A parlare di arrivi, di ritorni, forse si perde di vista un dato molto semplice, che deriva dall'uso improprio della parola 'direzione': a questa parola bisogna assegnare un significato esplicitato dal 'verso', dal 'senso'... la parola 'direzione', in sé, può risultare poco più che un abbaglio: bisogna intendere e dichiarare il senso del cammino, per stabilire la destinazione...
Quelli che seguono sono tre arrivi novecenteschi
‘giustapposti’, disposti in ordine temporale, non di pubblicazione ma di
ambientazione. Il primo arrivo, in effetti un ritorno, è a Cona, la Cirò di inizio novecento di
Luigi Siciliani, il secondo è nella Cirò – mai nominata nel testo – degli anni
trenta, dell’opera di Rajani; il terzo rappresenta l’ingresso, forse più che
l’arrivo, della maestrina Anna Mongiardo nella realtà di Sicrò Marina. Annoto
che già nella scelta dei travisamenti del toponimo, tra il colto ‘Cona’, noto
solo agli specialisti o agli appassionati della storia di Cirò e il quasi scanzonato ‘Sicrò Marina’, chiara aferesi di Ypsicrò, si colgono differenze che non sono solo temporali tra
le due opere, ma forse, e di più, di riferimento e provenienza culturale, nonché di intenti finali, dei loro
autori. Allo stesso modo la scelta del Rajani di non citare ‘Cirò’, e solo una
volta ‘Cremisa’, qualcosa vorrà pur significare... anche se risulta strana
questa scelta, dal momento che nel corso di questo ‘racconto lungo’ sono citate le porte della 'altisedente' cittadina con tanto dei loro veri nomi e senza possibilità alcuna di equivoco.
L’intento
di questa mia presentazione, così disposta, è, o vorrebbe essere, ‘diacronico’,
a discesa, per così dire, nel secolo scorso. Per motivi di spazio (e, temo, di
diritti d’autore) non ho aggiunto altre parti delle opere, certamente di non minore
interesse... Nel primo arrivo, Giovanni Francica torna da Firenze, dove aveva
soggiornato al seguito di una sua amante, vuoi per allontanarsi da lei, vuoi
per motivi politici – le elezioni del sindaco – nonché in ‘soccorso’ della
sorella Sofia; nel secondo arrivo, è il giovane protagonista, il Rajani
ragazzo, che da Roma, la città in cui vive, torna in quella Cirò dove in
pratica non era mai stato, ed è un ritorno prepotente, intimo, una vera anabasi
verso un luogo dell’anima, seppure sconosciuto, o meglio confinato in una
dimensione tutta interiore e onirica; il terzo, quello della Mongiardo, è un
arrivo vero, un arrivo ammantato di attese e speranze fuori luogo o mal riposte...
pensare di trovare il futuro in un paese, Sicrò Marina, situato in posizione
diametralmente opposta - rispetto a Catanzaro - alla S. Taddeo/S. Andrea
Apostolo dello Jonio dalla quale l’autrice e protagonista proviene mi sembra un
po’ eccessivo, un po’ troppo, dal momento che nella Cirò Marina di allora non
c’erano, come annota e lamenta l’autrice stessa, nemmeno le fogne e il
water-closet tanto agognato... Però c’erano quelle belle villette anni sessanta
che tanto abbellivano la Via Roma,
con i pioppi e ‘a conetta, l’erva fetusa, a Madonnedda, u campiceddu, u spitàlu vecchju, a crucia
di Passionisti, a gghjèsa, a gghjàzza... e tutto il resto, o tutto quello che
non c’è più, nemmeno la nostalgia, figurarsi la speranza.
In margine, aggiungo una nota al classico dire di Luigi Siciliani: il breve estratto qui proposto, a mio modesto parere, riassume bene, in poche righe - o non molte, comunque - una condizione esistenziale di una intera categoria di individui sospesi tra la possibilità del ritorno e il desiderio di successive, ulteriori fughe o ripartenze: individui che possono ma non vogliono mai interamente, e rimangono come le levette di certi interruttori, in posizione troppo spesso, quando non sempre, incerta. Sono quelli che potrebbero tornare o non andarsene, ma sentono che la vita è altrove, sapendo di non essere nel giusto. Forse. Ma non so nemmeno se mi spiego e non pretendo che ciò avvenga...
Buona
lettura, per chi ne avesse tempo e voglia.
Estratto dal
VII capitolo di ‘Giovanni Francica’ (Milano 1910), di Luigi Siciliani.
