia stato per Mario Fortunato, da Cirò Marina, edizione 1957, il cui successo letterario non credo dipenda tanto dal censo o dalla testardaggine, come si potrebbe pensare sfogliando qualche pagina del libro che ho citato più sopra, ma soprattutto dal valore della sua opera. 
Intanto, voglio riproporre - sempre nella speranza di non violare le norme dei diritti d'autore - un articolo a firma dello stesso Fortunato, in cui tratta, anche, di un paio di miei numi tutelari, ovvero di quel George Gissing e di quel Norman Douglas delle cui opere si è parlato, e riportato qualche pagina, anche su questo blog. 
Non nascondo che sono rimasto sorpreso nel leggere questo articolo, per l'idea, evidentemente errata, che mi ero fatta, cioè che la materia 'calabra' non interessasse all'autore di 'Luoghi naturali'.
Non è così, per fortuna, e l'articolo - ci mancherebbe altro! - è molto ben strutturato, questo lo capisco anch'io, da profano.
Buona lettura.



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