Lunghissimo è l’elenco
delle meritorie opere di Sharo Gambino (Vazzano 1925 – Lamezia Terme 2008); alla
sua antologia Calabria Erotica
(Edizioni Città del Sole, Reggio di Calabria 2011) appartengono i passi che
seguono, sempre fidando nella benevolenza dei detentori del copyright (mio
unico e solo intento è far conoscere ‘cose di Calabria’, e nessun altro fine
intacca queste mie ‘ricerche scolastiche’, cioè i post che qui propongo).
Parlare di sesso
da calabrese a calabresi mi sembra addirittura strano, se non inutile, tanto
essendo pervasa la vita, dei calabresi ma non solo, da quello che ci viene
rimproverato o affibbiato come un chiodo fisso. Bisognerebbe leggere l’antologia
della quale parlo, o ‘Il previtocciolo’, di Don Luca Asprea, al secolo Carmine
Ragno (ebbene sì, un prete…) per saperne di più, o per ricordarne di più, del
sesso in Calabria… Discorso lungo, irto, spinoso, troppo spesso ignorato
volutamente, taciuto, nascosto, scansato assiduamente. Difficilmente qualche
malcapitato lettore conoscerà il rito della farchinoria, come descritto ad
inizi ‘900 dall’antropologo Giovanni De Giacomo (Cetraro 1867 – 1929), e quel
rito è sconosciuto non tanto per
ignoranza quanto per impossibilità di conoscerlo poiché mandato taciuto,
cancellato agli occhi e alla intelligenza del pubblico: qualcosa di cui
vergognarsi a nome di una intera regione e della nazione di appartenenza di
quella, un po’ come faceva – almeno così si dice – il caudillo Francisco Franco,
nascondendo alla vista dei non spagnoli gli abitanti di Cáceres e paraggi, in
quanto gozzuti. Allo stesso modo di riti ancestrali come la farchinoria non si
doveva parlare, e infatti, chi ne sa qualcosa?
Mi piace qui riportare
e le parole, franche, di Sharo Gambino e quelle di Mario Fortunato, che con
grande semplicità e naturalezza ci racconta il nascere di due suoi ingressi: l’uno
nella consapevolezza della sua sfera sessuale e sentimentale, l’altro,
parimenti consapevole, nel mondo della letteratura. A Cirò…
Nota: si tratta di brani non integrali; manca
inoltre la nota n° 3 del testo di Sharo Gambino.
Mario Fortunato
di Sharo Gambino
amore, romanzi e altre scoperte[1]
Nato a Cirò nel 1958, Mario Fortunato
ha vissuto a lungo a Londra, dove è stato Direttore dell'Istituto Italiano di
Cultura. Nel 2002 grandi intellettuali
inglesi hanno pubblicato sull'Observer, su The Guardian e su The Indipendent (ripreso poi da
Libération in Francia e da La Repubblica in Italia) un
appello perché non venisse destituito dall'incarico dal governo Berlusconi.
Come giornalista collabora con il settimanale L'Espresso e con la Stampa. Ha pubblicato una
raccolta di racconti, Luoghi naturali, e diversi romanzi, tra cui Il primo
cielo, Sangue, e L'arte di perdere peso. Ha pubblicato per
Theoria un libro/reportage, Immigrato (1990, scritto con Salah
Methnani), e una personalissima guida per nottambuli, Passaggi paesaggi. Ha inoltre curato,
nella collezione Einaudi Scrittori tradotti da scrittori, la versione italiana
di Boule de suif e La maison Tellier di Guy de Maupassant.
Alla nostra antologia non avremmo potuto far mancare il suo Amore, romanzi e
altre scoperte, che non è un libro erotico ma un
libro di vita - e quindi l'erotismo ci entra come
una componente, importantissima, dell'esistenza.
