'Dal feudo alla ndrangheta', il titolo può sembrare peregrino o irrituale, quasi una boutade... Forse perché ormai riusciamo a dimenticare anche ciò che non abbiamo mai saputo -coscientemente saputo- che significa: indagare ciò che è entrato a far parte della nostra natura, ciò che abbiamo metabolizzato, ma non accettato o giustificato, ovviamente, fortunatamente, e... meno male!
Non sarò certo il primo, né l'ultimo, a domandarmi come mai la feudalità eretta a sistema, occhiuto, ubiquo, capillare, si sia protratta nel Sud d'Italia, isole comprese, a lungo come forse in nessuna altra parte d'Europa. A noi meridionali è toccata questa zavorra incredibile che sono le organizzazioni criminali erette a sistema. A noi e a nessun altro popolo d'Europa, perlomeno non in queste forme asfissianti, onnipotenti, è toccato convivere con un tale stato delle cose. E questo stato delle cose si è esteso, purtroppo, a macchia d'olio per il mondo: sono cose che tutti sanno o fingono di non sapere, che ignorano o fingono di ignorare, di cui non parlano o di cui fingono di non parlare... ''Orbu, surdu, e taci, campi cent'anni 'n paci'', no?
Una rovina... ''Fin a quann s'ammàzzini unu ccu l'atu'', ''fino a quando si ammazzano tra di loro'', ma non funziona così, perché non si tratta di due insiemi che non si toccano, i cammini delle mafie e della società civile sembrano viaggiare per linee asintotiche, ma è pura illusione, vana, estrema speranza residuale. Basta che elementi di questi due ''insiemi'' vengano a contatto perché ci sia la conflagrazione, l'esplosione del conflitto, il dramma e la tragedia. O la resa.
Ma cosa c'entra la feudalità con la mafia o la ndrangheta?
Il procuratore generale presso la cassazione di Napoli, Giovanni Masucci, così dice nella ''Avvertenza'' alla seconda edizione (1883) della ''Storia degli abusi feudali'' di Davide Winspeare, che era apparsa nel 1811: '' L'editore ha creduto di far cosa grata ai lettori aggiungendo all'opera di Winspeare una lunga monografia di Fustel de Coulanges, tolta dal reputatissimo periodico intitolato la Rivista dei due Mondi. Lo scrittore francese ha raccolta una larga messe di documenti e di notizie attissimi a rischiarare sempreppiù l'èra feudale; sicchè utilmente questa monografia va congiunta al lavoro, quantunque incompleto, del nostro illustre concittadino (Winspeare, n.d.r.).''
Nel prosieguo della ''Avvertenza'' il Masucci osserva che: ''È mio debito però di avvertire che tutti codesti principii lo scrittore francese li ha tolti dalle opere del nostro Giovan Battista Vico senzachè egli si fosse nemmeno degnato di nominarlo. E così suole per l'ordinario accadere. Non di rado gli stranieri saccheggiano i grandi monumenti della sapienza italica; se ne appropriano i germi; li fecondano e li svolgono coi loro studii pertinaci, e con indagini accuratissime; e poscia li mandano di qua dalle Alpi come un loro trovato ed una loro creazione. Avviene delle opere dei nostri sommi quello stesso che incontra alle nostre materie grezze, le quali trasportate oltremonti ed oltremari ci ritornano manifatturate, ripulite ed in mille guise trasformate.
Vuolsi però dar lode agli stranieri per la lena infaticabile onde essi studiano nelle opere dei nostri antichi, e ne fecondano i grandi concepimenti; mentre noi, ignavi nepoti, sovente le lasciamo negli scaffali neglette e polverose.''
IV. - DEL PATRONATO E DELLA
FEDELTÀ DOPO CARLO MAGNO.
