martedì 27 dicembre 2022
domenica 11 settembre 2022
§ 367 110922 Dal feudo alla ndrangheta.
'Dal feudo alla ndrangheta', il titolo può sembrare peregrino o irrituale, quasi una boutade... Forse perché ormai riusciamo a dimenticare anche ciò che non abbiamo mai saputo -coscientemente saputo- che significa: indagare ciò che è entrato a far parte della nostra natura, ciò che abbiamo metabolizzato, ma non accettato o giustificato, ovviamente, fortunatamente, e... meno male!
Non sarò certo il primo, né l'ultimo, a domandarmi come mai la feudalità eretta a sistema, occhiuto, ubiquo, capillare, si sia protratta nel Sud d'Italia, isole comprese, a lungo come forse in nessuna altra parte d'Europa. A noi meridionali è toccata questa zavorra incredibile che sono le organizzazioni criminali erette a sistema. A noi e a nessun altro popolo d'Europa, perlomeno non in queste forme asfissianti, onnipotenti, è toccato convivere con un tale stato delle cose. E questo stato delle cose si è esteso, purtroppo, a macchia d'olio per il mondo: sono cose che tutti sanno o fingono di non sapere, che ignorano o fingono di ignorare, di cui non parlano o di cui fingono di non parlare... ''Orbu, surdu, e taci, campi cent'anni 'n paci'', no?
Una rovina... ''Fin a quann s'ammàzzini unu ccu l'atu'', ''fino a quando si ammazzano tra di loro'', ma non funziona così, perché non si tratta di due insiemi che non si toccano, i cammini delle mafie e della società civile sembrano viaggiare per linee asintotiche, ma è pura illusione, vana, estrema speranza residuale. Basta che elementi di questi due ''insiemi'' vengano a contatto perché ci sia la conflagrazione, l'esplosione del conflitto, il dramma e la tragedia. O la resa.
Ma cosa c'entra la feudalità con la mafia o la ndrangheta?
Il procuratore generale presso la cassazione di Napoli, Giovanni Masucci, così dice nella ''Avvertenza'' alla seconda edizione (1883) della ''Storia degli abusi feudali'' di Davide Winspeare, che era apparsa nel 1811: '' L'editore ha creduto di far cosa grata ai lettori aggiungendo all'opera di Winspeare una lunga monografia di Fustel de Coulanges, tolta dal reputatissimo periodico intitolato la Rivista dei due Mondi. Lo scrittore francese ha raccolta una larga messe di documenti e di notizie attissimi a rischiarare sempreppiù l'èra feudale; sicchè utilmente questa monografia va congiunta al lavoro, quantunque incompleto, del nostro illustre concittadino (Winspeare, n.d.r.).''
Nel prosieguo della ''Avvertenza'' il Masucci osserva che: ''È mio debito però di avvertire che tutti codesti principii lo scrittore francese li ha tolti dalle opere del nostro Giovan Battista Vico senzachè egli si fosse nemmeno degnato di nominarlo. E così suole per l'ordinario accadere. Non di rado gli stranieri saccheggiano i grandi monumenti della sapienza italica; se ne appropriano i germi; li fecondano e li svolgono coi loro studii pertinaci, e con indagini accuratissime; e poscia li mandano di qua dalle Alpi come un loro trovato ed una loro creazione. Avviene delle opere dei nostri sommi quello stesso che incontra alle nostre materie grezze, le quali trasportate oltremonti ed oltremari ci ritornano manifatturate, ripulite ed in mille guise trasformate.
Vuolsi però dar lode agli stranieri per la lena infaticabile onde essi studiano nelle opere dei nostri antichi, e ne fecondano i grandi concepimenti; mentre noi, ignavi nepoti, sovente le lasciamo negli scaffali neglette e polverose.''
IV. - DEL PATRONATO E DELLA
FEDELTÀ DOPO CARLO MAGNO.
Carlo Magno rialzò l'autorità monarchica;
egli prese il titolo d'imperatore, fè rivivere le regole amministrative dell'
impero romano, le sue tradizioni e fino il suo linguaggio. Nulladimeno si
discostò sopra un punto dall'antica politica dell'impero; invece di proibire il
patronato, lo autorizzò formalmente. Egli ne fece una istituzione regolare e
legale; gli diede luogo nei suoi Capitolari.
Permise agli uomini liberi di raccomandarsi,
cioè a dire di mettersi in vassallaggio, di darsi ad un signore e prestargli un
giuramento di fedeltà. Luigi il Buono fece come lui. Carlo il Calvo andò più
lungi: pretese che ogni uomo nel suo regno avesse un signore e fosse vassallo.
Non possiamo credere che questi tre principi fossero così ciechi da non vedere
che questa istituzione dovea un giorno infrangere il loro potere; ma essi
trovavansi alla presenza d'uno di quei fatti sociali contro i quali niuna forza
può lottare. E vero che Carlo Magno metteva al di sopra dell'autorità signorile
la sua propria autorità. Voleva che ogni uomo libero, prestando il giuramento
di fedeltà a colui che facea suo signore, prestasse lo stesso giuramento al re;
ma esisteva in ciò una contraddizione. I doveri della fedeltà erano talmente
rigorosi, talmente illimitati, costituivano una subordinazione così completa di tutto l'essere
umano, che era moralmente impossibile di essere ad un tempo il fedele d'un
signore ed il fedele d'un principe. Occorreva scegliere.