Giovanni usava venire in Cona nei periodi di
stanchezza spirituale o di esaurimento della sua borsa. Si fermava di rado più
di un mese o due, e preferiva l’inverno all’estate.
I primi giorni se li godeva in una apatia
profonda, come se avesse bevuto una gran tazza di liquore soporifero. Era come
se purificasse il suo spirito da tutte le scorie che le vicissitudini e le
amarezze della vita cittadina vi avevano lasciato. Stava per ore e ore, quando
era l’estate, a contemplare di giorno il mare e di notte lo stellato, con
quella indolenza che è propria degli uomini del Mezzogiorno. D’inverno poi,
amava andare a fare delle lunghe passeggiate in campagna, a cavallo, visitando
i conoscenti che vivevano nei loro così detti casini, i quali più che ville
sono in realtà case coloniche e fattorie; o si associava a liete comitive di
cacciatori.
Aveva
qualche volta manifestato il desiderio di ritirarsi del tutto a vivere in Cona;
ma nessuno gli credeva, a cominciare da sua madre, la quale avrebbe molto
desiderato di averlo vicino. Ma egli, se amava la terra dove era nato di una
passione che alle volte aveva del morboso, non amava affatto i suoi compaesani.
Chiuso nell’orgoglio del suo sapere li disprezzava tutti, perché egli non
aveva ancora acquistato quella bonaria indulgenza, che sa compatire ed
intendere, data solo da una lunga esperienza del mondo. Pure, egli non sentiva
mai la sua anima e il suo corpo agire e muoversi a loro pieno agio come quando
si trovava nella terra dove era nato, dove aveva avuto le prime sensazioni e
formato le prime idee. Il rimpianto della vita cittadina, il ricordo degli
amici e dei paesi lontani, il desiderio di conversare con gente più raffinata,
l’irrompere di nuove e indeterminate speranze, erano cose che lo risospingevano
lontano da Cona; ma dopo che ne era partito egli ritornava a sospirare per
essa. Specie quando gli sopravveniva una infermità, anche lieve, egli era
assalito dal terrore di morire lontano da casa sua e dai suoi.
Viveva
intanto in una simile alternativa, non essendo ancora giunto a quella stoica
indifferenza che fa riporre all’uomo ogni bene non in quello che lo circonda,
ma in sè stesso.
Estratto da ‘Gli ultimi della Magna Grecia’ (Firenze
1971), di Giorgio Rajani.
Questo purgatorio durò
a lungo. Il treno continuò ad andare a passo d'uomo, più lento della giustizia umana, fermandosi a
ognuna di quelle stazioncine, che erano tutte simili, composte, per lo più, da due edifici: uno pei servizi
e l'altro immancabilmente pei cessi; edifici spesso così eguali da rischiare di confonderli se, sul primo,
non fosse stato scritto il nome della stazione e, sul secondo, a caratteri
parimenti grandi,
la parola cessi, creando il pericolo d'indurre in errore chi non era di quelle parti
perché avrebbe potuto equivocare su come si chiamasse il paese.
Il treno superò un
certo numero di paesi dal nome spesso di origine greca, a cominciare da quello del mio paese, una
volta chiamato Cremisa, come ancora si legge sulle antiche carte murali nei
Musei Vaticani.
Me ne ricordai quando
zio Pietro, indicando col capo fuori dal finestrino, mi avvertì: «Stiamo arrivando: sono i
giardini di arancio».
Questa volta aveva usato la parola
giusta. Come erano belli quegli aranceti, davvero giardini! Ricchi di ogni varietà di
alberi sempre verdi: dal melarancio al melograno, e tutti piuttosto alti, fino
a cinque-sei metri, coperti di fiori bianchi così fìtti da formare uno spesso telo,
sulle cui smagliature si vedeva, ma raramente, l'azzurro del cielo, e, laddove non
c'erano fiori,
il picciuolo delle foglie verdi scure appariva alato, come slargato. E che odore
spargevano tutt'intorno! Sembrava fosse stata già estratta l'essenza di neroli dai fiori e
quella di petit grain dalle foglie e dai rametti, e lasciate tutt'e due
all'aperto, a profumar l'aria. Come sarebbero apparsi quegli aranceti quando i Portogalli a
vaniglia, dolcissimi, e quelli sanguigni, con la polpa rossa, avrebbero piegato i rami degli alberi col
loro peso: una coperta d'oro stesa tra la terra e il cielo? A Roma, avevo spesso sentito decantare la
bellezza delle vigne del nostro paese; invece esse, vedendole dal treno, quasi
mi turbarono.