Carlo Magno rialzò l'autorità monarchica;
egli prese il titolo d'imperatore, fè rivivere le regole amministrative dell'
impero romano, le sue tradizioni e fino il suo linguaggio. Nulladimeno si
discostò sopra un punto dall'antica politica dell'impero; invece di proibire il
patronato, lo autorizzò formalmente. Egli ne fece una istituzione regolare e
legale; gli diede luogo nei suoi Capitolari.
Permise agli uomini liberi di raccomandarsi,
cioè a dire di mettersi in vassallaggio, di darsi ad un signore e prestargli un
giuramento di fedeltà. Luigi il Buono fece come lui. Carlo il Calvo andò più
lungi: pretese che ogni uomo nel suo regno avesse un signore e fosse vassallo.
Non possiamo credere che questi tre principi fossero così ciechi da non vedere
che questa istituzione dovea un giorno infrangere il loro potere; ma essi
trovavansi alla presenza d'uno di quei fatti sociali contro i quali niuna forza
può lottare. E vero che Carlo Magno metteva al di sopra dell'autorità signorile
la sua propria autorità. Voleva che ogni uomo libero, prestando il giuramento
di fedeltà a colui che facea suo signore, prestasse lo stesso giuramento al re;
ma esisteva in ciò una contraddizione. I doveri della fedeltà erano talmente
rigorosi, talmente illimitati, costituivano una subordinazione così completa di tutto l'essere
umano, che era moralmente impossibile di essere ad un tempo il fedele d'un
signore ed il fedele d'un principe. Occorreva scegliere.
Non v'ha dubbio che le classi
inferiori avrebbero preferito obbedire al principe, se si fossero credute abbastanza
protette da lui. Esse non avrebbero subito l'autorità signorile, se l'autorità
monarchica avesse potuto sostenerlo e stendere la sua mano fino ad esse. Carlo
Magno lo sapeva; e così ripete cento volte nei suoi Capitolari che vuol
proteggere i deboli.
«Che
le vedove vivano
in pace, egli dice, gli orfani, tutti coloro che sono deboli vivano in pace
sotto la nostr difesa, e che si rispettino i loro diritti». Impone ai commessarii imperiali di prender
specialmente la difesa dei poveri; ma la frequenza stessa delle sue
raccomandazioni a questo riguardo fa dubitare della loro efficacia. Istruzioni tali
non si incontrano mica negli stati
in cui i diritti dei deboli sono realmente rispettati.
Facilmente si forma un'illusione sull'epoca di Carlo Magno. Siccome le
generazioni successive furono smisuratamente infelici, si figurarono il suo
regno come un tempo di pace interna, di ordine, di proprietà. Si leggano i
Capitolari di questo principe, essi sono pieni di tratti che rivelano la
miseria pubblica, le sofferenze ed il malcontento delle popolazioni. Egli
stesso, nel suo linguaggio ufficiale, ci dice con quali disordini aveva da
lottare. «Che gli uomini liberi, egli scrive, non sieno più costretti dai conti
a lavorare i loro prati, a fare le loro coltivazioni o le loro messi». «Che
nessuno, altrove egli dice, sia abbastanza ardito di stabilire di sua propria
autorità nuovi pedaggi sui fiumi o sulle vie».
Si producevano iniquità d'un'altra natura. «Non vogliamo, dice ancora
Carlo Magno, che i piccoli proprietarii siano oppressi dai grandi; non vogliamo
che oppressi dalla furberia o dalla violenza siano costretti a vendere o donare
le loro terre». Nell'anno 811, numerosi reclami giunsero all'orecchio del
principe da parte di quella classe di uomini che la lingua dell' epoca chiamava
i poveri. Ora dobbiamo intendere che quei poveri non erano gli stessi uomini che
si chiamano con tal nome nelle moderne società. Al disopra degli schiavi, dei
coloni, dei livellarii, dei proletarii, si elevavano «quei poveri» che non
erano altri che i piccoli proprietarii di allodii. Questi uomini, che sarebbero
quasi dei ricchi nei nostri stati democratici, erano realmente poveri e deboli
nella società di quei tempi. Erano essi che più soffrivano. Non aveano la
sicurezza del servo che il suo potente padrone proteggeva. Erano
quotidianamente minacciati nella proprietà e nella libertà. Questi poveri
gridano verso di noi , dice Carlo Magno; sono spogliati delle loro proprietà;
se uno di essi nega di dare la sua terra, si trovano mille mezzi per farlo
condannare in giudizio, o lo si rovina gravandolo oltre misura dei pesi
militari, fino a che non è obbligato a vendere di buono o cattivo grado ciò che
ha o anche a darlo per niente».