Non v'ha dubbio che le classi
inferiori avrebbero preferito obbedire al principe, se si fossero credute abbastanza
protette da lui. Esse non avrebbero subito l'autorità signorile, se l'autorità
monarchica avesse potuto sostenerlo e stendere la sua mano fino ad esse. Carlo
Magno lo sapeva; e così ripete cento volte nei suoi Capitolari che vuol
proteggere i deboli.
«Che
le vedove vivano
in pace, egli dice, gli orfani, tutti coloro che sono deboli vivano in pace
sotto la nostr difesa, e che si rispettino i loro diritti». Impone ai commessarii imperiali di prender
specialmente la difesa dei poveri; ma la frequenza stessa delle sue
raccomandazioni a questo riguardo fa dubitare della loro efficacia. Istruzioni tali
non si incontrano mica negli stati
in cui i diritti dei deboli sono realmente rispettati.
Facilmente si forma un'illusione sull'epoca di Carlo Magno. Siccome le
generazioni successive furono smisuratamente infelici, si figurarono il suo
regno come un tempo di pace interna, di ordine, di proprietà. Si leggano i
Capitolari di questo principe, essi sono pieni di tratti che rivelano la
miseria pubblica, le sofferenze ed il malcontento delle popolazioni. Egli
stesso, nel suo linguaggio ufficiale, ci dice con quali disordini aveva da
lottare. «Che gli uomini liberi, egli scrive, non sieno più costretti dai conti
a lavorare i loro prati, a fare le loro coltivazioni o le loro messi». «Che
nessuno, altrove egli dice, sia abbastanza ardito di stabilire di sua propria
autorità nuovi pedaggi sui fiumi o sulle vie».
Si producevano iniquità d'un'altra natura. «Non vogliamo, dice ancora
Carlo Magno, che i piccoli proprietarii siano oppressi dai grandi; non vogliamo
che oppressi dalla furberia o dalla violenza siano costretti a vendere o donare
le loro terre». Nell'anno 811, numerosi reclami giunsero all'orecchio del
principe da parte di quella classe di uomini che la lingua dell' epoca chiamava
i poveri. Ora dobbiamo intendere che quei poveri non erano gli stessi uomini che
si chiamano con tal nome nelle moderne società. Al disopra degli schiavi, dei
coloni, dei livellarii, dei proletarii, si elevavano «quei poveri» che non
erano altri che i piccoli proprietarii di allodii. Questi uomini, che sarebbero
quasi dei ricchi nei nostri stati democratici, erano realmente poveri e deboli
nella società di quei tempi. Erano essi che più soffrivano. Non aveano la
sicurezza del servo che il suo potente padrone proteggeva. Erano
quotidianamente minacciati nella proprietà e nella libertà. Questi poveri
gridano verso di noi , dice Carlo Magno; sono spogliati delle loro proprietà;
se uno di essi nega di dare la sua terra, si trovano mille mezzi per farlo
condannare in giudizio, o lo si rovina gravandolo oltre misura dei pesi
militari, fino a che non è obbligato a vendere di buono o cattivo grado ciò che
ha o anche a darlo per niente».
L'autorità pubblica avrebbe dovuto difendere
questi uomini; ma erano al contrario i depositarii dell'autorità che li
opprimevano; erano i conti, i centurioni, i vescovi, che quegli uomini
accusavano di spogliarli. Carlo Magno era ridotto ad emettere questa singolare
prescrizione: «proibiamo ai nostri funzionarii di acquistare con mezzi
fraudolenti le proprietà dei poveri o di rapirle per forza». Allorchè Luigi il
Buono, prendendo possesso del trono, fece fare un'inchiesta generale, si assodò
«che un'incredibile quantità di uomini erano stati oppressi, spogliati del loro patrimonio, privati della loro
libertà». Così, quella monarchia di Carlo Magno, quantunque ci sembri possente,
era stata incapace di sostenere i deboli. Sotto i suoi successori, non
incontriamo le stesse doglianze, perchè non vi fu più lamento. «Tutti i
disordini crebbero in quell'epoca, dice un annalista parlando del regno di
Luigi il Buono; il regno era coverto dalla desolazione, e la miseria degli
uomini andava crescendo di giorno in giorno». Molti cronisti aggiungono che
truppe di briganti scorrevano il paese. La maggior parte di quei grandi, che
figurano nella storia dei Carlovingi, erano capi di bande armate.
Ognuno di essi teneva soldati, ed il re non ne aveva. Essi aveano la forza che
può a suo talento opprimere o difendere, ed il re non possedeva verun mezzo per
esigere l'obbedienza o dare la sua protezione. Avvenne
allora quel che era avvenuto ogni volta che si verificarono le stesse
circostanze. Il debole, il quale non trovava appoggio nell'autorità pubblica,
implorò l'ajuto d'un potente. Ciò che Cesare diceva degli antichi Galli può
ripetersi per gli uomini del IX secolo. «Ognuno si diede ad uno dei grandi per
non essere in balia di tutti i grandi» .