Nel libro, potremmo chiamarlo una sorta di "ritratto
dell'artista da giovane" (giusto il titolo di un famoso romanzo di Joyce),
Fortunato fa una rievocazione della propria giovinezza e dei suoi passaggi
cruciali, fino all'ingresso nell'età adulta con il conseguimento della laurea; una formazione che ha alla base
due esperienze fondamentali, che sono
la passione per la letteratura e la scoperta/ accettazione della propria omosessualità. Come dire, due "iniziazioni" alla vita e alla conoscenza di sé,
educatrici e seduttrici, palestre di apprendistato intimistico e sentimentale,
infine apportatrici di distinzione, di una maniera affatto "diversa" di
percepire se stesso e il mondo. Letteratura e omosessualità sono anzi nel romanzo di Fortunato una cosa
sola, perché lo scrittore rende omaggio ai suoi autori preferiti con una scelta di pagine dei loro romanzi e, nella
fattispecie, la stragrande parte
delle opere ospitate fanno riferimento all'omosessualità. Da Proust a Thomas
Mann, da Truman Capote a Pier Vittorio Tondelli, a cui Fortunato dedica un
intero capitolo, carico di ammirazione e di amicizia: autore indimenticato di Altri libertini e Camere
separate, anche lui omosessuale ed oggi icona di una generazione,
come ricorda Enrico Palandri in un bel
libro: Pier Tondelli e la generazione, uscito qualche anno fa[2].
Gli anni di cui Fortunato scrive: quelli della sua giovinezza erano i "caldissimi"
anni Settanta, in cui il discorso sul sesso si politicizzava e in cui anche la
letteratura si politicizzava, con un che di eccessivamente ideologizzato,
di esteriore o di preconcetto. Era l'epoca in cui i Gender
studies attribuivano a ciascun
testo letterario una sessualità latente, un pensiero sessuato: il filone della
letteratura femminista, quello dei gay, delle
lesbiche eccetera. Fortunato ricorda quegli anni dandone un giudizio alquanto freddo, e rivendicando una propria separatezza e indipendenza: la passione per la
letteratura, preferita alla politica; il suo non
frequentare i circoli gay; in una parola, la sua maniera di essere "diverso" fra i diversi, sono come la
ricerca di un modo di essere più privato e personale, di una verità più profonda,
esemplificata, appunto, dalla letteratura. Letteratura che, usata
come un'amante,
gli insegna a scoprire e ad arricchire la propria identità (omo)sessuale.
Il
fatto, se non erro, rischia di capovolgere l'opinione che abbiamo formulato all'inizio, secondo la quale la
letteratura erotica parlerebbe di sesso,
ma non sarebbe sesso essa stessa, opinione formulata, veramente, soprattutto per evitare complicazioni di carattere
"etico", tutelando la nostra
opera da una eventuale accusa di iniquità. Ora leggendo Fortunato scopriamo, invece,
che ci sono romanzi maschili, femminili e anche omosessuali. Certo essi non
hanno sesso, perché non hanno un pene o una vagina, ma un genere evidentemente
sì (così come hanno un genere le parole, anch'esse maschili o
femminili, perché noi parliamo un
linguaggio sessuato). Di conseguenza, non esisterebbero letture «neutre». In qualità di lettori di libri, il
nostro essere maschi, femmine o altro,
entra in relazione col loro essere maschi, femmine o altro - come una specie di coito. Quello che siamo, in fatto di
sesso, dipenderebbe anche da questa o quella lettura che abbiamo fatto,
esattamente come un'amante che abbiamo avuto. Cosa che è
straordinariamente vera per questa
antologia, che è la Cecia (la prostituta calabrese nata dalla penna di Vincenzo Ammirà, n.d.b.), la Cicciolina, la Jessica Rizzo di tutte le letterature.
Con grande soddisfazione del sottoscritto che, in cuor suo, avrebbe sempre desiderato essere una donna, per
poterla dare a tutti.
LA PAROLA «OMOSESSUALE»
di Mario Fortunato
So di preciso quando ho sentito per la prima
volta la parola «omosessuale». È stato a Cirò, in Calabria, il paese in cui sono nato.