L'autorità pubblica avrebbe dovuto difendere
questi uomini; ma erano al contrario i depositarii dell'autorità che li
opprimevano; erano i conti, i centurioni, i vescovi, che quegli uomini
accusavano di spogliarli. Carlo Magno era ridotto ad emettere questa singolare
prescrizione: «proibiamo ai nostri funzionarii di acquistare con mezzi
fraudolenti le proprietà dei poveri o di rapirle per forza». Allorchè Luigi il
Buono, prendendo possesso del trono, fece fare un'inchiesta generale, si assodò
«che un'incredibile quantità di uomini erano stati oppressi, spogliati del loro patrimonio, privati della loro
libertà». Così, quella monarchia di Carlo Magno, quantunque ci sembri possente,
era stata incapace di sostenere i deboli. Sotto i suoi successori, non
incontriamo le stesse doglianze, perchè non vi fu più lamento. «Tutti i
disordini crebbero in quell'epoca, dice un annalista parlando del regno di
Luigi il Buono; il regno era coverto dalla desolazione, e la miseria degli
uomini andava crescendo di giorno in giorno». Molti cronisti aggiungono che
truppe di briganti scorrevano il paese. La maggior parte di quei grandi, che
figurano nella storia dei Carlovingi, erano capi di bande armate.
Ognuno di essi teneva soldati, ed il re non ne aveva. Essi aveano la forza che
può a suo talento opprimere o difendere, ed il re non possedeva verun mezzo per
esigere l'obbedienza o dare la sua protezione. Avvenne
allora quel che era avvenuto ogni volta che si verificarono le stesse
circostanze. Il debole, il quale non trovava appoggio nell'autorità pubblica,
implorò l'ajuto d'un potente. Ciò che Cesare diceva degli antichi Galli può
ripetersi per gli uomini del IX secolo. «Ognuno si diede ad uno dei grandi per
non essere in balia di tutti i grandi» .
I contratti di patronato, di raccomandazione, di fedeltà, si
moltiplicarono; gli uomini si resero clienti, fedeli, vassalli per vivere in
pace, e sentendosi abbandonati dalla sovranità , si diedero ad un conte, ad un
vescovo, ad un barone, che si fece loro signore, cioè a dire protettore e
padrone nel tempo stesso. Ecco, secondo un antico contratto, un esempio di
queste convenzioni: «Gli uomini liberi del paese di Wolen, stimando che
Gontrano, uomo potente e ricco, sarebbe per essi un capo buono e clemente, gli
offrirono le loro terre a condizione che essi ne godrebbero come beneficiarii,
ereditariamente, sotto la sua protezione, pagandogli un censo annuale». Quegli
uomini cangiavano il loro allo dio in beneficio, la loro libertà in servitù ,
per avere un difensore.