I contratti di patronato, di raccomandazione, di fedeltà, si
moltiplicarono; gli uomini si resero clienti, fedeli, vassalli per vivere in
pace, e sentendosi abbandonati dalla sovranità , si diedero ad un conte, ad un
vescovo, ad un barone, che si fece loro signore, cioè a dire protettore e
padrone nel tempo stesso. Ecco, secondo un antico contratto, un esempio di
queste convenzioni: «Gli uomini liberi del paese di Wolen, stimando che
Gontrano, uomo potente e ricco, sarebbe per essi un capo buono e clemente, gli
offrirono le loro terre a condizione che essi ne godrebbero come beneficiarii,
ereditariamente, sotto la sua protezione, pagandogli un censo annuale». Quegli
uomini cangiavano il loro allo dio in beneficio, la loro libertà in servitù ,
per avere un difensore.
Poscia vennero le incursioni dei Normanni. Questi uomini, che la fame o
le interne divisioni discacciavano dalla Scandinavia, non formavano che
dispregevoli truppe di pirati. Si resta sorpresi del loro piccol numero e del
male che fecero. Si dimanda come la società gallo-germanica avesse potuto
diventare ad un tratto così debole da non saper resistere a tali nemici. Alcuni
cronisti dell'epoca hanno attribuito questa incomprensibile impotenza alla
battaglia di Fontanet, nella quale il sangue guerriero si sarebbe disseccato. E
verosimile che ciò che vieppiù avvilì quelle generazioni , fu la perdita di
ogni disciplina sociale e la divisione che ebbe luogo tra esse, sicchè furono
incapaci di difendersi contro le cupidigie dei popoli poveri. Norvegiani,
Danesi, Ungheresi, Saraceni, tutti coloro che erano avidissimi ed un poco
arditi piombarono su di esse. A sì miserabili avversarii, quel gran corpo
disorganizzato non seppe opporre nè frontiere, nè armate, nè una sola flotta.
Essi attaccarono contemporaneamente da tutti i lati; erano poco numerosi, ma
siccome moltiplicavansi pel movimento, venivano incontrati dovunque, ed erano
creduti innumerevoli. Gli Africani saccheggiarono Roma, l'Italia e la Provenza;
gli Slavi e gli Ungheresi devastarono l'Alemagna; i Norvegi ed i Danesi misero
a ruba la Francia. Essi arrivavano sopra barche, risalivano il Reno, la Senna,
la Loira, ardevano le città, portavan via l'oro, distruggevano le messi ed i
villaggi, scannavano i contadini o li conducevano schiavi seco loro. «Si
vedevano da per tutto, dice un annalista, villaggi incendiati e chiese
abbattute; cadaveri di chierici e di laici, di nobili e plebei, di donne e di
fanciulli; non v'era piazza, strada dove non si trovassero morti; era un gran
dolore vedere come il popolo cristiano fosse esterminato.» — «Un anno, dice
ancora un annalista, quegli uomini del nord lasciarono la Francia perchè non vi
trovavano più come vivere».
Le popolazioni resistevano come meglio
potevano; i cronisti fanno spesso menzione degli atti di bravura, ed in tutte le
classi. I re, quegli stessi re carlovingi che si dipingono come indifferenti e
dimentichi dei loro doveri, sono al contrario attivissimi e pronti a combattere:
la loro sola disgrazia è di non potersi trovare dovunque nello stesso tempo.
Noi li vediamo sempre in moto, correndo da una frontiera all'altra per tener
fronte al nemico; essi non conoscono il riposo; Carlo il Calvo stesso tiene
sempre la spada in mano. I grandi pure mostrano coraggio; si possono contare
negli annali tutti coloro che cercano di lodare, che difendono le città, che
sorprendono il nemico, che lo mettono in rotta o si fanno uccidere. Fino i contadini
prendono le armi e difendono valorosamente il loro suolo. Il coraggio non
manca ed ognuno fa quel che può; ma non è pel coraggio che una società si
difende contro le cupidigie dello straniero, sibbene per l'unione e la
disciplina. Bisogna che le forze individuali sappiano aggrupparsi per formare
una forza pubblica. Ora era precisamente questo che mancava alla Francia del IX
secolo. La sovranità non aveva nè armate permanenti, né fortezze sue proprie,
né amministrazione regolare, nulla insomma di ciò che protegge un gran corpo sociale.
Siccome non veniva più obbedita, così era incapace di difendere le popolazioni.
Il principale risultato delle incursioni
normanne fu di far palese ad ognuno quella impotenza della monarchia; esse
furono la pruova dalla quale questa fu giudicata. I popoli non pensarono che
erano in parte colpevoli della sua debolezza. Essi non videro che una cosa
sola, cioè che la monarchia non li proteggeva. Avrebbero voluto che come il nemico si
mostrava dapertutto, così ella fosse dapertutto presente, ma non la vedevano in
nessuna parte. Essi la rimproverarono di tradirli. Questo sentimento delle
generazioni del IX e del X secolo ha lasciato tracce profonde nelle tradizioni
e nei pregiudizi delle generazioni successive. Roberto Waie, nel romanzo
di Rou, riproduce sona dubbio i pensieri degli uomini schiacciati e
rovinati dai Normanni quando fa loro dire al re di Francia:
Che fai, che tardi, che risolvi, che
aspetti? Nè da te, nè da noi si chiede pace, nè ci difendi?
Invano il re risponde che egli non è che un uomo:
Non posso da me solo scacciare i Normanni,
non posso io solo sfidar tutti. Che cosa può fare un uomo solo e qual vantaggio
ottenere, se gli mancano gli uomini che deggiono aiutarlo?