Avevo sei
anni. Era un pomeriggio assolato d'estate, uno di quei pomeriggi che sembrano
dover bruciare in eterno. Sulla piazza, un gruppo di uomini (ma a ripensarci
adesso, non avranno avuto più di venti-venticinque anni)
chiacchierava rumoroso di donne e di sesso. Io stavo a sentire: il sesso
esercita sempre un'attrazione particolare. Gli uomini parlavano e
parlavano. Le loro parole stagnavano nell'aria immobile e appiccicosa. Di tanto
in tanto, scuotendosi un poco, il grande albero al centro della piazza sembrava
attraversato dalle loro parole. Io mangiavo il mio gelato alla crema e intanto ascoltavo. Ascoltavo
senza capire un granché: ero un bambino piuttosto ingenuo e in materia di sesso completamente tonto.
Poi qualcuno di quegli uomini pronunciò
la parola. Mi colpì perché era una parola lunga, composita, e mai sentita prima.
L'uomo, che stava vantando le proprie
capacità amatorie, disse più o meno: «A me le donne piacciono tutte, perché io sono troppo omosessuale». Intendeva dire, credo, un uomo dalle spiccate capacità
sessuali. Da allora, e per un certo
numero di anni, esclusi nella maniera più assoluta di essere omosessuale.
Non ricordo con precisione invece quando,
per la prima volta, ho provato uno stimolo sessuale. A me piaceva giocare con le
bambine, anche se erano più grandi. I loro nomi erano
dolci. Una si chiamava Rosetta, un'altra Silvana, un'altra ancora Filomena.
Giocavamo tutti i pomeriggi
davanti a casa mia. Erano lunghi e semplici quei pomeriggi. In genere, si giocava a palla, oppure a nascondino. Faceva
sempre caldo, in quegli anni. O
almeno così mi sembra adesso. Un
giorno venne
a giocare con noi Cecé. Più grande di qualche
anno, era parente o vicino di casa di una delle mie amiche. Biondo, gli occhi azzurri. Cecé era molto più bello di me, molto più forte. Ricordo che
mi fece l'impressione
di un adulto. Con lui le mie amiche sì
comportavano diversamente. Giocammo come sempre, ma avvertivo nell'aria una strana tensione:
sembrava ci stessimo esibendo davanti a dei genitori invisibili. Sul tardi, ci
mettemmo seduti sui gradini di casa. E io cominciai a raccontare delle storie totalmente
inventate sulla mia famiglia. Storie piuttosto tragiche, fatte di fughe, di
malattie e di morti misteriose. Non so bene perché inventai quel cumulo di fesserie, però ricordo
che alla fine Cecé mi fissò dritto negli occhi e disse: «Cazzo», stringendomi la mano. Credo che arrossii per la
prima volta in vita mia. Sarà stato
quel rossore il mio primo stimolo sessuale?
Non
accadde nulla, nulla di preciso, fra me e Cecé. Non accadde quel giorno, e neppure nei
tanti che passammo insieme. Ero innamorato
di lui, adesso mi è chiaro, ma allora lo amavo come si può amare un paesaggio, o come si provano certe gioie immemori e del
tutto gratuite. Non mi vergognavo dei miei
sentimenti per Cecé. Il fatto di essere
tonto in materia di sesso credo mi abbia risparmiato qualche amarezza. Non mi vergognavo dei miei sentimenti, anzi li
sbandieravo. Cecé era così sveglio, così intelligente, così abile in tutto
da farmi pensare che chiunque avrebbe dovuto
adorarlo. Del resto, anche lui si adorava:
era molto vanitoso, gli piacevano le mie lodi. E le ricambiava offrendomi una sorta di intimità animale che mi
rapiva.
Poi un giorno (ero un ragazzino molto studioso, anche un po' secchione,
temo), ritrovai la parola «omosessuale» scritta nero
su bianco sul Grande Dizionario Enciclopedico che mi era stato da poco donato. Lessi avidamente, chissà perché. Forse, ricordavo quei
discorsi sul sesso orecchiati nella piazza
del paese qualche anno prima. Fu a dir poco una
sorpresa. Sembrava che il Grande Dizionario Enciclopedico avesse spiato i miei sentimenti per Cecé e li avesse tradotti in
un linguaggio freddo e presuntuoso.