Poscia vennero le incursioni dei Normanni. Questi uomini, che la fame o
le interne divisioni discacciavano dalla Scandinavia, non formavano che
dispregevoli truppe di pirati. Si resta sorpresi del loro piccol numero e del
male che fecero. Si dimanda come la società gallo-germanica avesse potuto
diventare ad un tratto così debole da non saper resistere a tali nemici. Alcuni
cronisti dell'epoca hanno attribuito questa incomprensibile impotenza alla
battaglia di Fontanet, nella quale il sangue guerriero si sarebbe disseccato. E
verosimile che ciò che vieppiù avvilì quelle generazioni , fu la perdita di
ogni disciplina sociale e la divisione che ebbe luogo tra esse, sicchè furono
incapaci di difendersi contro le cupidigie dei popoli poveri. Norvegiani,
Danesi, Ungheresi, Saraceni, tutti coloro che erano avidissimi ed un poco
arditi piombarono su di esse. A sì miserabili avversarii, quel gran corpo
disorganizzato non seppe opporre nè frontiere, nè armate, nè una sola flotta.
Essi attaccarono contemporaneamente da tutti i lati; erano poco numerosi, ma
siccome moltiplicavansi pel movimento, venivano incontrati dovunque, ed erano
creduti innumerevoli. Gli Africani saccheggiarono Roma, l'Italia e la Provenza;
gli Slavi e gli Ungheresi devastarono l'Alemagna; i Norvegi ed i Danesi misero
a ruba la Francia. Essi arrivavano sopra barche, risalivano il Reno, la Senna,
la Loira, ardevano le città, portavan via l'oro, distruggevano le messi ed i
villaggi, scannavano i contadini o li conducevano schiavi seco loro. «Si
vedevano da per tutto, dice un annalista, villaggi incendiati e chiese
abbattute; cadaveri di chierici e di laici, di nobili e plebei, di donne e di
fanciulli; non v'era piazza, strada dove non si trovassero morti; era un gran
dolore vedere come il popolo cristiano fosse esterminato.» — «Un anno, dice
ancora un annalista, quegli uomini del nord lasciarono la Francia perchè non vi
trovavano più come vivere».
Le popolazioni resistevano come meglio
potevano; i cronisti fanno spesso menzione degli atti di bravura, ed in tutte le
classi. I re, quegli stessi re carlovingi che si dipingono come indifferenti e
dimentichi dei loro doveri, sono al contrario attivissimi e pronti a combattere:
la loro sola disgrazia è di non potersi trovare dovunque nello stesso tempo.
Noi li vediamo sempre in moto, correndo da una frontiera all'altra per tener
fronte al nemico; essi non conoscono il riposo; Carlo il Calvo stesso tiene
sempre la spada in mano. I grandi pure mostrano coraggio; si possono contare
negli annali tutti coloro che cercano di lodare, che difendono le città, che
sorprendono il nemico, che lo mettono in rotta o si fanno uccidere. Fino i contadini
prendono le armi e difendono valorosamente il loro suolo. Il coraggio non
manca ed ognuno fa quel che può; ma non è pel coraggio che una società si
difende contro le cupidigie dello straniero, sibbene per l'unione e la
disciplina. Bisogna che le forze individuali sappiano aggrupparsi per formare
una forza pubblica. Ora era precisamente questo che mancava alla Francia del IX
secolo. La sovranità non aveva nè armate permanenti, né fortezze sue proprie,
né amministrazione regolare, nulla insomma di ciò che protegge un gran corpo sociale.
Siccome non veniva più obbedita, così era incapace di difendere le popolazioni.
Il principale risultato delle incursioni
normanne fu di far palese ad ognuno quella impotenza della monarchia; esse
furono la pruova dalla quale questa fu giudicata. I popoli non pensarono che
erano in parte colpevoli della sua debolezza. Essi non videro che una cosa
sola, cioè che la monarchia non li proteggeva. Avrebbero voluto che come il nemico si
mostrava dapertutto, così ella fosse dapertutto presente, ma non la vedevano in
nessuna parte. Essi la rimproverarono di tradirli. Questo sentimento delle
generazioni del IX e del X secolo ha lasciato tracce profonde nelle tradizioni
e nei pregiudizi delle generazioni successive. Roberto Waie, nel romanzo
di Rou, riproduce sona dubbio i pensieri degli uomini schiacciati e
rovinati dai Normanni quando fa loro dire al re di Francia:
Che fai, che tardi, che risolvi, che
aspetti? Nè da te, nè da noi si chiede pace, nè ci difendi?