Non importa; a lui si attribuiscono tutti i mali che si soffrono:
Videro le chiese arse ed il popolo ucciso
per mancanza di re e per sua debolezza.
La debolezza infatti è quel che i popoli meno perdonano ai loro
principi. La disaffezione degli uomini verso i Carlovingi è derivata da ciò.
Siccome essi non proteggevano, si cessò di temerli e di amarli.Allora tutti gli sguardi e tutte le speranze si diressero
verso i signori. Si era certi di trovarli nel momento del periglio; non si
doveva attendere che venissero da lontano, né temere che fossero
occupati altrove,
perchè abitavano la provincia o il cantone minacciato. Tra il conte e la popolazione del
contado, tra ogni signore e gli uomini che dipendevano da lui, era visibile il
legame degli interessi. Il campo del coltivatore era la proprietà del signore;
questi la difendeva dunque come suo proprio bene; per sospettosi che fossero
gli uomini, non potevano accusare il loro signore diretto dì tradimento né
d'indifferenza.
Vincitore, non gli si risparmiava la
riconoscenza; vinto, non si metteva in dubbio che soffrisse più di ogni altro. Quel signore era bene
armato; vegliava per tutti. Forte o debole, egli era il solo difensore e la
sola speranza degli uomini. La messe, la vigna, la capanna, tutto periva con lui o era salvo
con lui.
Si fu in quell'epoca che si elevarono i
castelli. Sei secoli dopo, gli uomini furono invasi da un immenso odio contro
quelle fortezze signorili; nel momento in cui si costruirono, essi furono
compresi da amore e riconoscenza. Quelle fortezze eran fatte non contro dì essi, ma in loro favore; desse erano
il posto elevato da cui il loro difensore spiava il nemico; erano il sicuro
deposito delle loro raccolte e dei loro beni. In caso d'invasione, davano esse
asilo alle loro donne, ai loro figli, a loro medesimi. Ogni castello era la
salvezza d'un cantone.
Le generazioni moderne non sanno più ciò che sia
il periglio. Non sanno più che cosa sia tremare ogni giorno per la propria
messe, pel pane dell'anno, per la capanna che si ama, per la moglie, pei figli.
Non sanno più ciò che diventa l'anima sotto il peso u un tale terrore, e quando
questo terrore dura ott'anni senza tregua né grazia. Ignorano cosa sia il
bisogno di esser salvati. Un tale
bisogno fé tutto obbliare; non si pensò nè ai re che non si vedevano, nè alla
libertà di cui non si sarebbe saputo che farne. Si obbedì a coloro dai quali si
era difeso; si diede la servitù in cambio della sicurezza. Migliaia e migliaia
di contratti si formarono fra ogni padrone
di un campo ed il guerriero a cui si doveva la vita.
Allora si stabilì ciò che quegli uomini
chiamarono il diritto di salvamento o
il diritto di custodia. I piccoli
proprietarii, i lavoratori, tutti coloro che ancora erano liberi, ma che
avevano bisogno di essere difesi contro l'invasore straniero o l'oppressore
vicino, si rivolsero ad un guerriero e conchiusero con lui un contratto. Fu
convenuto che l'uomo di guerra salverebbe e custodirebbe il lavoratore, la sua
famiglia, la sua casa, i suoi mobili e il suo frumento. Dall'altra parte fu
stabilito che il lavoratore pagherebbe questa protezione mercè un tributo
pecuniario e l'obbedienza. Tali contratti ordinariamente erano scritti in
questa forma: «Io vi ricevo, diceva il guerriero, in mia salvezza e difesa, e
vi prometto in buona fede di custodir voi ed i vostri beni, come deve farlo un
buon guardiano ed un signore». Il lavoratore da parte sua scriveva che
riconosceva essere sotto la protezione e custodia di quel signore. In molte
carte, il primo veniva indicato col nome di salvatore, il secondo con quello di
salvato; la convenzione chiamavasi un salvamento, ed il censo che vi era
attaccato portava lo stesso nome. La convenzione ordinariamente era fissata in
modo irrevocabile col contratto medesimo. «Umberto, nobile signore, è tenuto di
custodire e difendere gli uomini della castellania di San Germano, e noi, in
cambio di questa buona custodia, ci obblighiamo di pagare, a lui ed ai suoi
eredi, un censo annuale di cento soldi di argento.» — «Il villaggio pagherà al
visconte cinque soldi a titolo di commendazione,
e mediante una tal somma il visconte si obbliga di salvare sempre e dovunque
gli uomini del villaggio, sia quando si trovano nelle loro case, sia quando
vanno e vengono». Ciò che chiamavasi commendazione era lo stesso che salvamento
o guardia. Ecco un'altra formola del contratto: «Il signore ha la custodia di
tutti gli abitanti del villaggio e di ognuno di essi in particolare; sopra ogni
casa che avrà l'aratro, preleverà un sestiere di biada; su quella che non ha nè
aratro nè bovi, ne preleverà una quarteruola». In un altro villaggio ogni
famiglia deve al salvatore un mezzo stajo di avena, due danari ed un pane.