Dunque, ero un omosessuale. Che strana parola, per un ragazzino. Ne avevo sentite
altre in giro che, ora mi rendevo conto, volevano dire la stessa cosa. Parole
piuttosto pesanti: insulti. Però la parola «omosessuale» era la più strana di tutte: forse perché,
con quel suo tono scientifico, asettico, faceva pensare di
essere parecchio malati e di doversi rivolgere di
corsa a un medico. Io, per dire la verità, non mi sentivo male, anzi mi sentivo
bene, in forma. Da quando avevo conosciuto
Cecé mi pareva che tutto il mondo (cioè il mio paese) fosse un posto esaltante. Io e lui si stava sempre insieme, si
andava in giro, si chiacchierava, si giocava. Sempre insieme. Due cose però mi piacevano più di
ogni altra: guardare le sue mani e sentirgli dire «Cazzo». Due cose che capitavano spesso.
Mi sono domandato molte volte, in seguito,
se Cecé fosse anche lui omosessuale. Non gliel'ho mai
chiesto. Lui era sano e scattante come me. Solo più muscoloso. Il fatto di avere dei bei muscoli
poteva servire a non essere omosessuale? A ogni modo,
a me non interessava
poi molto. Anche se
di tanto in tanto mi sentivo strano e malinconico, tutto sommato io ero felice di essere
omosessuale, felice di amare Cecé.
Quando, qualche anno dopo, lui si trasferì con la famiglia a Milano, cioè dall'altra
parte dell'universo, per me fu un disastro. La notizia era
nell'aria da tempo, ma all'inizio mi pareva assurda, inconsistente.
Salutandomi,
Cecé disse che avrebbe scritto, che ci saremmo
tenuti in contatto
in un modo o nell'altro. Se ne andò
sorridendo, come niente fosse, mentre a me sembrava che il cielo tutto quanto, con
le nuvole e la luna e i
pianeti, mi stesse cadendo in testa. Ma non lo diedi a vedere a Cecé,
né dopo ai miei genitori. Ricordo che mi chiusi in camera e rimasi immobile, come
fossi stato fulminato. Avevo voglia di piangere, una voglia invincibile, ma
resistei. Ero sudato dalla testa ai piedi per lo sforzo, ma non uscì neanche una lacrima.
Che cosa ne sa un bambino dell'amore non
ricambiato, dell'abbandono, che cosa ne sa della gelosia? Io non ne sapevo nulla. Cecé se n'era andato, emigrato con la sua famiglia in un luogo
remoto chiamato Milano, e questo era tutto. I pomeriggi adesso sembravano un po' più vuoti e aridi, è
vero, i giochi meno avventurosi e beffardi, ma in fondo tutto era come prima.
Le mie amiche, il paese, le estati così
lunghe e piene di
profumi.
Non ho mai rivisto Cecé, mai più avuto sue notizie. Continuai a pensare a lui, alle
sue mani e al suo modo di dire «Cazzo», per un certo periodo di
tempo. Poi semplicemente me ne dimenticai. Ma nessuno prese il suo posto per lunghi,
lunghissimi anni. Avevo tanti amici, ero circondato da bambini, però il preferito, il compagno delcuore rimaneva lui,
Cecé.
Con la scomparsa di Cecé scomparvero, o almeno si inabissarono, i miei turbamenti, le
curiosità verso le persone del mio stesso sesso. Anzi, potrei
dire che scomparvero o si inabissarono turbamenti e curiosità verso il sesso in
generale. Ciò che amavo più di ogni altra cosa, adesso, era la lettura. Leggere era divenuta la passione dominante. Jules Verne prima, poi Zola e Cechov, i Ricordi
di un entomologo di Jean-Henri
Fabre, la storia della Rivoluzione francese, il Diario di Anna Frank. Leggere
mi portava lontano, e io mi sentivo molto più libero, molto più ricco che in precedenza. Chissà, forse
cercavo di raggiungere Cecé
attraverso una terza dimensione, oppure semplicemente avevo scoperto il vero amore della mia vita. Chissà.
Certo è che, in quegli anni, del
sesso non me ne importava nulla, mentre della letteratura mi importava moltissimo.
Cambiammo casa e paese. Ci spostammo sul mare. Un piccolo terremoto. La scuola, i
compagni di gioco, tutto diverso. In quel periodo, penso, scoprii la
solitudine.