Erano coltivate a filari da dire attaccati gli uni agli altri da come si trovavano
vicini, e formati da piante basse pochi palmi da terra, che apparivano già curve
sotto il peso di grossi grappoli, per lo più neri e con gli acini grossi e così
pieni da dar l'impressione che tutta la fatica e la sofferenza occorse per farli crescere
e la stessa violenza della terra, trasmessa loro attraverso le radici, vi fossero state compresse dentro
a forza e ora stessero sul punto d'esplodere. Sembrava che quelle piante, così
arroccate alle canne cui erano poggiate, combattessero una guerra mortale
contro un nemico feroce e implacabile; ed era proprio così: in quegli anni, esse
venivano attaccate dalla filossera, una vera maledizione di Dio, che
distruggeva loro e rovinava chi le coltivava.
Allo scender dal
treno, mi sembrò impossibile aver di nuovo i piedi a terra senza scossoni
sotto. La
stazione, come tutte le altre viste prima, era composta dai due soliti
edifici.
Zio Pietro ed io
uscimmo subito fuori. Intorno, c'era poco da vedere: sei o sette case e nient'altro. D'altronde, che si poteva
pretendere? Quella era una zona terribilmente malarica; solo a rimanere un po', ci si sentiva
bruciare dalla febbre. Sembrava avesse fretta d'andar via anche il postale,
che, all'uscita della stazione, aspettava col motore già acceso, scoppiettante
come avesse il catarro. Quant'era vecchio! Un Fiat B.L. residuo della guerra,
tanto rovinato, scrostato e sporco da dar l'impressione che lo avessero portato lì
direttamente dalla trincea, dopo un bombardamento.
Salii e, sistemato su
un sedile, la cui imbottitura era uscita tutta fuori dai numerosi strappi della fodera, mi domandai se
quel relitto gliel'avrebbe fatta a trascinarsi fino in paese.
Dopo quanto passato in
treno, neppur m'accorsi della camionale. Eppure ce n'erano curve, buche e salite lungo quei
sei-sette chilometri di strada polverosa. Ma io avevo quindici anni e che sono
le curve,
pure a centinaia, per uno stomaco a quell'età? Meno di niente; un ragazzo se ne
accorge solo perché, ogni tanto, vede qualcuno vomitare sul postale. Così
pure le buche: dopo più di ventiquattr'ore di sballonzolamento in ferrovia, era per me la stessa cosa
camminare su un biliardo o sulle rovine di un terremoto. Nemmeno la polvere mi dava fastidio;
ormai ne avevo addosso tanta di carbone che anzi questa bianca della strada
copriva, in
qualche modo, lo sporco. Mi avvidi invece delle salite. Impossibile infatti non
accorgersi del lamento del motore: un pianto che muoveva a compassione e sembrava di creatura
umana; però più che la salita a esser ripida, era il postale a esser in troppo cattive
condizioni; a volte, dava l'impressione di non sapersi decidere se andare
avanti o tornare indietro e c'era da chiedersi come facesse a restar unito
malgrado gli
scuotimenti continui, che sembrava dovessero mandarlo in pezzi. Invece esso,
sbuffando, ballando e arrancando, alla fine gliela fece, e così giunsi, senza però aver potuto veder
nulla lungo la strada, al mio paese, che era già sera tardi.
L'arrivo
Il postale fermò su
uno spiazzo polveroso da tutti chiamato Mavilo senza conoscere il perché, essendosi totalmente
dimenticato da chi o da cosa derivasse questo nome; né c'era, a rammentarlo,
alcuna targa,
strappata forse, secoli prima, da qualche pirata turco approdato su quelle
spiagge.
Affacciandosi al
pericolante parapetto dello spiazzo, si godeva una veduta splendida. Davanti:
la collina, sulla quale sorgeva il paese, declinava dolcemente, con pieghe
morbide di lenzuolo, verso le azzurre acque dello Ionio fino a entrare
morbidamente in esso dopo che il verde delle sue pendici s'era trasformato nella sabbia
d'oro della spiaggia. Non si dava però al mare tutt'intera ed in modo uniforme, bensì uscendo e
rientrando, formando in questo continuo e capriccioso abbraccio, spiaggette,
insenature e promontori a picco sull'acqua profonda. Tutto in giro si vedevano:
fitti boschi, uliveti, vigne e monti verdi degradanti, con dolci ondulazioni, verso
la valle
coltivata a giardini di aranci, e aventi in cima, paesetti arroccati,
che, da lontano, sembravano aerei castelli di fate.