D'altronde gli uomini debbono fare per lui tre giornate di lavoro ogni
anno. Nei paesi vignajuoli, l'uomo di guerra si obbliga di custodire le vigne,
ed ogni vignajuolo gli fornisce una misura di vino. Talvolta ancora egli si
obbliga di proteggere sulle strade maestre i vetturali che trasportano il vino,
e questi gli pagano un diritto di protezione. In alcune provincie, il canone
del salvamento si chiamava la ventina; essa consisteva nella ventesima parte
dei covoni o nella ventesima parte delle frutta e del vino. Codesto diritto
signorile è stato stabilito in origine mercè una serie di convenzioni
particolari tra ogni signore e gli abitanti della terra, ed era il prezzo con
cui costoro pagavano la protezione che quegli si obbligava di assicurar loro.
Talvolta il contratto stipulava che il prodotto del ventesimo sarebbe
interamente impiegato a fortificare il castello che era la sicurezza del
villaggio. Si aggiungeva ancora che i contadini dovrebbero due giorni di
servitù ogni anno per lavorare alle fortificazioni. Questo salvamento è stato,
non la sola origine, ma una delle origini principali della feudalità. La
protezione ha trascinato seco l'assoggettamento. Il salvato si è fatto
servitore, ed il salvatore è stato inevitabilmente un padrone. Custodia e
comando si sono confusi. Gli uomini soffrivano e tremavano troppo per pensare
alla loro libertà; tra il vassallaggio e la rovina non hanno esitato. Si sono
sottomessi per esser difesi. Il giogo non è stato loro imposto per forza; essi
lo hanno accettato mercè un formale contratto. Non sono stati presi
violentemente dall'autorità signorile; le sono andati incontro. Siccome
vivevasi d'altronde in un tempo in cui il debole teneva più alla protezione che
il forte non tenesse all'autorità, consentirono a pagare il prezzo di questa
protezione, e sembrò loro naturale d'indennizzare il signore delle sue cure e
della sua pena. Più tardi, quando il corso dei secoli ebbe modificato tutta
l'esistenza umana, un tal contratto sembrò ingiusto, ed è certo che non
corrispondeva più allo stato politico ed economico delle società novelle, ma
l'istoria deve attestare che vi è stato un tempo in cui questo contratto è
stato conforme agli interessi ed ai bisogni degli uomini.
martedì 23 agosto 2022
§ 366 230822 Saverio Napolitano, Giuseppe Gangale e la questione meridionale.
Su segnalazione dell'amico Secondo Carlino, mi permetto di proporre anche qui questo interessante e importante contributo di Saverio Napolitano alla conoscenza del nostro grande compaesano Giuseppe Gangale, del quale, in ordine sparso, ho cercato, seppure nel mio piccolo, di parlare in questo blog, segnalandone ciò che ho potuto raccogliere. Che faccio, vi ricordo ancora la bellissima 'Preghiera della sera'? C'è la stele a ricordarla, nel cimitero di Cirò Marina, spero che qualcuno si soffermi a leggerla, e a trarne motivi di meditazione.
Ovviamente, ringrazio virtualmente l'autore dello studio, Saverio Napolitano, sperando di fare comunque cosa buona e -perché no- gradita. L'articolo suddetto è tratto da 'Rivista storica calabrese, n. s. XXXVII (2016), pagg. 7-22. Ancora più ovviamente, in caso di opposizione, il post verrà immediatamente rimosso... ma è qui, questo articolo, e siamo qui noi (io e altri tre o quattro lettori) solo per leggere, per raccogliere informazioni e la conoscenza che ne deriva.
Naturalmente, fui contento quando finalmente riuscii ad avere una mia copia di Revival, pubblicata da Sellerio.
Catàvuru.
domenica 21 agosto 2022
§ 365 210822 Pietro Giannone, Le quattro lettere arbitrarie.
Nessuna premessa, non sono all'altezza, del resto se qualcuno dovesse imbattersi in questo post sarà senz'altro un cultore della materia, quindi più preparato di me (cosa più che normale e facile). Mi limito a proporre la trascrizione del capitolo dedicato da Pietro Giannone (Ischitella 1676 - Torino 1748) alle 'Quattro lettere arbitrarie', in Istoria Civile del Regno di Napoli, volume II libro XXII cap. V, 1723, opera che al Giannone costò la scomunica e l'esilio, oltre alle critiche di Manzoni che lo accusò di ripetuti plagi.
Catavuru.
PIETRO GIANNONE ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI, 1723.
