Da qualche anno vado strolichijànn, più o meno in solitaria, sulla storia dei paesi ai quali devo le mie origini: 'devo' non è casuale, ha la stessa radice di 'debito', e forse i debiti, una volta contratti, non si estinguono mai, hai voglia di dire 'i debiti si paghini, i peccati si ciàncini', non è esattamente così, perché tanto degli uni quanto degli altri rimangono sempre tracce. Finita la divagazione, passo a qualche considerazione.
Un'altra estate è in pieno corso, un'altra estate in cui verranno alla ribalta le solite (ossimoro o no) consolidate fragilità paesane e regionali, fragilità, o problematiche, comunque situazioni, che nascono da una diffusa, quanto ineludibile, condizione non di arretratezza culturale, ma strutturale: è un ritardo difficile da cancellare, un gap che ci perseguita da secoli, i cui 'presupposti', cioè le cause scatenanti e costituenti, si muovono sempre solidarmente, fiaccando le speranze di una eliminazione o riduzione del distacco. E' difficile recuperare, tutto qui, nonostante gli sforzi non manchino, dei cittadini come delle istituzioni, spero. Ma sperare si può fino a che punto? Che non si tratti, invece, di una dura, più che pia, illusione?
Se avessimo modo di uscire fuor del pelago e voltarci a rimirar lo passo, cosa vedremmo? Forse una situazione mutevole sì, ma altrettanto immutabile: è forse questo il nòcciolo del 'tutto cambi perché nulla cambi', cioè la reiterazione inattaccabile del già visto, del già sedimentato, sicché anche per quest'anno proclami tanti, altrettante scosse che sembrano agitare chissà quali tellurici sommovimenti, e poi? Poi tutto torna, anzi rimane, nella norma, e la sonnolenza, il 'tirami avanti', il 'mancia e fricatinni', il 'ma cchi nni voliva fare' hanno la meglio ancora una volta e, a quanto pare, per sempre o almeno per ora.
Insomma, un'altra evidenza del 'fuja quantu vo'...
In questi giorni di cicalìa, pardon, calura, per cosa ci stiamo agitando, senza nemmeno tanto sforzo, noi amanti della chiacchiera e della visibilità sui social? Delle stesse cose degli ultimi anni: Madonna di Mare che crolla, un Museo Civico che appare e scompare, l'organizzazione di eventi, di serate, l'offerta di qualsiasi cosa possa attirare il turista, l'ammodernamento della SS 106 e della ferrovia jonica, qualche rotatoria che ci piace oppure no, la raccolta della spazzatura, cioè si passa o un passa u cammiju... e ultima in ordine di apparizione, 'u tubbu'... già, 'u tubbu': mi sono sempre domandato in quale altro paese al mondo, e quale paese (centro abitato da una comunità) abbia mai scelto un residuo, o reperto, di archeologia postindustriale come elemento qualificante del paesaggio sul quale insiste... Finalmente qualcuno si accorge che quel pontile, lì, non dovrebbe esserci, e forse mai avrebbe dovuto esserci, al pari dello stabilimento piazzato nel bel mezzo di un sito archeologico... Credo che ci abbiano trattato proprio come dei cretini morti di fame decidendo di realizzare in quella posizione quel sito industriale, cioè sfruttando la fame di lavoro degli abitanti del posto... bastava realizzarlo a pochi chilometri di distanza da dove si trova, quell'obbrobrio, al quale comunque tante famiglie sono riconoscenti per forza di cose. Ora che tutto è finito, cosa ci rimane di tanto ventilato benessere? Cartoline con un tubo arrugginito, e reperti archeologici che probabilmente nessuno potrà più portare in superficie, sepolti sotto quelle strutture.
Comunque, l'importante è che nulla cambi, anche se l'illusione si fa sempre più dura e la speranza sempre più una chimera.
'E se si rompe l'illusione?' - dissi con un filo di voce.
'Ma cosa deve rompersi...' - mi tranquillizzò. (J.L. Borges, 'Esse est percipi').