Stavano tutto il
giorno a Mavilo, piovesse o bruciasse la canicola, turbe di ragazzetti, per lo più scalzi, con giacchette
e maglie a brandelli e i pantaloni né corti né lunghi, che arrivavano al polpaccio, e ridotti tanto male
da esser più pezze e culo fuori che stoffa; però tutti portavano in testa la
coppola: una
specie di berretta con la visiera, sempre unta e bisunta. Essi si rincorrevano senza
fermarsi mai; giocavano a «mazzapicchio» oppure facevano girare nella polvere del
piazzale la punta di ferro della «pirozzola»: una rudimentale trottola; le
loro grida
si alzavano sonore ininterrottamente dal canto del gallo all'ora di
dormire, impedendo a chi abitava vicino il minimo riposo; e a nulla valevano
rimproveri e botte perché essi, ammesso di riuscire ad acciuffarli, pure lasciati a
terra più morti che vivi, un istante dopo, come nulla fosse, si rialzavano e, andati
più in là, avevano l'impudenza di fare la «ioiata» a sberleffo, se non
cominciavano addirittura a scagliare pietre grosse come un pugno che, a non ripararsi subito,
colpivano quasi sempre. Essi non avvertivano nemmeno le zaffate che mandava lo
scarico, poco
lontano dal piazzale, ove ogni sera venivano vuotati gli orinali e gettato il
letame; saliva in cielo, a impuzzolentire l'aria, un fetore da far girare lo stomaco a
chicchessia; però loro niente, manco non avessero naso! Con quelli nemmeno la mano di
Dio ce la
poteva. Quale santo o diavolo li proteggesse non so, certo è che se si trovavano lì,
voleva dire che erano dei prodotti, fisiologicamente parlando, perfetti e altamente
selezionati dalla stessa natura in quanto né meningite né broncopolmonite né
alcun
altro morbo, esantematico o meno, che pure aveva portato via la maggior parte dei
loro fratelli, essendo dotato di tale virulenza da lasciar stecchiti non soltanto gli uomini
ma altresì gli elefanti, era stato capace di spazzare anche loro. È vero che qualcuno ne portava il
segno addosso e correva buttando male la gamba offesa dalla paralisi infantile,
ma anche
costui, benché zoppo, non rimaneva tanto indietro agli altri.
Il postale fermò
dunque a Mavilo, avanti la porta d'accesso al paese, senza però inoltrarsi
dentro, ove, in verità, non avrebbe potuto avventurarsi, essendo le strade ridotte in
tale stato, che sarebbe tornato indietro sì e no con la tromba sana.
Qui, le cose
cominciarono a ingarbugliarsi per me. Fin allora, gli avvenimenti s'erano svolti
in modo abbastanza
ordinato; a questo punto invece non capii più nulla perché, appena misi piede
a terra, mi trovai circondato da una folla tumultuosa: uno mi tirava, l'altro
chiedeva qualche cosa, il terzo voleva sapere, questo diceva, quello gridava e tutti
insieme spingevano.
Estratto dai
capitoli I-II de ‘Il cavallo dipinto’ (Roma, 1965), di Anna Mongiardo.
Era il trenta settembre e
c'era ancora tanto sole caldo, il sole arrabbiato dei nostri meriggi che
entrava sfacciatamente nel treno, per rendere più squallidi quei sedili di
legno e l'afa più asfissiante.
In piedi, presso il
finestrino, guardavo abbacinata il mio paese che si stagliava, in quella luce
crudele, dominando la marina.
Sovrano, altero, sembrava non vedesse le frane
che laceravano le due colline su cui sedeva, sdegnosamente, come un cavaliere
in arcione.
Era tutt'uno con il cimitero
adesso e quei cipressi alti, scuri, taglienti, lo rendevano più fiero. Non so
perché pensai con tristezza all'accorato addio della Lucia manzoniana. Io non
avevo i suoi sentimenti. Nessun rimpianto per il paese natio, nessuna emozione
se, non di gioia.
Sentivo un senso di liberazione sempre
crescente, man mano che si faceva più lontano il paese dei morti. San Taddeo è
un grande camposanto. Lì tutti sono morti, perché non amano la vita.