VOLUME II, LIBRO XXII, CAPITOLO V: DELLE QUATTRO LETTERE ARBITRARIE
Fra' capitoli del Re Roberto, non sono meno
celebri i Conservatori regj, che le quattro Lettere Arbitrarie: riconoscono per
Autore anch'elle questo savio Principe, il quale usando ora rigore, ora
clemenza, secondochè la quiete e la tranquillità del suo Regno richiedevano, le
drizzava alli Giustizieri delle province. Ne leggiamo ancora un'altra diretta a
Giovanni di Haya Maestro Giustiziero e Reggente della Corte della Vicaria, la
quale in alcuni esemplari va sotto la rubrica: Litera arbitralis; in altri sotto il titolo: De Praeminentia M. C. Vicariae, e comincia: Si cum sceleratis. Quest'ultima, come quella che contiene le grandi
prerogative che furono solamente concedute al Gran Giustiziero e suo Tribunale,
e non gli altri Giustizieri delle province, come di procedere contro i
disrobatori di strade, omicidi, ladri famosi, ladroni ed altri, per loro gravi
ed infami delitti, senza accusa e senz'ordine; e di poter procedere col solo
processo informativo alla tortura de' rei (prerogativa, che unicamente
s'appartiene al Tribunal della Vicaria): ciò che non essendo stato ad altri conceduto,
siccome furono le altre quattro lettere arbitrali drizzate a' Giustizieri della
province, quindi avvenne, che questa non si annoverasse tra le quattro, ma le
facessero passare sotto il titolo de
Praeminentia M. C. Vicariae. Girolamo Calà (a)[1]
nel Trattato che compilò sopra questo oggetto, credette che tal prerogativa non
dal Re Roberto fosse stata data a questo Tribunale, ma che prima l'avea già
avuta da Carlo II suo padre per lo capitolo in
accusatis; e che per questo capitolo si
cum sceleratis, da Roberto le fosse stata tolta più tosto che conceduta,
vedendosi essere stato quello drizzato a Giovanni di Haya, a cui unicamente fu
conceduto tal arbitrio per le sue particolari ed eminenti virtù di fede , di
giustizia e di zelo, e d'odio contro gli scellerati: dice però che da Roberto
fu restituita tal preminenza a questo Tribunale per lo Capitolo juris censura, e per l'altro provisa juris sanctio. Ma non bisogna
allontanarsi da quel che sentirono gli altri nostri Scrittori regnicoli ,
essere stata tal autorità ad arbitrio conceduto da Roberto a Giovanni, non già
per le sue particolari virtù, ma come Gran Giustiziero della G. C. della
Vicaria, per cui venne comunicata al suo Tribunale. Assai più s'ingannò quest'
Autore, quando scrisse, che da Roberto le fosse stata restituita tal preminenza
per li Capitoli juris censura, e provisa juris sanctio, come se quelle
lettere fossero state drizzate al Gran Giustiziero di quel Tribunale. Il
Capitolo juris censura, come si vedrà
più innanzi, fu drizzato al Capitano di Napoli, Ufficiale, come si è detto, ch'
era allora affatto diverso, e distinto dal Giustiziere della Vicaria: e l'altro
conviene a tutti i Giustizieri delle province, non già unicamente al
Giustiziere della G. C.
Furono chiamate Lettere Arbitrarie, non
solo perchè Roberto le concedè rivocabili a suo volere e beneplacito; ma anche
perchè si commetteva all'arbitrio degli Ufficiali di procedere ne' delitti in
ogni tempo, o con tortura o senza, o con accusa, o per inquisizione, ovvero con
composizione, usando clemenza, o con imporre le pene stabilite dalle leggi,
usando rigore. Una di queste lettere porta perciò il titolo: De Arbitrio concesso Officialibus.
L'altra, de Componendo, et Commutatione
poenarum. La terza, Quod latrones ,
disrobatores stratarum, et piratae omni tempore torqueri possunt; e
l'altra, de non procedendo ex officio,
nisi in certis casibus, et ad tempus. Quella che fu drizzata a Giovanni di
Haya pure fu detta Lettera Arbitrale;
perchè nella fine si leggono queste parole: In
his enim tibi plenam potestatem meri, et mixti Imperii, ac arbitrium competens
duximus concedendum. È da credere che fosse stata dettata da Bartolommeo di
Capua, come quella, che porta la data del 1313, quinto anno del Regno di
Roberto.
Fabio Montelione da Girace in quel suo
ridicolo Commento, che fece nell'anno 1555 sopra queste quattro Lettere
Arbitrarie, dedicato da lui a Carlo Spinelli I, Duca di Seminara, portò
opinione, che la prima lettera arbitrale fosse quella, che tra ' capitoli del
Regno leggiamo sotto la rubrica De non
procedendo ex officio, ec. la qual comincia : Ne tuorum : ma se deve attendersi l'ordine de' tempi, dovrà quella
riputarsi l'ultima, non la prima. Fu questa istromentata per Giovanni Grillo
Viceprotonotario del Regno, dopo la morte di Bartolommeo di Capua, nel 1329
ventesimo primo anno del Regno di Roberto, come porta la sua data; la quale
deve correggersi , ed in vece di Regnorum
nostrorum anno 20 deve leggersi anno
21. In questa si dà arbitrio e potestà a ' Presidi e Capitani di poter procedere
ex officio in alcuni delitti, senza
querela, o accusazione, cioè in tutti quelli, dove dalle leggi vien imposta
pena di morte civile o naturale, ovvero troncamento di membra: ove si tratti
d'ingiuria inferita a persone ecclesiastiche, pupille e vedove: e finalmente
negli omicidj clandestini, ove non appaja accusatore alcuno.
L'altra lettera arbitrale, che leggiamo
sotto la rubrica: Quod latrones,
disrobatores, etc., e che comincia: Provisa
juris sanctio, non vi è dubbio, che pure fosse stata da Roberto scritta per
mano di Bartolommeo di Capua, poichè sopra della medesima abbiamo di questo
Giureconsulto alcune note. Si dà facoltà per la medesima a' Giustizieri del
Regno, che contro gl'insigni ladroni, che nelle strade, nelle case ed in mare
rubano, e contro altri malfattori notati di maggiori scelleraggini, possano
procedere in ogni tempo a tormentargli, eziandio in giorno di Pasqua, senza
accusatore, senza ricercar plegierie, a loro arbitrio e facoltà.
L'ultima si legge sotto il titolo, de Componendo et Commutatione poenarum,
e comincia: Exercere volentes benigne.