Invano il re risponde che egli non è che un uomo:
Non posso da me solo scacciare i Normanni,
non posso io solo sfidar tutti. Che cosa può fare un uomo solo e qual vantaggio
ottenere, se gli mancano gli uomini che deggiono aiutarlo?
Non importa; a lui si attribuiscono tutti i mali che si soffrono:
Videro le chiese arse ed il popolo ucciso
per mancanza di re e per sua debolezza.
La debolezza infatti è quel che i popoli meno perdonano ai loro
principi. La disaffezione degli uomini verso i Carlovingi è derivata da ciò.
Siccome essi non proteggevano, si cessò di temerli e di amarli.Allora tutti gli sguardi e tutte le speranze si diressero
verso i signori. Si era certi di trovarli nel momento del periglio; non si
doveva attendere che venissero da lontano, né temere che fossero
occupati altrove,
perchè abitavano la provincia o il cantone minacciato. Tra il conte e la popolazione del
contado, tra ogni signore e gli uomini che dipendevano da lui, era visibile il
legame degli interessi. Il campo del coltivatore era la proprietà del signore;
questi la difendeva dunque come suo proprio bene; per sospettosi che fossero
gli uomini, non potevano accusare il loro signore diretto dì tradimento né
d'indifferenza.
Vincitore, non gli si risparmiava la
riconoscenza; vinto, non si metteva in dubbio che soffrisse più di ogni altro. Quel signore era bene
armato; vegliava per tutti. Forte o debole, egli era il solo difensore e la
sola speranza degli uomini. La messe, la vigna, la capanna, tutto periva con lui o era salvo
con lui.
Si fu in quell'epoca che si elevarono i
castelli. Sei secoli dopo, gli uomini furono invasi da un immenso odio contro
quelle fortezze signorili; nel momento in cui si costruirono, essi furono
compresi da amore e riconoscenza. Quelle fortezze eran fatte non contro dì essi, ma in loro favore; desse erano
il posto elevato da cui il loro difensore spiava il nemico; erano il sicuro
deposito delle loro raccolte e dei loro beni. In caso d'invasione, davano esse
asilo alle loro donne, ai loro figli, a loro medesimi. Ogni castello era la
salvezza d'un cantone.
Le generazioni moderne non sanno più ciò che sia
il periglio. Non sanno più che cosa sia tremare ogni giorno per la propria
messe, pel pane dell'anno, per la capanna che si ama, per la moglie, pei figli.
Non sanno più ciò che diventa l'anima sotto il peso u un tale terrore, e quando
questo terrore dura ott'anni senza tregua né grazia. Ignorano cosa sia il
bisogno di esser salvati. Un tale
bisogno fé tutto obbliare; non si pensò nè ai re che non si vedevano, nè alla
libertà di cui non si sarebbe saputo che farne. Si obbedì a coloro dai quali si
era difeso; si diede la servitù in cambio della sicurezza. Migliaia e migliaia
di contratti si formarono fra ogni padrone
di un campo ed il guerriero a cui si doveva la vita.