……
Quando S. Taddeo scomparve del tutto
all'orizzonte mi sembrò di essermi liberata da quel cappio che pendeva
minaccioso anche sul mio capo. “Sei giovane” diceva il treno. “Hai vent'anni”
rispondevano i fiumi, e gli alberi cantavano con gli uccelli mentre la terra
arata palpitava col mio cuore.
Il viaggio non finiva mai. Quattr'ore erano
troppe per la mia impazienza e l'immensa distesa di terra che i Cutresi
coltivano a grano sembrava sconfinata. Anche lì uomini scarni, bruciati dal
sole, chini sui solchi o a dorso di muli, “sciaraballi” lungo le viottole,
rossi trattori che sfidavano i raggi infuocati e valli, valli che aspettavano
con trepidazione di essere aperte per poi fecondare. E tutto era bello in quel
paesaggio, anche il sudore dell'uomo. Era la stessa terra di Calabria, la mia
terra, eppure aveva per me un fascino esotico, sempre più esotico, via via che
andavo verso oriente, verso la terra promessa.
Ed ecco
finalmente i lunghi filari di vigna carichi di grappoli maturi, ecco l'oasi del
mio deserto, l'oasi che cercavo per dissetare la mia sete di vivere. Essa mi aspettava,
mi chiamava. Col suo verde mi diceva: “Scendi, qui c'è la vita” ed io scesi dal
treno con due valigie e un voluminoso bagaglio di sogni.
Mi trovai subito in un mondo diverso, un
mondo nuovo pieno d'antico che sapeva di eterno, “Qui la vita procede con
ritmo accelerato e incessante” diceva il sibilo degli spiders. “Qui nulla
finisce, nulla muore” affermava l'aspetto atavico degli uomini sui carretti,
sui ciucci, e i porci che giravano per le strade assentivano coi loro
grugniti.
Quel contrasto stridente tra emancipato e
primitivo, tra ricchezza e miseria, in quel momento mi parve romantico e
m'inebriò, forse perché c'era troppo odore di mosto nell'aria e la vinaccia,
scorrendo liberamente, dissetava le strade polverose.
Capii subito che a Sicrò Marina non c'erano
fogne e, probabilmente, nemmeno gabinetti. Quel pensiero mi preoccupò perché
io cercavo casa e speravo di trovarla con i servizi igienici.
Lungo la strada c'erano alcuni villini, ma
io non osavo bussare, solo accarezzavo con lo sguardo l'edera dei loro muri. Ce
n'era uno bellissimo, tutto bianco, in mezzo a un roseto profumato dai primi
boccioli ottobrini.
Mi fermai per riposarmi (le valigie
pesavano) e anche perché mi illusi che qualcuno sarebbe apparso nel viale per dirmi
che c'era una stanza per me. Invece mi si accostò un uomo malvestito, con una “coppola”
in testa. Parlava un calabrese che non capivo mentre, coi gesti, m'indicava una
fila di case basse che sembravano edificate nelle immondizie. Quanti moscerini!
Ma le donne, sedute sulle porte, sembrava non li vedessero. Eppure ce l'avevano
fra i capelli, nelle mani, sui vestiti.
Un bambino, che giocava tranquillo con una vecchia scatola di latta, aveva il
naso letteralmente coperto di alucce nere. Mosche. Nient'altro che mosche e,
per giunta, gentili: risparmiavano alla madre la fatica di pulirgli il naso e poi
quella di lavare i fazzoletti
Mastru Catavuru (così lo sentii chiamare)
m'introdusse nella sua casa: un basso con due vani, due porte, due finestre e un
odore denso di rape in ebollizione. La cucina era nella prima stanza, accanto
alla porta. Pentole e tegami erano appesi al muro con chiodi. Il letto si
trovava di fronte, accanto a una cassapanca. In mezzo alla stanza c'era un tavolo
quadrato con due sedie e un bouquet pieno di fiori di plastica dai vivaci
colori, su cui le mosche avevano depositato tanti puntini neri. La donna, che
stava seduta a filare una conocchia, finalmente si alzò e sollevò la tenda a
fiorami che rendeva indipendente l'altra stanza. C'era un piccolo tavolo, un
lettino, due sedie. Vidi la seconda porta, l'inferriata a un buco che doveva
chiamarsi finestra e un rubinetto.
“Ecco il canale” disse l'uomo aprendolo, per
farmi vedere il getto dell'acqua. “Abbiamo tutte le comodità. Voi potete far
entrare e uscire chi volete senza dare
nell'occhio, perché abbiamo due porte”.
“Ma io sono una maestra” risposi, credendo
pensassero che facevo ...un altro mestiere.