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domenica 10 aprile 2016

§ 214 100416 Cirò e a Marina al centro di un caso letterario internazionale!




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  3. Preg.mo Direttore, confesso che la sua seconda nota o meglio la sua nuova e puntigliosa messa a fuoco della mia ancora inedita opera, che tanto sta scuotendo le tornate etilemiche dei maggiori sporzèon dell’universo mondo – sia detto senza falsa modestia – ha svolto diligentemente il mandato da lei assegnatole, cioè di rappresentare verso i maggiori sodalizi culturali, sparsi in ogni rasa, una lectio affatto diversa di quella che oramai è, dopo il mio ancora incognito saggio e la sua di lei divulgazione, diventata un’indifendibile menzogna, svuotata di ogni argomentazione plausibile. Annuncio con ciò una nuova era nei rapporti con gli albionici, solidamente perfidi da più di due secoli almeno, asserendo che il loro William Shakespeare non era, né mai è stato William Shakespeare, ma Guglielmo Scotulalancia oriundo cirotano in terra anglosassone, come ha lei ben disteso nella sua Corriera, con ampio trasporto e brillante capacità comunicativa.
    Le suggestioni che si possono trarre dalla lettura del suo articolo inducono a pensare che i temi da me affrontati nel saggio potrebbero essere sottoposti all’attenzione del colto seguito della sua Corriera.
    Tuttavia, perché i suoi lettori possano farsi un’opinione più precisa della matière dell’opera mia, potrei esporre in breve qual è il suo contenuto; ma non lo farò. Dirò soltanto che lo studio prende le mosse dal già citato passo tratto dal “Sogno di Una notte di mezza estate”, da lei già pubblicato – purtroppo, ma non voglio lamentarmi – per dire che il Rinascimento, al suo massimo splendore, ha fatto convergere, in questo periodo, al Cirò gli spiriti più eletti della cultura dell’epoca: Casopero, Lilio, Lacinio, per citare solo i maggiori (che Francesco Vizza ha già sviscerato diffusamente); pure Rafele da Bannera è tra loro e con Rafele il mistero scotulaciano s’infittisce.
    Sono questi gli ultimi anni che Rafele da Bannera trascorrerà in Italia e a Cirò, prima che il suo cammino artistico e umano si spenga in terra Inglese. Perché questa scelta di Rafele, che sembra quasi significare il passaggio del testimonio fra la vecchia generazione dei grandi cirotani del Rinascimento e i nuovi emigranti? È la domanda. Il mistero si svela soltanto se si pensa a quel Matteo Bandello che nell’agosto del 1506 venne in Calabria, nel convento di Altomonte, a riprendersi il cadavere di suo zio Vincenzo Bandello, Generale dell’Ordine domenicano, morto improvvisamente. Ad Altomonte Matteo conobbe biblicamente una certa Anciulina a Cirotana e, come fu e come non fu, nacque Rafele, detto poi impropriamente da Bannera invece che Bandello (i Cirotani storpiano spesso i nomi).
    Per farla breve, Rafele ereditò dal padre Matteo Bandello, che era un religioso, puttaniere e pure novelliere, oltre che l’irrequietezza anche le novelle, che poi porto con se in Inghilterra. Qui conobbe il nostro compaesano Guglielmo Scotulalancia, che nel frattempo, per lavorare, si faceva chiamare all’inglese Shakespeare William, e gli fece copiare, pagando, “Molto rumore per nulla”, “La dodicesima notte”, un po’ di “Romeo e Giulietta” e sicuramente anche il “Sogno di una notte di mezza estate”, altrimenti non si spiega perché ho ritrovato la versione cirotana che lei, caro direttore, ha pubblicato sulla Corriera. Il risultato fu che Guglielmo diventò famoso e Rafele povero e alcolizzato. Questo rapporto fra il giovane Guglielmo e l’ammirato Rafele da Bannera costituisce il secondo tema su cui si articola il mio scritto basato sull’analisi di sottili corrispondenze letterarie. Qui mi taccio e di più non dico altrimenti non arriverò a mettere insieme nemmeno i soliti 25 lettori.
    Un caro saluto.

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