In questa Roberto, temperando il molto rigore finora praticato, permette a'
suoi Ufficiali, e dà loro potestà di poter componere, e commutare con multe
pecuniarie le pene stabilite dalle leggi in questi delitti, cioè d'asportazione
d'armi, per gli omicidj clandestini; commutar le pene che gli Ufficiali
medesimi avranno imposte ne' loro banni o che imponeranno nell'avvenire
all'università o persone particolari le pene delle difese, de parendo juri, e
nell'altre arbitrarie, e nelle multe. In tutti questi casi loro si permette,
avuto riguardo alla povertà, in certa
quantitate pecuniae componere pro curiae nostrae parte.
Fu per questa lettera arbitrale Roberto
biasimato d'avarizia de' suoi detrattori, e che avesse perciò oscurata la fama
delle altre virtù sue; e Scipione Ammirato ne' suoi Ritratti rapporta, che
questo savio Re fosse stato perciò biasimato d'avarizia, e creduto essere stato
cagione delle molte discordie e divisioni, che nacquero in molte città del
Regno tra' lor Cittadini per le composizioni, ch'egli traea dagli misfatti dei
suoi sudditi, più in danari che in sangue; e ch'egli era solito scusarsi con
dire, che tutto ciò gli conveniva di fare per aver onde nudrire cotante armate,
che quasi ogni anno era costretto di mettere in punto per la ricovrazione del
Regno di Sicilia. Ma chiunque considereà, che Roberto queste composizioni le
ristrinse a certi non gravi delitti con tanta riserva e moderazione, ed avuto
ogni riguardo alla condizione delle persone, ed a molte altre circostanze,
secondo l'arbitrio d'un uomo prudente e da bene, non lo condannerà certamente
per sordido ed avaro.
Queste sono le cotanto presso di noi
celebri e famose Lettere Arbitrarie, sopra le quali sin da' tempi della Regina
Giovanna I, il Viceprotonotario Sergio Donnorso fece un Commento, del quale fa
egli menzione nelle note a' Capitoli del Regno (a)[2], e
di cui fu anche ricordevole Pier Vincenti nel suo Teatro dei Protonotari del Regno
(b)[3];
le quali nell'investiture dei Feudi furon da poi concedute a' Baroni insieme
col mero e misto imperio; non che Roberto avesse quelle a loro concedute,
poichè esse furono drizzate a' Giustizieri, non a ' Baroni, i quali allora non
aveano giurisdizion criminale, nė il mero e misto imperio, siccome aveano I Giustizieri
delle province. I Baroni insino al Regno d'Alfonso I d'Aragona, ovvero, come
credettero alcuni, di Giovanna II, non aveano nelle loro terre e castella, che
la giurisdizion civile. Non potevano prima d'Alfonso i Feudatari, che
possedevano terre con Vassalli, esercitar altra giurisdizione, se non quella
infima e bassa, indrizzata unicamente a sedar le liti e le discordie, che
sogliono nascere tra gli abitatori de' luoghi, creando a questo fine alcuni
Ufficiali annuali chiamati Camerlenghi, i quali non avean altra giurisdizione,
che di conoscere e giudicare d'alcune cause minime e sommarie.
I Giustizieri delle province ed il Tribunal
della Gran corte erano quelli Magistrati, che esercitavano l'alta e piena
giurisdizione sopra tutti i castelli e luoghi del Regno (c)[4].
Non altrimenti che
praticavasi a' tempi
de' Romani, i quali nelle loro città e terre aveano minori Magistrati, che
s'eleggevano dal Corpo delle medesime chiamati Defensores, dai quali s'esercitava una bassa, ed infima
giurisdizione , consistente nella cognizione delle cause minime, e sommarie
civili.
In luogo di questi Difensori, secondo avvertì a proposito Andrea d'Isernia (a)[5],
succederono poi nel nostro Regno i Baglivi de' luoghi, i quali conoscevano
delle cose civili, de' furti minimi, de' danni dati, dei pesi e misure, e d'altre
cause leggieri, e di picciolo momento (b)[6]. Ma
le cose più gravi e massimamente quelle, che riguardavano il mero imperio, e la
giurisdizione criminale, secondo le leggi de' Romani, appartenevano a' Presidi
delle province, in vece de' quali da poi nel nostro Regno furono costituiti i
Giustizieri delle Regioni (c)[7]. E
però non è maraviglia, che le concessioni delle Terre con vassalli, portassero
con esso loro quell'infima giurisdizione, come a loro coerente, e da esse inseparabile,
e non il mero imperio e la giurisdizion criminale, che non poteva dirsi alla medesima
coerente, siccome quella, che non da' proprj Magistrati, ma da' Presidi prima
soleva esercitarsi, e da poi non da' Baglivi dei luoghi, ma da' Giustizieri
delle regioni.