Allora si stabilì ciò che quegli uomini
chiamarono il diritto di salvamento o
il diritto di custodia. I piccoli
proprietarii, i lavoratori, tutti coloro che ancora erano liberi, ma che
avevano bisogno di essere difesi contro l'invasore straniero o l'oppressore
vicino, si rivolsero ad un guerriero e conchiusero con lui un contratto. Fu
convenuto che l'uomo di guerra salverebbe e custodirebbe il lavoratore, la sua
famiglia, la sua casa, i suoi mobili e il suo frumento. Dall'altra parte fu
stabilito che il lavoratore pagherebbe questa protezione mercè un tributo
pecuniario e l'obbedienza. Tali contratti ordinariamente erano scritti in
questa forma: «Io vi ricevo, diceva il guerriero, in mia salvezza e difesa, e
vi prometto in buona fede di custodir voi ed i vostri beni, come deve farlo un
buon guardiano ed un signore». Il lavoratore da parte sua scriveva che
riconosceva essere sotto la protezione e custodia di quel signore. In molte
carte, il primo veniva indicato col nome di salvatore, il secondo con quello di
salvato; la convenzione chiamavasi un salvamento, ed il censo che vi era
attaccato portava lo stesso nome. La convenzione ordinariamente era fissata in
modo irrevocabile col contratto medesimo. «Umberto, nobile signore, è tenuto di
custodire e difendere gli uomini della castellania di San Germano, e noi, in
cambio di questa buona custodia, ci obblighiamo di pagare, a lui ed ai suoi
eredi, un censo annuale di cento soldi di argento.» — «Il villaggio pagherà al
visconte cinque soldi a titolo di commendazione,
e mediante una tal somma il visconte si obbliga di salvare sempre e dovunque
gli uomini del villaggio, sia quando si trovano nelle loro case, sia quando
vanno e vengono». Ciò che chiamavasi commendazione era lo stesso che salvamento
o guardia. Ecco un'altra formola del contratto: «Il signore ha la custodia di
tutti gli abitanti del villaggio e di ognuno di essi in particolare; sopra ogni
casa che avrà l'aratro, preleverà un sestiere di biada; su quella che non ha nè
aratro nè bovi, ne preleverà una quarteruola». In un altro villaggio ogni
famiglia deve al salvatore un mezzo stajo di avena, due danari ed un pane.
D'altronde gli uomini debbono fare per lui tre giornate di lavoro ogni
anno. Nei paesi vignajuoli, l'uomo di guerra si obbliga di custodire le vigne,
ed ogni vignajuolo gli fornisce una misura di vino. Talvolta ancora egli si
obbliga di proteggere sulle strade maestre i vetturali che trasportano il vino,
e questi gli pagano un diritto di protezione. In alcune provincie, il canone
del salvamento si chiamava la ventina; essa consisteva nella ventesima parte
dei covoni o nella ventesima parte delle frutta e del vino. Codesto diritto
signorile è stato stabilito in origine mercè una serie di convenzioni
particolari tra ogni signore e gli abitanti della terra, ed era il prezzo con
cui costoro pagavano la protezione che quegli si obbligava di assicurar loro.
Talvolta il contratto stipulava che il prodotto del ventesimo sarebbe
interamente impiegato a fortificare il castello che era la sicurezza del
villaggio. Si aggiungeva ancora che i contadini dovrebbero due giorni di
servitù ogni anno per lavorare alle fortificazioni. Questo salvamento è stato,
non la sola origine, ma una delle origini principali della feudalità. La
protezione ha trascinato seco l'assoggettamento. Il salvato si è fatto
servitore, ed il salvatore è stato inevitabilmente un padrone. Custodia e
comando si sono confusi. Gli uomini soffrivano e tremavano troppo per pensare
alla loro libertà; tra il vassallaggio e la rovina non hanno esitato. Si sono
sottomessi per esser difesi. Il giogo non è stato loro imposto per forza; essi
lo hanno accettato mercè un formale contratto. Non sono stati presi
violentemente dall'autorità signorile; le sono andati incontro. Siccome
vivevasi d'altronde in un tempo in cui il debole teneva più alla protezione che
il forte non tenesse all'autorità, consentirono a pagare il prezzo di questa
protezione, e sembrò loro naturale d'indennizzare il signore delle sue cure e
della sua pena. Più tardi, quando il corso dei secoli ebbe modificato tutta
l'esistenza umana, un tal contratto sembrò ingiusto, ed è certo che non
corrispondeva più allo stato politico ed economico delle società novelle, ma
l'istoria deve attestare che vi è stato un tempo in cui questo contratto è
stato conforme agli interessi ed ai bisogni degli uomini.