Marino Freccia (d)[8]
testifica perciò , che avendo egli letto il privilegio che fece Carlo I
d'Angiò, quando donò al suo figliuolo unigenito la città di Salerno col titolo
di Principato, con altre terre e città, come Ravello, Amalfi , Sorrento, Nocera
e Sarno, gli concedè solamente in questi luoghi la giurisdizione civile, e fu
notato per cosa rara, che nella città di Salerno gli concedesse ancora la
giurisdizion criminale, circoscritta però dal circuito delle mura, e dentro
quelle ristretta, e non oltre ; ma ciò fu propter
titulum suae dignitatis , come dice questo Scrittore, poichè in questi
tempi i Baroni non aveano giurisdizion criminale . Chi cominciasse a
concederla, vario e discorde è il parere dei nostri autori. Matteo d'Afflitto
(e)[9],
Grammatico (f)[10],
Caravita (g)[11],
il presidente De Franchis (h)[12],
ed altri sostennero, che il primo fosse stato il Re Alfonso I d'Aragona; e
quest'ultimo Scrittore dice non essersi ciò posto in uso, se non da' Re
Aragonesi. Altri, come Francesco d'Amico (i)[13],
il reggente Capecelatro (k)[14] e
Capobianco (l)[15],
la riportano un poco più in dietro, cioè a' tempi della Regina Giovanna II; ma
se dobbiamo credere a quel gravissimo istorico, Angelo di Costanzo (a)[16],
bisognerà dire, che il nostro Re Roberto fosse stato il primo. Favellando
questo Scrittore della liberalità di questo Principe, narra, che per infiniti
privilegi conceduti a' Baroni, a Cavalieri particolari, tanto Napoletani quanto
dell'altre terre del Regno, si vedea quanto fosse stato verso i medesimi
liberalissimo, a' quali donò Titoli, Castella,
e Feudi con giurisdizioni criminali, essendo fin a quel tempo costume, che rarissimi
de' Conti del Regno avessero la giurisdizione criminale nelle lor terre; e
questo Istorico medesimo rapporta ancora, che il Re Ladislao concede la
giurisdizione criminale ad Antonello di Costanzo sopra Tevarola, dov'egli ed i
suoi per ottanta anni non avevano avuto altro che la civile (b)[17].
Che che ne sia, se Roberto o altri suoi
successori a qualche suo benemerito avesse usata questa insolita liberalità ,
egli è certo, che da Alfonso I e dagli altri Re aragonesi suoi successori,
furon poste in uso; e con maggior frequenza fu , nelle concessioni fatte ai
Baroni, data la giurisdizione criminale , o nell'investiture fu conceduto loro
anche la potestà, ed arbitrio contenuto in queste quattro Lettere Arbitrarie,
ed oggi si è ridotto a stile, e quasi formolario di tutte l'investiture , che
si danno, di mettervi anche questa facoltà per clausola.
Da ciò, n'è nato, che siccome prima queste lettere
erano a beneplacito ed arbitrio del Principe, rivocabili e ristrette a certi
confini ; così per quel che riguarda le persone de ' Baroni, per le
concessioni, che ne tengono nelle loro investiture, sono irrevocabili; e
maggiore si vide in ciò essere stata l'autorità, ed arbitrio dei medesimi, che
degli Ufficiali regi, a' quali (come al Reggente e suoi Giudici della G. C.
della Vicaria, a' governadori delle province, Capitani delle terre ed altri
Ufficiali del Regno) fu prescritto dall'Imperador Carlo V per mezzo di sue
prammatiche (c)[18]
il modo di componere i delitti e commutar le pene corporali in pecuniarie, e
vietato di farlo senza suo consenso o del Vicerè del Regno, e senza rimession
della parte offesa, o ne' casi che si dovesse imporre pena di morte naturale ,
o di troncamento di membra. E poichè a' Baroni si trovavano concedute quelle
lettere , affinchè il loro arbitrio stasse ristretto fra' termini del dovere e
di giustizia; quindi l'istesso Imperador Carlo V con altra sua particolar
prammatica (d)[19]
stabilita per li Baroni e loro Ufficiali ordinò che non dovessero abusarsi
della facoltà, che tenevano nella commutazion delle pene, ma servirsene fra'
termini del giusto e con ragionevol modo: minacciandogli in caso d'abuso della
privazione dei loro privilegj.
[1] (a) Calà de Praemin. M. C. V.
cap. 2.
[2]
(a) Tit. de tormentis, fol. 27.
[3]
(b) P. Vinc. ann. 1352 p. 90.
[4]
(c) Constitut. Ea quae ad speciale decus Franc. de Amic. de his qui feud. dar.
poss. in c. sumus modo, fol. 43 numer. 2. Rosa in prelud. feud. lect. 11 numer.
10.
[5]
(a) Andr. in Constit. locor. Bajuli.
[6]
(b) Constitut. locor. Bajuli, et ad officium bajuli.
[7]
(c) Constit. Justitiarii nome, et normam Consit. Justitiarii per Provincias.
Constitut. Praesides, et Constit. Capitaneorum.
[8] (d) Freccia de subfeud. l. 2
auth. 2 num. 21.
[9] (e) Affl. in Constitut.
contingit. 3 notab. et in Constit. ea quae ad speciale decus 4
notab.
[10] (f) Gramat. volo 28.
[11] (g) Caravita ritu 49.
[12]
(h) Franchis decis. 510 nu. 4 et decis. 370 num. 2.
[13]
(i) Franc. de Amic. ad tit. de his, qui feud dar. pos. fol. 43 n. 8.
[14]
(k) Capecelatr. cons. 41 num. 10.
[15]
(l) Capibl. de Baron. prag. 8
par. 1 n. 63 e 84.
[16] (a) Costanzo
lib. 6.
[17] (b) Id. Hist. lib. 12 in fin.
[18] (c) Pragm. la
sperata delictorum venia pragm. Et quia, etc.
[19] (d) Id.
mandamus etiam.